Crisi nelle campagne trevigiane

TRA STABILITA’ E TRASFORMAZIONI

Pensare che l’ambiente sia l’unica causa della condizione dell’agricoltura è riduttivo. La complessità della realtà non può essere interpretata partendo da una unica causa. Inoltre l’ambiente viene a sua volta influenzato dall’attività umana. Nella distribuzione della proprietà nell’Ottocento hanno contato forse di più cause di tipo sociale rispetto a quelle morfologiche, pedologiche e idrologiche. Senza contare il clima culturale, politico e il regime dei contratti. Come evidenziato dalla storiografia recenteM. Berengo, L’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all’Unità, Banca Commerciale italiana. G. Scarpa, Proprietà e impresa nella campagna trevigiana all’inizio dell’Ottocento,  Giunta regionale del Veneto, pagina 16. l’utilizzazione del suolo era fondata su patti arcaici ed arretrati, mancavano colture specializzate, non c’era intraprendenza nei proprietari, si doveva fare i conti con la cronica insufficienza dei foraggi e quindi degli animali. Inoltre ad un livello di analisi più macroeconomico si poteva notare che i mercati erano ristretti e le città e campagne non erano collegate in modo armonico. Mancava inoltre un legame tra la cultura agronomica e il discorso politico ispirato ai principi del risorgimento.

Questi caratteri rendevano l’agricoltura di tutto il Veneto in generale arretrata. Tuttavia esistevano anche alcuni elementi che mostrano una situazione in evoluzione, come la diffusione del gelso e espansione della coltura del baco da seta. Questi processi di innovazione vanno esaminati con attenzione: se pur se circoscritti o relativi a piccoli ambiti territoriali, queste trasformazioni sono il segnale di un cambiamento sia economico che sociale.  Lazzarini vede negli elementi appena citati dei validi segnali di dinamismo, che non possono essere negati asserendo che nel Veneto dell’Ottocento la situazione agraria fosse completamente immobile.

Durante il periodo italiano Gustave Huezé, un agronomo francese dell’Ottocento scriveva:  “Pel Veneto v’ha poco di confortante. Infelici le rotazioni, pessimi i vini, abbandonato il bestiame, imperfetti e pochi gli strumenti rurali, trascurate le pecore.”

In risposta a queste affermazioni Antonio KellerProfessore di economia ed estimo rurale dell’Università di Padova. gli rispondeva:  “quanto agli asciugamenti il Veneto non la cede ad altre contrade.”  Dettagliava le innovazioni presenti nella regione: una trentina macchine a vapore per un totale di circa 900 cavali vapore. Queste innovazioni riguardavano soprattutto la bassa pianura ed il delta del Po’, dove erano stati resi arabili oltre 34000 ettari. 

Purtroppo nel resto della regione la situazione generale era assai più infelice, come sottolineato da Morpurgo nella sua Inchiesta Agraria.
Infatti le innovazioni che avevano interessato l’agricoltura veneta erano state troppo marginali per poter ribaltare una situazione tanto arretrata. Servivano innovazioni radicali che non avevano avuto luogo. Le uniche zone in cui i proprietari avevano seriamente avviato dei validi processi di innovazione (unione tra agricoltura e industria meccanica, meccanizzazione, utilizzo di concimi su vasta scala) erano le zone delle grandi bonifiche, nei delta dei fiumi.

Viene riportato da vari autori che lo stesso Kellar citato, sostenesse che la situazione agraria in Veneto presentava non pochi problemi. Questi erano per la maggior parte legati alla grave mancanza di efficienza del sistema.
Innanzitutto prevalevano i possedimenti di media estensione in luogo delle grandi aziende capitalistiche che si stavano diffondendo altrove; anche nelle proprietà più ampie si era assistito da molto tempo all’appoderamento, il processo per cui il fondo veniva affidato a fattori e gastaldi in luogo di una gestione diretta da parte dei proprietari. Costoro erano generalmente di estrazione contadina e non sapevano nulla di agronomia, oltre ad essere tenacemente ostili ad ogni innovazione.

La mancanza di preparazione e la situazione di ignoranza diffusa erano assai difficili da modificare, perché si chiudevano in un circolo vizioso che non poteva essere rotto in un solo punto. Se si preparavano professionalmente i fattori, essi non venivano poi assunti perché, per effettuare investimenti produttivi, avrebbero richiesto capitali che i proprietari non erano disposti a pagare; se invece si istruivano i possidenti, questi non avrebbero trovato fattori preparati a cui affidare i loro preziosi investimenti. Sarebbero così stati indotti ad evitare di introdurre innovazioni perché avrebbero dovuto impegnarsi troppo nella direzione dell’azienda e nella sorveglianza dei dipendenti.