Crisi nelle campagne trevigiane

LA TECNOLOGIA: LE MACCHINE AGRICOLE

Gli aratriG.Polo, Ponzano Paderno Merlengo… , cit.

Il problema dell’efficacia degli aratri è complesso, ma può essere ridotto ai seguenti punti: servono attrezzi che penetrino profondamente nel terreno, che rovescino la zolla che viene staccata e la frantumino, possibilmente senza richiedere un grande sforzo di trazione. Nonostante gli aratri impiegati risultassero da un lungo processo di adattamento all’ambiente in cui erano utilizzati, quelli presenti non erano assolutamente all’altezza degli obiettivi appena enunciati.

Certamente non esisterà mai un aratro “migliore” in senso assoluto, ma può esistere un aratro migliore di un altro nell’ottenere determinati risultati. Vanno quindi individuate delle priorità in base alle esigenze locali, che trovano risposta in certe caratteristiche fisiche dell’attrezzo.

Purtroppo gli aratri antichi difettavano completamente in alcune caratteristiche che sono fondamentali. Per prima cosa è necessario che siano costruiti in ferro, in maniera totale o quantomeno preponderante. Questo per garantire un peso sufficiente allo strumento, in modo da penetrare in profondità nel terreno. In secondo luogo i migliori rendimenti vengono assicurati dalla forma asimmetrica, che garantisce un migliore rovesciamento della zolla tagliata. Infine la forma elicoidale dell’orecchio permette una ottimale frantumazione e sminuzzamento delle zolle.

I primi aratri con queste caratteristiche in Italia furono realizzati intorno agli anni venti del XIX secolo, e solo da allora iniziarono a diffondersi nell’Italia settentrionale. La ricettività alle innovazioni rispetto a questo tipo di strumenti fu però assai limitata nelle nostre zone; in qualche caso ci fu un vero e proprio rifiuto totale. Gli aratri utilizzati erano molto pesanti e costruiti artigianalmente senza rispettare le leggi della dinamica. Nei terreni più compatti occorrevano spesso 3 o 4 paia di buoi per riuscire ad arrivare ad una profondità di 20-25 centimetri.

A partire dagli anni ‘30 qualche grosso proprietario cominciò ad acquistare aratri più moderni per utilizzarli come modello da adattare alle esigenze locali. Verso la metà del secolo alcuni aratri perfezionati giunsero anche a Mogliano e Mestre, ma furono casi isolati.

Un impulso alla diffusione dell’innovazione arrivò finalmente a partire dagli anni ‘50. I giornali cominciarono a riportare notizie relative alle mostre di attrezzi rurali tenute fuori provincia, in altre regioni e alle esposizioni internazionali.

Dagli anni ‘60 vennero pubblicati articoli e saggi molto approfonditi su questi attrezzi e sulla necessità di introdurre su vasta scala i nuovi aratri. Queste opere erano sempre fondate su argomentazioni scientifiche ed empiriche. Fabbri di paese e officine iniziarono a produrre nuovi modelli, ad imitazione di quelli americani, inglesi, francesi, belgi, e tedeschi. Furono proprio i piccoli e medi produttori ad assicurare la diffusione dei nuovi attrezzi, e non le importazioni. Sia i Comuni che le accademie e le società agrarie organizzarono mostre, conferirono premi, e promossero dimostrazioni comparative, in un clima di positivismo e fiducia verso le macchine.

Dopo l’istituzione dei comizi agrari nel 1866, proprio questi ultimi divennero i principali attori dell’evoluzione, anche se non tutti furono però esempio di efficacia ed efficienza. Molte polemiche venivano sollevate sul loro funzionamento. Il problema dei comizi nel Veneto erano le dimensioni: essendo stati fondati su base distrettuale, in molti casi si rivelarono troppo asfittici e carenti di mezzi per poter essere veramente efficaci.

Ad ogni modo si può dire che alla fine degli anni ‘70 gli aratri perfezionati erano ampiamente diffusi nel Veneto, ma non tra i microproprietari ed i fittavoli gravati dal contratto a dover provvedere agli attrezzi agricoli. I proprietari sostenevano che le innovazioni non venivano accettate da queste categorie per via del loro tenace attaccamento alle tradizioni. In realtà le ragioni che spingevano i piccoli proprietari ed i fittavoli a non provvedersi di nuovi strumenti erano soprattutto di carattere economico. Era per loro improponibile affrontare la spesa necessaria all’acquisto di un nuovo aratro. Che poi ci fosse un fondo di verità nelle accuse di ignoranza e pregiudizio questo è innegabile. D’altra parte i proprietari non fecero nulla per incoraggiare gli acquisti di nuovi strumenti, sia perché anch’essi erano ignoranti in materia di tecniche agricole, sia perché non si curavano delle proprie terre, che venivano lasciate in mano ai conduttori, preoccupandosi solamente che passassero loro le rendite dei terreni.

Nel trevigiano le innovazioni si diffusero molto lentamente, in particolare nelle zone collinari, in cui gli agricoltori preferivano i vecchi aratri. Lo StradaioliAutore citato nel libro di A. Lazzarini, Fra innovazione e tradizione… Cit. Pagine 32 e seguenti.  nel 1885 nota ironicamente un classico aratro versor collocato nel portico di una casa colonica. Egli asserisce “primeggia un aratro titanico di legno che fra non molto gli archeologi studieranno nei musei di agricoltura”. Vorrei sapere che faccia avrebbe fatto se lo avessi condotto alla fine degli anni 70 del secolo successivo nella stalla di mio nonno, mezzadro qui a Ponzano, ad ammirare un versor probabilmente identico a quello! Nel 1970 non veniva certo più utilizzato in modo esclusivo come in passato, dato che l’aratura era affidata ai trattori (il cui lavoro era retribuito con un certo ammontare per ogni campo), però era ancora utile per i lavori minori o in caso di necessità; era invece stato impiegato con regolarità fino alla fine degli anni cinquanta.

Anche nel trevigiano si assisté alla diffusione di aratri moderni, ma molto lentamente, per imitazione tra i conduttori di terre e per la promozione svolta dal Comizio Agrario di Treviso.

Tutto ciò nonostante che a nord di Treviso esistesse la fonderia Giacomelli, che tra i vari prodotti produceva anche aratri. Purtroppo i costi degli attrezzi erano proibitivi: nonostante i più semplici costassero solo poche decine di lire, avevano il difetto di rompersi con una certa frequenza. Per quanto riguarda gli attrezzi migliori che non presentavano questo inconveniente, i costi lievitavano oltre il centinaio di lire; non solo: ma acquistarli presso la ditta Giacomelli sarebbe costato un terzo in più che comprarli direttamente in Germania. La mancanza di specializzazione dello stabilimento faceva sentire il suo peso.

La Trebbiatura

Il dibattito sulla trebbiatura si apre nel corso degli anni ’40. Le sue problematiche sono assai diverse rispetto a quelle relative all’aratura. Mentre nel primo caso si cercava di aumentare la produttività, qui l’obiettivo era la minimizzazione del rischio. Raccogliere il prodotto in tempi minori significava ridurre i rischio di perdere parte del raccolto a causa degli agenti atmosferici e dei furti campestri, problema che crebbe via via nel corso degli anni, a causa dell’aumento dell’indigenza. Voleva dire anche disporre prima del prodotto, con la possibilità di immetterlo nel mercato a condizioni migliori. Significava meno sforzi sia per gli uomini che per gli animali dove vengono impiegati, se i tempi venivano ridotti grazie all’utilizzo delle macchine.

La trebbiatura del frumento veniva effettuata ovunque col correggiato. Il correggiato è uno strumento costituito da due bastoni uniti per mezzo di una correggia. Un bastone veniva tenuto in mano mentre l’altro andava a cozzare sulle spighe del frumento provocando la fuoriuscita del seme. Come si può intuire era un lavoro che richiedeva molto tempo e fatica.

La diffusione della meccanizzazione di questa operazione è passata attraverso vari stadi. Dapprima si sono costruite macchine che basavano il loro funzionamento sulla forza animale o umana. Il trebbiatoio che fu concepito nel 1786 era basato sugli stessi principi di quelli che utilizziamo ancora oggi: l’azione di un naspo che veniva battuto contro un tamburo. Subito dopo agli animali e all’uomo si è passati a cercare di sfruttare l’energia idraulica. Questa soluzione a Ponzano come in numerosi altri comuni della zona era improponibile vista la limitatissima portata delle acque.

La soluzione ottimale che si profilò fu l’abbinamento del trebbiatoio alla caldaia a vapore.

Le esposizioni internazionali venivano seguite con attenzione, per poter verificare lo stato della tecnica dei paesi più avanzati e utilizzarne i risultati. Il Veneto partecipò in pieno a questi progressi, nonostante paragoni con l’Inghilterra fossero improponibili. D’altra parte gli stimoli all’innovazione nel paese d’oltremanica erano ben maggiori: soprattutto la scarsità di manodopera e il grande sviluppo della meccanica. Caratteristiche completamene opposte alla situazione locale, dove le grandi officine meccaniche erano ancora isolate e l’imminente esplosione demografica avrebbe creato un’eccedenza di manodopera senza precedenti.

Nel Veneto proprio mentre si incominciavano a diffondere le prime macchine mosse da energia idraulica o animale, fecero il loro avvento le prime locomobili a vapore. Questa soluzione non soppianterà del tutto il correggiato, che resterà la forma di trebbiatura ancora prevalente, ma avrà comunque un ruolo di primo piano. Uno dei fattori che contribuì non poco alla diffusione delle locomobili fu l’ampia disponibilità di officine meccaniche di piccole e medie dimensioni diffuse capillarmente sul territorio. Nella diffusione delle locomobili per la trebbiatura il Veneto non risulta in ritardo rispetto al resto dell’Italia, a dispetto di molti altri indicatori di sviluppo.

 


Note:

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