Famiglie Storiche di Ponzano Veneto

Famiglia piccola Chiesa

Ivano Sartor

La civiltà rurale non esiste più, sostituita dalla società industriale o dei consumi di massa, a sua volta superata dall’era delle tecnologie e delle comunicazioni diffusive, globalizzate; l’antica società rurale è però appena dietro l’angolo, alle nostre spalle, ricca di ricordi e di tradizioni che, puraramente sopravvissute al travolgente progredire, permangono se non altro nei ricordi di molti, anziani e persone che anche se ancora non sono nella terza età hanno fatto in tempo a sperimentare gli epigoni di quella speciale forma di vita che si svolgeva nelle campagne venete.

Quel tipo di società senza dubbio poggiava sulla dimensione familiare, regolata al suo interno da gerarchie, non solo di persone ma anche di valori. Tra questi, la religiosità non era posposta a nessun altro; semmai essa si accompagnava ad altri ideali quali l’onestà, l’eticità del lavoro, la solidarietà, solo per citarne alcuni.

I ritmi vitali del mondo contadino erano praticamente tutti in relazione all’andamento delle stagioni e quindi costituivano elementi ripetitivi, ciclici, che si sedimentavano nelle esperienze individuali. Il calendario della famiglia contadina non prevedeva solo le occupazioni lavorative tipiche di ogni mese, ma si ritmava sulle festività del culto cristiano. I nostri vecchi conoscevano bene i santi e sapevano in quale giorno si celebrasse la loro festività, aiutati in questo esercizio mnemonico dai tanti proverbi che essi conoscevano e con i quali posizionavano le scadenze cultuali in precisi contesti stagionali. Sant’Agnese el vento su par le siese diceva che al 21 gennaio si era ancora nel pieno delle intemperie invernali, ma con una certa contraddittorietà con l’altro adagio San Bastian la viola in man, che cadeva il giorno prima e voleva dire che a gennaio inoltrato ormai si era in vista della vèrta, la primavera; il giorno della Santa Croce non si mancava di ricordare che a Santa Crose se bate le nose. Si potrebbe continuare all’infinito o quasi nel ricordare i tanti proverbi popolari basati sui giorni dei santi e sulla loro calendarizzazione.

Nell’organizzazione del tempo nella vita di ogni famiglia rurale esisteva un discrimine tra i giorni della settimana, dove il feriale era del tutto differente dal festivo; il dì di festa, non solo la domenica ma tutte le altre feste di precetto, era vissuto in modo differente. A parte la proibizione del lavoro, in ossequio al precetto di santificare le feste, la domenica era il giorno dell’apertura alla dimensione sociale, nel quale la famiglia tutta insieme e comunque all’unanimità si dedicava ai santi precetti, soddisfacendo all’obbligo della santa messa; l’eventuale assenza veniva puntualmente annotata dal parroco il quale poi dava informazioni sulla dimensione del fenomeno degli “inconfessi” al vescovo quando giungeva in visita pastorale alla parrocchia. Per secoli accadde così e nelle relazioni per le visite vescovili dei secoli XVI-XX si trovano i ragguagli sulla più o meno religiosità delle singole comunità locali misurata anche attraverso la dimensione della partecipazione dei parrocchiani ai divini sacrifici. Chi perseverava nei suoi comportamenti irreligiosi o agnostici era considerato un poco di buono e veniva guardato con sospetto, divenendo oggetto di riprovazione sociale.

Ancor più grave era il caso di chi non si accostava ai sacramenti della confessione e della comunione, almeno per la Pasqua annuale; era la Pasqua il punto focale della liturgia cristiana, come rimane ancor oggi nelle Chiese dell’ortodossia, poi prese il sopravvento l’enfasi natalizia, spinta dal consumismo.

Spesso, in età controriformistica, i pochi inconfessi venivano redarguiti e segnalati nominativamente al vescovo. In genere non si trattava di singoli casi, poiché la famiglia avrebbe pensato lei a riportare all’ovile la “pecora nera”; più spesso era l’intero nucleo adulto di una famiglia a essere lontano dalle pratiche religiose. Si trattava però di casi veramente isolati, percentualmente irrilevanti.

Nella vita delle famiglie rurali la religiosità permeava l’esistenza in ogni suo momento ed era il calendario devozionale a ritmare il tempo. Non solo con i precetti più rilevanti: Natale, le Ceneri, Quaresima, Pasqua, Pentecoste, Ascensione (la Sensa), Corpus Domini, le varie festività mariane (l’Assunta, l’Immacolata, il Carmine…), i Morti e altre ancora. A queste grandi ricorrenze si aggiungeva il culto speciale a determinati santi, invocati nelle comunità con intenti apotropaici, cioè cercando di lucrare benefici per la salute del corpo: basti pensare a Santa Lucia per gli occhi, a Santa Apollonia per il fastidioso mal di denti, a Sant’Agata mutilata ai seni per invocare la liberazione dalla gravissima eventualità della mancanza di latte nelle puerpere, circostanza che nelle famiglie povere avrebbe condannato il neonato. La maternità di queste figure ausiliatrici nella protezione dalle disgrazie fisico-corporali era un fattore evidente, così come lo era la maternità della natura. C’erano poi i santi specializzati contro le pestilenze, quali Rocco e Sebastiano, c’erano quelli invocati contro l’epilessia o “mal caduco” (San Valentino prete e martire) e attorno ai riti verso di loro praticati si radunava la famiglia, che spesso nel giorno del santo assumeva tutta insieme il pane distribuito dalla confraternita parrocchiale, che si diceva appunto “il pane di San Valentino”. La prerogativa del pane benedetto non apparteneva tuttavia al solo San Valentino e in diverse parrocchie l’usanza venne estesa anche ad altre confraternite, in onore di qualche speciale santo protettore.

In casa si prolungavano i riti celebrati coralmente in chiesa. Io stesso ricordo che in famiglia
nel mese di ottobre, appena sparecchiata la tavola, nel dopocena si girava la sedia impagliata e ci
si inginocchiava verso il desco per recitare tutti assieme il Rosario in quel mese della Madonna.
E tutta la famiglia vi partecipava. Una circostanza nella quale si pregava, sotto la spinta della disperazione, era quando sulla campagna si stava abbattendo un terrificante temporale che scagliava grandine sui prodotti: era quello il momento di invocare Dio e i santi, bruciando l’ulivo mentre si recitavano le orazioni, utilizzando il ramoscello benedetto che era stato distribuito in chiesa il giorno delle Palme, al fuoco della candela della Seriola, offerta dal parroco il giorno della Purificazione di Maria Vergine.

Nessuno dei componenti della famiglia avrebbe poi messo in discussione il posto d’onore che spettava in casa ai santi ai quali tutti ricorrevano invocando la protezione sugli animali, sulla stalla e sul pollaio; per una devozionalità di stampo utilitaristico, ma non per questo meno sincera di quella che si praticava per gli umani, le stalle delle famiglie contadine erano visivamente presidiate dalle immagine dei santi preposti alla salute degli animali, primi fra tutti Sant’Antonio Abate col suo inseparabile maialino e San Bovo. Non raramente era la famiglia a porre ritualmente altre immagini di devozione nei punti strategici della campagna lavorata; più che per iniziativa della parrocchia o della comunità paesana, com’era nel caso dei Capitelli (le famose edicole sacre che punteggiano anche e soprattutto il territorio dei Veneti), nel caso degli “alberi sacri”, meno formali e privi di “ufficialità” era per iniziativa della famiglia del posto che essi venivano realizzati, ponendo una semplice immagine sul supporto naturale e di minimo dispendio, quali erano gli alberi di legno pregiato e resistente, come le querce, gli olmi, i frassini e così via.

In alcuni casi specifici la famiglia diventava protagonista anche nei riti di culto; basti pensare al ruolo che parecchi nuclei familiari assumevano durante le Rogazioni ordinarie che si svolgevano fino ai confini della parrocchia, nelle varie direzioni, nei tre giorni che precedevano l’Ascensione, quando il parroco e molti devoti percorrevano le campagne processionalmente, salmodiando e cantando le litanie, per lo più discostandosi dai percorsi stradali, con lo scopo di benedire i campi e implorare la protezione celeste sui frutti della terra. Alcune famiglie insediate in determinati punti del territorio allestivano un altarolo nel sito dove il celebrante si sarebbe fermato per impartire la benedizione alle coltivazioni e alle crocette in legno preparate numerose, che poi sarebbero state
poste nei punti cardinali della campagna. Era un momento straordinario di avvicinamento della religiosità rituale alla religiosità della vita quotidiana e tutta la famiglia concorreva devota e premurosa ad onorare il privilegio d’essere toccata dal percorso rogazionale.

Nel microcosmo dei paesi di provincia le distanze tra i ceti sociali residenti nel villaggio venivano attenuate dalla prassi di una vita nella medesima comunità, condividendo con i compaesani o almeno con alcuni di loro un po’ di quotidianità, come accadeva quando andavano a messa nella stessa chiesa (e giustamente il vescovo concedeva, fatte rare eccezioni, che la celebrazione delle messe negli oratori patrizi avvenisse solo nei giorni non festivi), oppure quando tutti partecipavano comunitariamente alle ritualità connesse alla raccolta dei prodotti, dalla vendemmia alla mietitura; purtuttavia le differenze di vita anche se attenuate non venivano annullate e alla s sfine dei conti persisteva la distinzione concreta tra i differenti ceti. Un segno visibile di distinzione delle famiglie dei maggiori possidenti era la presenza in chiesa dei banchi di famiglia, fatti costruire a spese del nobile o del signorotto locale, con ben visibili il nome o le insegne araldiche, qualora esistenti. In alcune chiese rimangono ancor oggi le testimonianze storiche di questa usanza. La famiglia del notabilato locale andava a messa compatta, a ribadire e perfino a esibire la propria rilevanza.

La sacralità della vita familiare, costruita sulle basi dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale e del quarto comandamento («onora il padre e la madre») si esprimeva nelle case contadine, oltre che con la più o meno evidente coerenza dei singoli, anche attraverso un linguaggio visivo; nessuna camera degli sposi era priva di un’immagine sacra appesa sopra il letto matrimoniale, con la raffigurazione prevalente della Sacra Famiglia, a rammemorare l’alto esempio celeste da imitare, né mancavano ai lati del talamo le piccole acquasantiere in cotto o in ceramica per attingere l’acqua benedetta al momento delle orazioni serali prima di coricarsi, così come sopra i letti dei figli
figuravano le immagini della Madonna col Bambino, spesso con riproduzioni a stampa di opere dipinte da grandi artisti.

Con l’evoluzione della seconda metà del Novecento i connotati della religiosità familiare andarono progressivamente sbiadendosi; i Veneti che sono oggi viventi, anche se molto anziani, non sono ormai più dei testimoni della pratica di recitare una preghiera prima di sedersi al desco familiare, un costume ora praticato solo dalle comunità religiose e se qualche famiglia lo pratica ancora, si tratta di una rarità assoluta; si pensi che fino alla fine dell’Ottocento era una pratica diffusa pressoché in tutte le famiglie rurali, una pratica che si è conservata nei nuclei familiari degli eredi di quelle famiglie che nell’ultimo quarto dell’Ottocento sono emigrate nell’America del Sud, dove
io stesso ho potuto constatare la vitalità sino ai giorni nostri di tale pia abitudine.

In definitiva, prima della secolarizzazione della christiana societas ogni famiglia cattolica avrebbe dovuto – secondo l’impostazione dei predicatori del tempo e gli insegnamenti dottrinali – costituire una Chiesa in miniatura. Era un concetto attuato, che poneva il laicato cattolico, ancor prima degli approfondimenti conciliari, su un piano di nobiltà e distinzione rispetto al clero, il piano della dignità sacramentale della vita familiare, ma era allo stesso tempo un concetto non facile da assimilare teologicamente, quasi fosse un’insidia al “primato” del sacramento dell’ordine sacro, tanto che quando nel 1949 il presidente centrale dell’organizzazione giovanile dell’Azione Cattolica Carlo Carretto diede alle stampe un suo libretto dal titolo Famiglia piccola Chiesa fu duramente attaccato dalle gerarchie italiane e perfino nel seno degli Uomini Cattolici, che non accettavano l’attacco di Carretto alla concezione borghese della famiglia. Il Concilio era ancora lontano e il conformismo verso la tradizione doveva costituire la regola.

L’argomento famiglia è sempre stato, del resto, un tema divisivo; non mancavano, nemmeno della società rurale protrattasi fino agli anni ’60-’70 del Novecento, visioni discordanti e prassi divergenti. Il resto è storia recente; quel tipo di famiglia è sparito ed è stato sostituito da una realtà sociologicamente del tutto differente, determinata da modelli economici nuovi che hanno imposto una tipologia familiare del tutto nuova, non più patriarcale e spesso addirittura unicellulare, non più impostata sulla netta distinzione dei ruoli ma di tipo cooperativo, non più prolifica ma con tassi di natalità al disotto del limite delle esigenze demografiche, fortunatamente non più autoritaria ma dialogante.

Fatte le debite eccezioni, naturalmente.