Famiglie Storiche di Ponzano Veneto

La famiglia patriarcale

Sante Rossetto

Non si può immaginare la civiltà contadina senza la famiglia patriarcale. Concetto e realtà che hanno abitato e percorso l’Europa almeno sino alla fine dell’Ottocento, quando le troppe bocche in un
medesimo nucleo lo hanno costretto allo smembramento con l’emigrazione per poi disintegrarlo definitivamente con la rivoluzione silenziosa degli anni sessanta del Novecento.

Per conoscere questa entità poliedrica ci sono di aiuto gli autori di agronomia del nostro passato, da Camillo Tarello, padovano del Cinquecento, al coevo bresciano Agostino Gallo. Cui va il nostro trevigiano Giacomo Agostinetti. Che nacque a Cimadolmo nel 1597, lavorò quarantacinque anni come fattore in varie terre dello Stato veneto per concludere la sua laboriosa esistenza nel 1682 nella terra natìa. Regalando alla letteratura veneta e all’agricoltura nazionale il suo più volte stampato Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa.

C’è da imparare ancora oggi dalla lettura di queste straordinarie pagine. Dentro le quali scorre la vita e l’esistenza della casa e della famiglia patriarcale. Perché un nucleo numeroso, composto da e magari era soltanto un lavoratore dipendente (oggi bracciante agricolo), dormiva in stalla accanto alle bestie. Che sono quasi equiparate alle persone perché senza la “boaria” la terra non si poteva lavorare. E non preoccupiamoci per l’igiene perché in campagna i profumi erano quelli naturali dei rgli faceva parte del contesto naturale.

Gli uomini sposati avevano ciascuno la propria camera che, possibilmente, era limitrofa alla cucina.
D’inverno un po’ di calore si poteva assaporare nella stalla e, ma non troppo a lungo, in cucina. Così –
scrive il nostro fattore – le madri possono passare in fretta, con i loro “fantolini” in braccio dalla cucina
al letto senza percorrere un tragitto esposto al freddo. Sotto il letto, forse, un po’ di calduccio si era
preventivamente procurato con qualche sistema che la tradizione ha conservato fino a tempi recenti.

La casa contadina era ampia, rivolta a mezzogiorno, con un porticato e un’aia che ospitava cereali
e prodotti da essiccare. La cucina era ampia con un tavolo anche questo consono alle esigenze di
una famiglia plurinucleare. Sullo sfondo, nella parete rivolta a tramontana, prima che arrivassero le
cucine economiche, signoreggiava el larin affumicato, con una catena penzolante che prima dell’imbrunire reggeva un pentolone fumigante di polenta. Era lei, la parona moglie del paron de casa che
dava gli ordini alle nuore, che non avevano diritto di parola. Quando si sposavano queste ragazze
dicevano che “andavano in fameja”. Voleva dire che sarebbero andate a vivere con lo sposo nella
grande famiglia patriarcale dove, come era prassi, avrebbero trovato altre giovani nuore e cognati
che dovevano, senza troppe discussioni, obbedire agli ordini del patriarca. Che era il “paterfamilias”
senza la cui presenza non ci si poteva nemmeno mettere a tavola. Lui aveva il suo posto a capotavola
con la sedia padronale.

Si mangiava senza troppe parole, ascoltando le osservazioni del paron sui lavori svolti, le criti-che se qualche cosa non era stato effettuato come avrebbe dovuto, si preparavano gli impegni del un uovo. Lui, il patriarca, aveva un trattamento a parte e, mentre il resto della famiglia rimaneva con un piatto di insalata e i piccolini con una fetta di polenta intinta nel latte appena munto ingo-iato in compagnia delle mamme non meno affamate dei loro bambini, gli era servito un cosciotto di gallina o pollastro che gustava schioccando maleducatamente le labbra suscitando l’invidia silenziosa di tutta la tavolata.

Se era estate, conclusa la cena comunque ricca di genuinità dei prodotti dell’orto e del pollaio, i giovani uomini andavano a digerire nel brolo senza l’ingombrante presenza del padre-padrone. Le nuore, invece, erano impegnate a preparare i bambini per andare a letto lavandogli i piedi che dopo una giornata trascorsa in cortile non erano candidi oppure dovevano lavare le stoviglie, attizzare l’ultimo fuoco e lavare il pentolone della polenta racimolando i resti raggrumati agli orli che la mattina dopo avrebbero costituito il misero pasto dell’immancabile cane. Le nuore non avevano diritto di lamentarsi anche se spesso potevano averne perché non sempre la vecchia parona era comprensiva.

La cantina, che sorgeva due piedi (circa settanta centimetri) sotto il livello del terreno, era rivolta a nord e manteneva una temperatura costantemente fresca. Quel locale era off limits per tutti perché le chiavi erano nelle mani del paron che decideva come e quando spillare il vino dalle botti. Qui, ben era el moscheto, che svolgeva le funzioni dell’attuale frigorifero. Era una cassa con i lati formati da reti sottili impenetrabili per insetti e ancor più per gatti o topolini dove si conservava el butiro, il formaggio e la carne di maiale pronta per essere messa in tavola. Quest’ultima, per la verità, ai primi tepori veniva attaccata dalle camołe, fastidiosi vermicelli che spuntavano tra la scorza avvolgente di budello e la carne. Era segno che bisognava affrettarsi a mangiare i saładi eliminando le parti intaccate.

Nei giorni di mercato trevigiano, martedì e sabato, el paron dopo aver dato le disposizioni per i lavori attaccava il cavallo al birocin, che le famiglie più facoltose possedevano, e trotterellava con il cappello ben calcato verso la città orgoglioso e sorridente della manifesta invidia che suscitava nella gente che incontrava. Al mercato osservava la merce con l’occhio di chi sa il suo mestiere e non si fa turlupinare negli acquisti. Era l’occasione settimanale di chiacchierare di affari e lavori con altri paroni soldo dovevano quasi sempre chiederlo a lui che amministrava con saggezza (lui la chiamava così) i schei. Immancabile dopo una certa ora l’appuntamento in osteria per un gotto di bianco e un piatto di trippe che tutti gustavano dandosi arie da enologi apprezzando, o anche criticando, il vino che bevevano facendo il paragone con quello che tenevano nelle loro cantine. El paron tornava a casa per gli altri tornavano nei campi.

La domenica la famiglia partecipava alle funzioni religiose. Le donne, eccetto la parona, alla messa prima, mentre i mariti mungevano le vacche. Tornate le nuore a casa preparavano la merenda per gli uomini e i bambini che dovevano andare alla messa del fanciullo. Gli uomini adulti, invece, si trovavano sul sagrato per la messa ultima. Il vecchio paron de casa ci andava con la moglie come gli altri paroni per ritrovarsi, a fine messa, nell’osteria principale a sorbire un vermout.

C’era un po’ di allegria a tavola il giorno di festa. Perché, oltre i lavori della stalla, altro da fare non c’era per rispetto al giorno del Signore. Il sabato pomeriggio i bambini avevano pulito con cura a tutti toccava la propria “parte” di pollo. Il pomeriggio si trascorreva in osteria, i paroni con spirito di casta giocavano tra loro alle carte e gli altri uomini ałe bałe. Fino al momento della cena i vecchi, un’ora prima gli altri uomini che dovevano occuparsi della stalla. E già pensavano che domani si tornava al duro lavoro.

La famiglia patriarcale presentava delle incongruenze con quel paron e parona che governavano il loro microcosmo con metodi rigidi cementati dalla tradizione di secoli. Ma aveva anche degli aspetti positivi. Chi rimaneva dentro il suo guscio si sentiva protetto come, se non di più, nel futuro welfare statale. Ognuno aveva un suo ruolo, serviva alla piccola comunità familiare ed era un ingranaggio indispensabile. Non sarebbe mai stato espulso e la parola “esubero” non sarebbe mai stata pronunciata. In quel nucleo c’era sempre un pane, una minestra, un gotto di vino. Anche se tutto sotto il controllo dei paroni.

Un decennio dopo la metà del Novecento la società ha trasformato se stessa. Ed è stato un cambiamento storico mai visto prima. Quelli che sono vissuti in questo nuovo periodo sono stati chiamati “la generazione fortunata”. La storia prima aveva riservato al genere umano una serie di guerre interrotte da brevi periodi di pace. Ora, invece, era scoppiata la pace. Che ha portato nuovi valori, nuove iniziative, un mondo nuovo. Non sempre migliore di quello che stava venendo abbattuto. Sparirono i paroni sostituiti da altri che si facevano chiamare “imprenditori”. I giovani abbandonarono la terra che era stata un piccolo porto sicuro, ma non sempre sufficiente. I grossi nuclei si
frantumarono e nacquero le famiglie composte di poche persone, le donne abbandonarono i lavori domestici per entrare in fabbrica o in ufficio, i bambini e i ragazzi trascurarono l’oratorio per ammassarsi nelle balere, le biciclette restarono in cantina a beneficio delle vespe, il sogno degli anni sessanta, le chiese aprirono vuoti nelle navate un tempo sempre affollate.

Era sorto un mondo diverso con villette che occuparono i vecchi broli, le antenne che portavano le immagini del mondo in casa, la gente che non aveva più tempo per chiacchierare e fermarsi per una pur inutile ciacoła. Le nuove frontiere sociali avevano costretto l’individuo a rinchiudersi, subire i messaggi pubblicitari, affrettarsi per avere una manciata di tempo libero conteggiato da un nuovo tiranno: l’orologio. Le statistiche osannarono i traguardi della tecnica e del progresso. La vita si allungava, dalle strade occupate dalle auto erano spariti cavalli e mussi, una frenesia travolgente si era impossessata della nuova società. Si moltiplicavano le famiglie formate da una sola persona (mononucleare), gli anziani erano accalcati nelle case di riposo. Addio vecchi patriarchi e vecchi paroni che avevate sempre qualche cosa da insegnare. Anche il vostro tempo è finito. Come finirà il nostro. È
l’inevitabile ciclo della Storia. Almeno – per dirla con l’immenso Foscolo – «finché il sole risplenderà sulle sventure umane».