Crisi nelle campagne trevigiane

IL CONTESTO SOCIALE

Treviso, sul piano religioso, offre lo specchio di una pietà semplice e primitiva. Davanti a Dio l’uomo si inchina, ed organizza la vita di famiglia, il lavoro, lo svago, il folklore e la sagra. La pratica religiosa si realizza nella Chiesa e mediante la Chiesa. La religiosità si confonde con il costume e le tradizioni, gli usi civili e le stesse abitudini familiari. La fede non è un valore marginale, separabile dagli altri valori sociali; così nella diocesi di Treviso l’assunzione di un atteggiamento di resistenza passiva al regime liberale diviene parte del credo. Amore ed obbedienza al papa sono necessarie alla conservazione ed all’incremento delle tradizioni, da realizzare tramite le iniziative apostoliche, assistenziali, economiche e sociali. Non c’è spazio per una religione tutta interiore,  individuale.

Le manifestazioni esteriori della religione sono ovunque ed in ogni fatto si intravede un segno celeste. La norma è credere nella possibilità della comunicazione con esseri invisibili, nonostante la battaglia alla superstizione intrapresa dai vescovi. Nel concilio Veneto primo (1859) si impegnano a vegliare per impedire che i sacerdoti favoriscano la diffusione dei riti superstiziosi, e non diano credito a false rivelazioni o miracoli. Questi concetti vengono ripresi anche nei due concili successivi, a Belluno nel 1861 e ad Adria nel 1863. In termini altrettanto duri si sono espressi i sinodi di Concordia del 1885, contro ogni forma di magia, sortilegio, divinazione, negromanzia. Circolavano all’epoca per le case falsi santoni e fattucchiere, che ingannavano la gente per estorcerle denaro. Erano diffusi anche libri di preghiere e litanie a cui veniva attribuito potere magico. Ogni cosa non fosse compresa nella ritualità prevista dalla chiesa fu bollata come diabolica. Ciononostante molte forme di superstizione sono sopravvissute fino ad oggi.

Secondo Gambasin la tentazione superstiziosa è un indice del dramma umano di genti travagliate, più che di un commercio diabolico. I parroci insegnavano che Dio è padrone di tutto e che Cristo ha un potere di redenzione in grado di liberare da ogni forza demoniaca. Questo era il punto di partenza della fede autentica, devozionale, assistenziale e sociale.

Lungo tutta la pianura alta o collinare, i contadini vivevano ed esprimevano questa fede in un contesto psicologico di paura e di timore di fronte alle forze della natura, di insicurezza derivante dal patto mezzadrile e affittuario, o al rischio di ipoteca per la piccola proprietà subissata di debiti.

Questa fede veniva trasmessa di padre in figlio mediante i vincoli della famiglia patriarcale, perno attorno al quale si muoveva tutta la vicenda umana dei mezzadri, dei fittavoli, dei salariati e dei piccoli proprietari. Nella famiglia patriarcale, composta da 20 fino a 70-80 membri, tutti entro lo stesso recinto, il pater familias, persona rivestita di autorità sacra, è custode della legge e della disciplina, con decisioni inappellabili a tutti i livelli, dalle tecniche per coltivare i campi, alle spese familiari, dalle razioni di vitto durante i pasti, ai compiti di lavoro per ciascuno , alla scelta del marito per le ragazze. Occupava il primo posto dovunque: a tavola,  negli affari, nei campi, e lo cedeva solo a ospiti importanti, come il parroco. Non ammetteva alla tavola patriarcale altri che i fratelli, i figli maggiori ed i nipoti, disposti secondo un ordine di età e di ufficio, e relegava le donne ed i bambini nelle stalle o sotto i portici. La sua autorità si estendeva alle cose e alle persone, ed era subita più che voluta. La concordia attorno “el paron” dei familiari era più spesso apparente che reale, e nascondeva disonestà, imbrogli e rivalità.

Le donne erano escluse dalla gestione amministrativa. A loro spettano la cura dei figli, i lavori nei campi e le faccende domestiche. Le ragazze uscivano di casa per prestar servizio presso qualche famiglia padronale con la previsione, nella maggior parte dei casi, di rimanervi per sempre. Sulle spose pesava anche l’autorità della “suocera”, cui spetta il compito di attutire i contrasti, assopire i litigi e i rancori, ma che spesso finiva per rinfocolare gelosie.

La famiglia patriarcale veneta era prolifica. Passava in secondo piano e non era sentito affatto il problema dell’alfabetizzazione e dell’educazione civile e morale. Il ciclo dei lavori campestri assorbiva completamente tutto il capitale di braccia umane, e condizionava la stessa possibilità delle madri di accudire i figli e mandarli a scuola. Con il sistema dei “turni di lavoro” la madre non poteva assistere nemmeno i propri figli che cadevano sotto la sorveglianza ora dell’una ora dell’altra nuora.

Il fidanzamento,  come la semina e la trebbiatura era un affare di famiglia, e dal corteggiamento al matrimonio, preparava il passaggio da un patriarcato all’altro. Nelle zone collinari e vallive imperversava la piaga dei matrimoni tra parenti dovuta alla promiscuità tra consanguinei o dalla necessità di perpetuare il clan.

Nelle microaziende i beni patrimoniali in forza della legge successoria subivano gli alti e bassi della ripartizione in parti eguali tra i figli. Nelle macro e medio aziende di affittanza o di mezzadria l’unico capitale indivisibile erano gli uomini abili al lavoro.

La famiglia patriarcale, modello sociologico predominante, resistette saldamente fino quando non penetrarono il progresso tecnico e l’industrializzazione in senso capitalistico. Sotto questo profilo, al consolidamento del sistema patriarcale, concorreva la struttura dell’azienda agricola, che con la catena dei vari “ordini” fra loro subordinati, dei fattori, castaldi, castaldelli, lavoratori fissi, e avventizi suddivisi per mestiere, facevano un tutt’uno con la gerarchia della famiglia. I patriarchi stringevano i contratti di affittanza e di mezzadria facendo pesare sui membri della famiglia delle corvées insopportabili.

Allo stesso modo i rapporti che essi stabilivano con i parroci diventavano legge sul piano del costume e della religione. Se essi erano clericali e devoti, formavano con i parroci un ambiente tetragono alle libertà liberali: pulpito e cattedra, altare e mensa patriarcale, turni di lavoro e ritmi liturgici si compenetravano profondamente. Questo fenomeno da una parte rafforzava in termini etico religiosi (e quindi indiscutibili) il principio di obbedienza e di sottomissione all’interno della famiglia, ordinata secondo un sistema di reale dipendenza tra i loro membri, in maniera piramidale; dall’altra separava l’intero clan contadino mezzadrile o affittuario dall’aristocrazia e dalla borghesia.

L’aristocrazia terriera, di mentalità feudale e precapitalista, si trincerava nel suo mondo di privilegi; bigotta e antiparrocchiale , faceva pagare ai mezzadri e fittavoli le conseguenze della crisi agraria. Le masse contadine erano angariate dalla legge ferrea del patriarca e risospinte nel chiuso della corte. Cercavano il loro spazio di autonomia dalle servitù padronali, nei riti e nelle processioni della parrocchia, che creava la cassa rurale, la cooperativa e la latteria sociale.Sulle vicende della famiglia patriarcale nel Veneto , con gli aspetti negativi di odi, rancori tra i suoi componenti: E.Morpurgo, Le condizioni dei contadini nel Veneto,  pagine 38-40. Sull’inserimento della donna nel lavoro nei campi: E Morpurgo cit. pagina 7; Sul codice morale e religioso della famiglia patriarcale:  “il lavoratore della terra” 1° gennaio 1913. Sull’emigrazione come metodo per sottrarsi alla logica della parrocchia e del patriarcato: “più della metà emigrano per fare quello che vogliono senza la sorveglianza di alcuno, e non per bisogno economico”  A.C.V.Tr., b. Azione Cattolica e l’emigrazione, Inchiesta 1914, lettera del parroco di Volpago don Annibale Vian, Volpago, 6 Aprile 1914. “tanti giovani attendono con ansia per anni il momento di partire , e si va finalmente all’estero come si andrebbe ad una festa”. A.C.V.Tr., Azione Cattolica e l’emigrazione, Lettera del parroco di Villanova di Istrana don Giuseppe Fagale 1913. Sugli aspetti giuridici della famiglia patriarcale : A. De Feo, La donna nell’impresa contadina, Roma 1964. 

Questo movimento di indipendenza dall’aristocrazia terriera e l’incipiente presa di coscienza dei propri diritti, le estraniava dalla borghesia e dai partiti sovversivi guidati dai patriarchi e dai massarioti “imborghesiti”, dagli “artisti”, dai “civili”, dai “signorotti” anticlericali.

In tutta l’alta pianura la borghesia radicaleggiante, anziché strappare i contadini dalla parrocchia, ve li sospingeva con maggior forza. La parrocchia li salvava dagli indebitamenti, dallo sfratto, dalla fame. Organizzava la lotta nelle elezioni amministrative per sottrarre il comune o la provincia dalle “cricche massoniche”.

Questo non avveniva quando l’emigrazione, allontanando il contadino dal paese e da tutto l’insieme delle benedizioni (dell’acqua, delle case,  delle messi, del fuoco, degli attrezzi di lavoro, degli animali domestici, delle primizie) lo privava del fascino delle tradizioni religiose e superstiziose. Il contadino credeva che tra il peccato e le disgrazie ci fosse una connessione di causa-effetto: misurava quindi la benevolenza di Dio nell’abbondanza delle messi e nella salute. Egli era convinto di doversi associare all’idea di riscatto totale dal peccato proprio e altrui. Accettava perciò la malattia che colpiva il clan o gli animali che gli davano nutrimento e calore come il prezzo del riscatto. Per l’assoluzione totale si affidava al rito penitenziale che egli compiva nel santuario, dove credeva ad una presenza speciale della divinità, attendendo il miracolo, prove e segni tangibili di liberazione dai mali morali e fisici. Lo sciamare dei fedeli nella chiesa parrocchiale,  le processioni per ritornarvi litaniando era un rito carico di simbolismo, allusivo al Cristo che discendeva tra gli uomini e ritornava al Padre, ma anche all’andirivieni dei contadini dal focolare ai campi, dalla colpa alla liberazione che si otteneva più pienamente nel santuario, dove il contadino faceva “promesse” e appendeva gli ex-voto.

L’emigrazione proiettava i devoti in un mondo profanato e ostile al cristianesimo. Lo sottraeva alle sagre e alle fiere , alla Pasqua,  cui si arrivava con graduale aumento degli spazi temporali riservati al culto, alla catechesi, alle devozioni e alla penitenza. Lo sradicava dal costante richiamo al sacro del suono delle campane per le adunanze delle confraternite e delle pie unioni, per i pellegrinaggi, per le preghiere individuali e in famiglia, per i mesi mariani, le novene e le missioni popolari, dall’ambiente che i parroci pensavano ideale per la conservazione e l’espansione della fede intesa come patrimonio collettivo. L’emigrazione perciò era la più disastrosa devastazione della pratica religiosa.

Per i parroci ogni tentativo di separare la componente religiosa dagli usi e costumi, ogni proposito di separare il clan dall’etica e dal rito cristiano, era considerato un affronto alla fede ed alla società. I liberali moderati, i democratici, radicali repubblicani e socialisti su fronti opposti politicamente ed economicamente in maniera più o meno efficace,  affrettavano la spaccatura della religione dalle organizzazioni del lavoro, dai partiti, dalla scuola.

I parroci per principio si sentivano contrari all’economia fondata sulla legge del profitto e alla politica che si ispirava a principi agnostici. Erano anche contro il socialismo, non nella diagnosi dei mali sociali, ma nella soluzione classista. Ripugnava alla loro coscienza pensare che l’odio di classe potesse essere foriero di una effettiva giustizia sociale e di una società di eguali in questo mondo. Si trovavano a loro agio a fianco di Luigi Bellio, Nicolò Rezzara, e Luigi Cerutti, sostenitori delle casse rurali, dei forni cooperativi, delle mutue di assicurazione, di un programma che non toccava la struttura della società contadina.

Durante gli anni neri dell’economia dal 1882 al 1897, per la flessione dei prezziA. Gambasin, nel suo libro Parroci e contadini… individua nella flessione dei prezzi che ebbe luogo nel periodo citato come la principale causa della crisi economico sociale che portò molti contadini veneti ad emigrare., nel Veneto la miseria contadina era un male sociale, un fenomeno di massa.

La parrocchia era messa di fronte a questa realtà. I preti contadini non indagavano sulle cause, non proponevano soluzioni alternative di ordine politico o economico, non teorizzavano piani finanziari alla maniera di Luzzatti, ma di un Raffeisen, facendo ricadere le responsabilità dei mali sociali semplicemente sul “malgoverno” e nel dilagante malcostume. Entrambi affondavano le loro radici nella perversione, nella protestantizzazione, nella radicalizzazione della mente e nella perversione del cuore. I preti contadini ritenevano che non si potessero migliorare le condizioni sociali e che non si potesse ottenere giustizia se non si fosse arrivati alla conversione del cuore.

Rivolgevano quindi l’attenzione ai problemi contadini con l’ottica del pater familias devoto che non aveva farina nella madia, non aveva denaro per le medicine e le sementi, il fieno, il vitello, il maiale. Ai nemici di sempre del contadino pellagroso – le calamità pubbliche, le malattie delle piante, la moria dei polli o dei maiali – se ne aggiungono altri di nuovo conio: il bottegaio, il mercante, il fattore, il padrone che facevano prestiti in cambio del pignoramento della vacca, del campicello, della casa, dei vestiti, di un esorbitante numero di corvées o di un alto tasso di interesse, e il governo che aumentava le tasse.

Di fronte a questo stato di cose i preti contadini non predicavano la violenza e la rivoluzione: invitavano a rivolgere il pensiero alla provvidenza , all’aldilà, alla riforma del costume, a far rinascere le confraternite e le pie unioni.  Queste non erano in relazione ad un’arte o ad un mestiere, ma al culto di Dio, con vincoli di solidarietà corporativa, non possedendo patrimoni, non imponevano tasse di iscrizione, non avevano cappella od oratorio propri. Facevano capo alla chiesa parrocchiale, in vista di una professione aperta, professionale della fede, e proponevano la purificazione del cuore dal veleno dei mali moderni attraverso esercizi di pietà e devozione. Le confraternite respingevano la tendenza individualista della religione. Difendevano i capitelli, le sacre icone, le processioni e il carattere sacro della festa. Erano apertamente contrarie alle parodie sul papa e per esse facevano pubblica riparazione. Erano insomma lo strumento ideale della lotta cristiana antimassonica, antiprotestante e antiliberale. Demitizzavano il “progresso”  e la “civiltà” ed erano portatrici della protesta verso la tendenza degli stati europei a farsi pagani.

I “devoti” da una parte ereditavano il senso di obbedienza e rispetto verso le autorità, le classi superiori, che dettavano legge nei patti agrari, nei comuni, nelle province e nel parlamento; dall’altro le scomunicavano perché causa dei mali sociali: l’ordine fisico non sarebbe potuto venire in una società in cui mancava l’ordine morale.

Così i ricchi che avrebbero dovuto essere quelli meno propensi a “trasgredire il settimo comandamento” venivano accusati di andare “a testa alta” ma “colla coscienza sporca senza rischiare il pericolo di processi e di condanna”.

Nella confraternita si innestavano le biblioteche, le proteste contro le pubbliche manifestazioni antipapali, le casse rurali e le latterie sociali; spuntavano i programmi corporativo e cooperativo che nascevano e terminavano nell’ambito della parrocchia, contro l’ideologia liberale e al di fuori dello spirito capitalista.

Sorgevano istituti di credito per un istinto di filantropia religiosa più che per un calcolo economico. I preti contadini che li creavano erano ignari delle tecniche per la gestione: li consideravano un sussidio benefico a vantaggio degli oppressi, non una fonte di guadagno o un cumulo del denaro per l’investimento redditizio. Nei loro progetti non contava il lucro ma l’iniziativa assistenziale. La cassa rurale o la mutua riuniva i “ devoti” , le masse contadine litanianti in ordinata e collettiva preghiera, con vesti, sacchi, cordoni, cappucci marroni o neri che sotto la guida e la presidenza dei parroci, sfidano pubblicamente i benpensanti fautori della religione dello spirito, i destinatari del privilegio politico, i maestri del profitto economico. I denari che amministravano erano considerati come res pauperum improduttive accumulate per una motivazione religiosa, che si mettevano insieme per venir incontro ai fedeli ridotti in condizioni difficili e disperate: erano una prova tangibile che Dio non abbandonava i “fedeli” ed i “buoni”. Per questa ragione i fondatori insistevano sulla coscienza religiosa più che sulle competenze tecniche dei gestori della cassa rurale. La fondazione e le assemblee per i bilanci preventivi e consuntivi avvenivano nel contesto della festa patronale, all’ombra del campanile durante una cerimonia liturgica. Per l’iscrizione si teneva conto delle qualità etiche religiose più che del censo. Il processo di riorganizzazione dei fedeli avveniva in un periodo nel quale la parrocchia, spezzati i vincoli dello stato confessionale e dei giuspatronati, si ritrovava entro la struttura gerarchica della diocesi. Ciò implicava che poche leve erano in grado di coordinare e muovere in una direzione tutte le parti dell’organismo ecclesiastico, raggiungendo tutti i gangli vitali in modo rapido ed efficace. Durante quello stesso periodo i proprietari terrieri tendevano ad inurbarsi ed a fuggire dai propri fondi, la cui amministrazione veniva affidata ai fattori; subordinavano i servi della gleba al profitto, asservendo gli uomini al denaro ed abbandonavano le masse nelle mani della “cricca”.A. Gambasin, Parroci e contadini,… cit.

Sul valore dell’unificazione della proletarizzazione nella parrocchia nell’epoca classica del liberalismo politico c’è dissenso.
I preti contadini ritenevano che la parrocchia non dovesse uscire dall’ambito della carità assistenziale. Le iniziative della parrocchia come le processioni, partivano dall’altare e tornavano all’altare.

I preti democratici volevano invece spezzare il cerchio, facendo entrare i cappati nei municipi, nelle unioni professionali, nei sindacati e nei partiti. La cassa rurale era il ponte di passaggio al capitale bancario e finanziario, mentre il terz’ordine francescano era l’anticamera della società operaia, la pia pratica che apriva la porta alla festa federale. La cooperativa e il comitato cattolico preparavano le sezioni del partito, e le iscrizioni alla pia unione erano un esercizio di conteggio per la formazione delle liste elettorali.


Note: