Crisi nelle campagne trevigiane

Le condizioni dell’agricoltura ai primi dell’ottocento

Già verso la fine del secolo diciottesimo le condizioni degli agricoltori veneti avevano iniziato a mostrarsi sempre più infelici, denunciando un lento ma deciso peggioramento rispetto al periodo precedente.

Lorenzo CricoScrisse “I dialoghi rusticali di Lorenzo Crico”, a cura di Enzo Demattè, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1990, (Cultura popolare veneta, VII). Riedizione dell’opera Il contadino istruito dal suo parroco, pubblicata in fascicoli a Venezia tra il 1817 e il 1819 e scritta da Lorenzo Crico, parroco di Fossalunga, piccola contrada della “Castellana”, nell’alta pianura trevigiana. In particolare: Economia domestica (pp. 67-124) ed Economia rustica (pp. 215-426) fu parroco a Fossalunga dal 1797 al 1825. Si interessò di migliorare l’agricoltura e le condizioni degli agricoltori. Scrisse vari racconti in forma di dialogo tra il Piovano e diversi personaggi del mondo agricolo, con intenti divulgativi e di elevazione sociale e spirituale, prima che tecnica, dei contadini-lettori. E’ evidente l’intento economico rintracciabile tra i precetti morali e religiosi fortemente presenti, oltre all’aderenza spirituale di Crico al mondo contadino.

Le cause della decadenza che la società contadina stava vivendo erano secondo lui da ricondurre a tre filoni fondamentali.

Il primo fra tutti era il lusso dei possidenti. Nella sua critica notava che essi volevano ad ogni costo vedersi riconosciuta una rendita dalle loro terre per mantenere costante il loro tenore di vita. Facevano pertanto ricadere i costi del loro agio sulle spalle dei poveri contadini. Questo divenne possibile con l’introduzione del patto definito “a fuoco e fiamma”, in cui i contadini in affitto erano comunque tenuti a versare una quota annuale, a prescindere dalla bontà del raccolto. Inutile dire quanto questo tipo di contratto fosse malvisto dagli affittuari. Infatti le conseguenze di questo patto erano devastanti: bastava una annata storta per trovarsi indebitati. Anche le famiglie in cui le conoscenze agronomiche non si erano ancora svilite si trovavano in seria difficoltà. Si sarebbe tentati di credere che se effettivamente l’abilità dei fattori fosse stata elevata, vi sarebbe stata la possibilità di ritornare in equilibrio negli anni successivi. Purtroppo nella realtà questa si rivelò essere una eventualità abbastanza remota, per una lunga serie di motivi. Primo perché nel periodo considerato si susseguirono molte annate sfavorevoli; secondo perché le possibilità di accumulo per i contadini erano minime se non addirittura assenti, come verrà spiegato a proposito dei prodotti agricoli; terzo perché nella famiglia contadina la presenza di un debito veniva avvertita come un fardello insopportabile. Generava tensioni e creava nei giovani un senso insoddisfazione verso il lavoro della terra, che non garantivano la tranquillità e la coesione necessaria a superare il momento di difficoltà. La terra non veniva più percepita come qualcosa di tranquillizzante per cui valesse la pena lottare. Le tensioni che si generavano sfociavano anche nella rottura del nucleo familiare con la fuoriuscita dei giovani dalla famiglia. Questi aspiravano, anche grazie alla nuova mentalità che contaminava l’originale purezza del modello di società contadina, ad occupazioni migliori possibilmente in città, e la conseguenza era la diminuzione della capacità produttiva della famiglia.

A questo punto, rotto l’equilibrio della famiglia, perse le braccia più forti e, soprattutto, perso chi avrebbe dovuto tramandare le conoscenze sulla coltivazione, si entrava in un vortice che distruggeva le basi stesse dell’efficienza dell’economia rurale.

La seconda causa individuata da Lorenzo Crico relativa alla decadenza dell’economia agraria riguardava gli “affittanzieri”, cioè coloro che prendevano in affitto dai grandi proprietari vasti appezzamenti di terra per subaffittarli ai piccoli proprietari. Secondo l’autore questi “affittanzieri” erano in mala fede sia verso i proprietari che verso gli affittuari, in quanto sfruttavano la loro posizione di “mediatori” per estorcere ricchezza ad entrambi. Mostravano ai proprietari dati falsati sul raccolto, dichiarando valori inferiori al reale in modo da tenere per se la differenza. Inoltre dichiaravano ai loro affittuari di dover pagare ai proprietari più di quello che effettivamente dovevano, in modo da poter richiedere loro canoni più alti.

La colpa dell’esistenza di questa pratica ricadeva secondo l’autore soprattutto sui proprietari, che invece in passato erano stati molto più attenti alla gestione delle loro proprietà. Con l’andare del tempo la mentalità dei proprietari aveva sempre visto con più sfavore una gestione diretta del patrimonio. Sembrava infatti che la gestione dell’attività agricola fosse vista come una cosa molto poco “nobile”, e che fosse quindi necessario farla gestire da qualcun altro. Inoltre il lusso in cui volevano vivere necessitava di entrate costanti che erano più facili da ottenere tramite i contratti di affitto piuttosto che con patti mezzadrili di esito incerto. Bisogna notare che rispetto ad altre forme di conduzione, per il proprietario l’identità dell’affittuario era un fattore di secondaria importanza, l’unica cosa che conta era che il canone venisse pagato. Il nuovo contratto rompeva così il cointeresse del proprietario e del conduttore nel cercare di ottenere i rendimenti più elevati possibili. In questo modo si apriva la possibilità, per chi disponeva di capitali sufficienti, di affittare grandi appezzamenti da dare in subaffitto ai piccoli proprietari a condizioni più onerose. Questa pratica a quanto pare si rivelò molto fruttuosa nel Veneto, dove la fame di terreno dei contadini era elevata, anche per il fatto che culturalmente la posizione sociale veniva giudicata proprio in base al possesso della terra. I contadini erano comunque in una situazione che in termini di rapporti di forza era sfavorevole, per cui difficilmente potevano cambiare la situazione pacificamente. Al contrario i proprietari erano coloro che avrebbero potuto evitare il problema, dimostrando solo un po’ più di attenzione nei riguardi delle loro proprietà. Secondo Crico la colpa dei comportamenti dolosi veniva sì attribuita agli avidi “affittanzieri”, “bugiardi e in malafede”, ma la responsabilità della situazione ricadeva in parte anche sulle spalle dei proprietari.

Il terzo punto della critica di Lorenzo Crico riguardava il cambiamento della mentalità connesso agli ideali della Rivoluzione Francese. E’ quando la Rivoluzione francese ha esportato i suoi ideali in tutta Europa che il modello della società contadina ha iniziato ad andare in crisi. Infatti le idee giunte con la rivoluzione francese di libertà e uguaglianza, scatenavano un sentimento di insofferenza verso le tradizioni che rendevano compatto il quadro sociale. Questo nonostante il fatto che nel corso dell’Ottocento la popolazione del Veneto crebbe in proporzione, rispetto ad altre aree del paese, più nelle campagne che nelle città.  Iniziavano ad andarsene dalle campagne i primi giovani, affascinati dalle nuove idee e stanchi dei costumi tradizionali. Questo andava ad indebolire i nuclei familiari che rimanevano in campagna: voleva dire meno braccia per lavorare e anche perdere buone possibilità di tramandare le conoscenze agronomiche. Queste nuove idee e valori venivano viste in maniera decisamente negativa: non solo non avrebbero dato ai giovani insofferenti quello che promettevano ma li avrebbero condotti alla rovina. Infatti secondo Crico ai contadini mancava la malizia necessaria per vivere in città.

La colpa della rivoluzione francese era quella di aver rotto i confini del mondo contadino, di aver fatto penetrare un elemento esterno in un sistema che prima era in equilibrio. L’introduzione di idee estranee al contesto avrebbe portato una instabilità crescente nel sistema, che avrebbe generato un effetto a catena. Per prima cosa faceva dimenticare ai contadini quale era il loro compito. La conseguenza era quella di creare tensioni sociali, che si manifestavano sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare. Innanzitutto per la prima volta la figura del pater familias era messa in discussione: se gli uomini erano tutti uguali perché il capo famiglia doveva decidere della vita e delle azioni di tutti? Le idee destabilizzanti avrebbero potuto portare guai ancora peggiori all’esterno del nucleo familiare, nella società: cosa sarebbe successo se fosse stata messa in discussione l’autorità di nobili e possidenti? In altre parti d’Italia esplose un periodo di conflittualità sociale, ma quella che gli storici e i sociologi definiscono la compattezza della società veneta, riuscì a limitare questo genere di episodi. Sugli episodi di conflittualità sociale nel Veneto dell’Ottocento esiste un libro scritto da Piero BrunelloPiero Brunello, Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e Friuli 1814-1866. Venezia, Marsilio Editore.. Leggendolo si può notare come alle volte le tensioni, generate principalmente dalle durissime condizioni di vita, esplosero in modo esplicito. Il testo non cita episodi riguardanti il comune di Ponzano Veneto, tuttavia nell’archivio comunale è riportato un fatto relativo all’anno 1861Si veda il capitolo terzo. .

Crico non si limita nei suoi scritti a denunciare i problemi, ma propone anche quelle che secondo lui avrebbero potuto essere delle soluzioni. Per prima cosa vedeva come necessario ripristinare la situazione di cointeresse tra i contadini e proprietari terrieri. Lo strumento adeguato a perseguire questo scopo era secondo lui la reintroduzione della mezzadria. La sostituzione del contratto a fuoco e fiamma con quello mezzadrile avrebbe portato entrambe le parti a sforzarsi per massimizzare il rendimento dei campi, che era il vero tallone d’Achille del sistema. L’aumento della produttività avrebbe comportato vantaggi per tutti: sia condizioni di vita migliori per i contadini che una maggiore ricchezza per i proprietari. Avrebbe inoltre spinto questi ultimi ad interessarsi in modo più attivo delle loro proprietà, dato che il tipo di contratto richiedeva abili fattori per ottenere una rendita cospicua. Avrebbe inoltre anche ottenuto il conseguente risultato di mettere fuori causa gli odiati “affittanzieri”.

Un altro punto focale, per ridurre la tensione sociale, era garantire alle famiglie contadine delle condizioni di vita quantomeno accettabili. Era quindi necessario che i proprietari fornissero assistenza ai mezzadri nei momenti di bisogno. Non dipendeva sempre dal contadino il rendimento dei campi, e le annate storte da un punto di vista meteorologico sono state abbastanza frequenti in tutto il periodo. La possibilità di avere un minimo sostegno che permettesse almeno ai coltivatori più preparati di continuare l’attività era una condizione fondamentale per mantenere alta la produttività. Inoltre da un punto di vista culturale per il contadino veneto l’autosufficienza era un motivo di orgoglio, non accettava di pesare sulle spalle di qualcuno. Non sussisteva che in rari casi il rischio che i contadini approfittassero in modo sistematico degli aiuti. Non sarebbe quindi stato difficile porvi rimedio non trattandosi di fenomeni sistematici. Era d’altra parte anche un interesse per i proprietari quello di tenere a lavorare nei propri campi i migliori lavoratori, anche se in una annata storta non erano riusciti a consegnare un prodotto sufficiente, o addirittura avevano dovuto richiedere dei prestiti per tirare avanti. In più in cambio avrebbero potuto garantirsi dei lavoratori docili e riconoscenti, che amavano il proprio lavoro in quanto da esso era per loro possibile trarre quanto bastava al sostentamento.

L’ultimo punto su cui si soffermava Lorenzo Crico nella sua analisi riguardava i canoni con cui andavano pagati gli affitti. Quasi ovunque i canoni venivano pagati con tutto o una parte del frumento, con tutta l’uva (e quindi tutto il vino) e una parte del granoturco (le fonti sono tutte concordi su questi dati relativamente all’alta pianura). La presenza sulla maggior parte del territorio di questi canoni basati esclusivamente su questi tre prodotti aveva generato pessime conseguenze, sia sul piano economico che ecologico. La prima cosa che si nota è come un po’ ovunque le colture abbiano perso sia in termini di varietà che di qualità. Anche se venivano sempre coltivate le viti ed il frumento da consegnare al padrone, ogni possibile interstizio tra questi due prodotti veniva impiegato per la semina del granoturco, che era divenuto la base dell’alimentazione dei contadini. Tutti gli altri prodotti venivano considerati di secondaria importanza. La conseguenza del fatto che al contadino non rimaneva nulla dei prodotti destinati esclusivamente ai proprietari, era che questi non ricevevano le attenzioni di cui necessitavano, in particolare l’uva. Altri prodotti necessari ad arricchire la dieta dei contadini erano spariti; anche quando c’erano erano di scarsa qualità, come ad esempio i derivati del latte. Relativamente alla produzione di questi ultimi veniva già denunciata la cronica mancanza di foraggio nell’alimentazione dei bovini a fine settecento. Oltretutto in luogo della creazione di prati artificiali per aumentare la scarsa produzione, i pochi prati esistenti finivano invece per essere convertiti alla coltivazione del granoturco. Migliorare la pessima dieta dei contadini era una condizione necessaria per continuare ad avere dei buoni lavoratori. Da sempre la produttività delle persone sane è più alta, e per avere persone sane ed efficienti è necessaria una alimentazione varia. La monocoltura del granoturco porterà all’esplosione dei casi di pellagra.

Mentre i problemi denunciati da Crico andavano intensificandosi sempre più durante tutto l’Ottocento, le soluzioni che propose restarono in gran parte inattuate. La situazione nelle campagne peggiorò via via che si spostava verso la fine del secolo.sss


Note:

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