Crisi nelle campagne trevigiane

Popolazione

La popolazione del Veneto passa dai due milioni e seicentomila abitanti del 1871 ai quasi quattro milioni del 1921. Un aumento del 50% contro una media nazionale del 34%. Il dato è notevole soprattutto se confrontato con la limitata espansione urbana, mediamente intorno al 52% (a parte il caso di Venezia che aumenta solo del 33%). A maggior ragione questa esplosione demografica va considerata in relazione al massiccio movimento migratorio: nello stesso periodo lascia il nostro paese il 15% della popolazione, quasi cinquecentomila persone.
L’elemento che spicca è il costante aumento del saldo naturale della popolazione, che a partire dagli anni ’80 diventa il più elevato d’Italia, e resta tale per più di mezzo secolo. Nei primi quindici anni successivi all’unità il saldo naturale resta fisso intorno al 9 per mille, ma a partire dagli anni ’90 supera il 12, per salire progressivamente fino al 18 per mille prima e dopo la prima guerra mondiale.

Il processo di transizione demograficaIn demografia il processo secondo cui si assiste ad un passaggio da alta natalità e alta mortalità, ad una situazione che vede bassa natalità e bassa mortalità. prende avvio in Italia a partire dagli anni ’70, periodo in cui si assiste ad una diminuzione della mortalità. A partire dagli anni ’90 inizia a diminuire anche la natalità.

Nel Veneto la diminuzione della mortalità inizia un po' in ritardo, verso il 1880. Tuttavia questa era già più bassa di circa il 2 per mille rispetto alla media nazionale e il suo calo risulta essere repentino, divenendo per un ventennio addirittura inferiore a quello di regioni avanzate come Piemonte e Liguria. Il tasso di natalità invece non diminuisce e si mantiene attorno al 35 per mille. In alcuni anni la natalità nel Veneto risulta addirittura doppia rispetto a quella del Piemonte e della Liguria già citate. Si può trovare una relazione tra questo incredibile saldo naturale e l’emigrazione? Alcuni dati sembrano confermarlo: si assiste ad una stretta correlazione tra l’aumento della popolazione e il fenomeno migratorio. Tuttavia questa esiste solo all’interno di certi parametri, dettati secondo la letteratura dai rapporti di produzione e di classe.

Un grande aiuto potrebbe venire dagli studi di demografia. Una analisi che certamente potrebbe portare a dei risultati è quella della popolazione divisa per fasce d’età, utile soprattutto per la comprensione del meccanismo dell’emigrazione. Purtroppo tale analisi è impossibile, essendo i dati delle statistiche ISTATSono presenti solo i dati relativi al distretto di Treviso ordinati per provincia invece che per distretto, quindi poco significativi allo scopo di comprendere le connessioni col territorio. Come esempio si può considerare la provincia di Treviso che comprendeva allo stesso tempo zone di bassa pianura e zone montuose, con caratteristiche completamente differenti.

Valutare la propensione al matrimonio e il numero medio di figli aiuterebbe a comprendere la persistenza della natalità. Tuttavia, visto il carattere prevalentemente rurale dell’economia, l’alta natalità non stupisce. Andrebbero poi analizzate le connessioni tra il movimento sociale e quello naturale, e l’influsso dell’emigrazione sulla natalità e sulla mortalità.
L’assetto demografico ed i meccanismi di riproduzione della famiglia rappresentano certamente un aspetto molto importante del Veneto di fine Ottocento. Un aspetto che purtroppo non ha ancora avuto modo di essere opportunamente approfondito.

I dati disponibili sul distretto di Treviso evidenziano una famiglia costituita in media da 6,13 persone. Le famiglie in più di tre quarti dei casi sono complesse (78%) mentre l’età media del primo matrimonio delle donne è di 23,7 anni; in aggiunta il fenomeno del nubilato è assai poco frequente.

Le famiglie complesse sono multiple oppure estese: in pratica o composte da più nuclei familiari, o mononucleari ma allargate ad uno o più conviventi. Secondo Barbagli la famiglia complessa dell’Italia settentrionale è legata all’agricoltura di tipo poderale: è quindi caratterizzata dai mezzadri come pure dai fittavoli e dai piccoli coltivatori, ma permane anche in nuove categorie di salariati, come quella dei bovai legati a fondi di dimensioni piuttosto ampie.
Al contrario i braccianti avventizi abbandonano questo tipo di struttura. Il loro rapporto fondamentalmente instabile non impegna la famiglia essendo di tipo individuale.

Gli osservatori dell’epoca sono tutti concordi nell’affermare che le famiglie contadine, sia di mezzadri che di fittavoli, sono più ampie delle altre e generalmente plurinucleari. Questo fatto viene sempre messo in relazione con le dimensioni del fondo. Il tipico podere di pianura è di dimensioni intorno ai 15-20 ettari e richiede il lavoro di 3-4 uomini adulti, a cui corrisponde una famiglia di almeno 10-15 individui. In collina i poderi richiedono più lavoro nonostante una estensione minore, a volte sotto ai dieci ettari. Nel caso di fondi più grandi, intorno ai 40-50 ettari, il nucleo familiare deve essere almeno di 30 persone. Quest’ultimo caso ormai non è che una eccezione. A conferma di ciò vi sono i dati del censimento del 1901.

Tutti concordano sul fatto che a fine Ottocento fosse in atto un processo di scissione e disgregazione della famiglia contadina, come già denunciato ad inizio secolo da Crico. Questi processi venivano imputati più che altro a mutamenti della mentalità e dei costumi, piuttosto che alla crescita demografica (chiamata in causa molto più raramente).

L’azienda continuava ad identificarsi nella famiglia patriarcale, conservandone tutte le relazioni interne. Da più parti se ne segnalavano incrinature più o meno vistose, che annunciavano una crisi di questa struttura sociale. Tuttavia la struttura resse per tutto il secolo e anche oltre. La famiglia complessa non si sfalderà mai del tutto, pur essendo i contemporanei preoccupati dei numerosi casi di divisioni e smembramenti. I mutamenti erano imputati alla crescente scarsità di fondi da condurre rispetto alla domanda che convincerà molti soprattutto nella bassa pianura a divenire braccianti. Certamente la dimensione delle famiglie contadine si riduceva, tuttavia nella mente del contadino questo fatto veniva percepito come una necessità dettata dai tempi e non una scelta. Appena possibile avrebbe posto rimedio a quella che secondo lui era una soluzione di compromesso che non avrebbe retto nel tempo.

Nell’alta pianura in particolare la struttura sociale era particolarmente compatta. Nei paesi del Veneto centrale (collina e alta pianura) tutte le categorie sociali, i massarioti, i fittavoli, i mezzadri, le “opere”, i braccianti, persino gli artigiani ed i repetini condividevano i valori e i codici di comportamento fondamentali della comunità, quali il rispetto della tradizione, dell’autorità, della religione, il senso dell’onore, “l’orgoglio di paese” e la fedeltà al gruppo. Da questo punto di vista formavano un unico gruppo sociale, nel quale si riconoscevano tutti gli abitanti del paese. Tutti tranne l’immancabile proprietario di villa locale, talmente unico e diverso però da non compromettere la stabilità e la compattezza del microcosmo. Anzi il loro paternalismo codificato dalla tradizione le rinforzava.

I coloni massarioti erano coloro che coltivavano in affitto o a mezzadria da 10 a 50 campi. Erano il gruppo più stabile ed affidabile, al punto che la stampa clericale di fine secolo finì per proporli ideologicamente come modelli di comportamento. Di regola i rapporti del massarioto con la società civile passavano attraverso il proprietario terriero che doveva, in ogni evenienza garantirne la sopravvivenza. I massarioti erano le famiglie contadine più numerose e meglio organizzate, che ispiravano fiducia nei padroni. Costoro ricevevano gli appezzamenti più grandi e pur con sacrifici e lavoro duro e continuo riuscivano ad avere un livello di vita accettabile; quantomeno riuscivano ad avere l’indispensabile per la sopravvivenza. Anche nei momenti difficili erano l’esempio della famiglia contadina che funzionava, una specie di modello da seguire per i membri più sfortunati della comunità.

Alla fine dell’Ottocento dalla frattura degli ampi nuclei familiari patriarcali scaturivano numerosi fittavoli, che andavano ad aggiungersi ai fittavoli già presenti. Costoro finivano per avere a disposizione dei fondi di ridotte dimensioni in proporzione al numero di braccia disponibili. Simili ai massarioti per le condizioni di vita e gli atteggiamenti culturali, erano però più esposti ai rischi. Bastava quindi il manifestarsi di una congiuntura per alterare irrimediabilmente il loro equilibrio economico. Anche in queste famiglie si manifestava la tendenza alla disgregazione: un evento come la nascita di troppi figli o una disgrazia, così come un debito potevano costringere alcuni membri a lasciare la casa paterna. Costoro finivano inevitabilmente per perdere l’autosufficienza economica e non potevano che offrire le loro braccia per lavori anche saltuari e di qualsiasi tipo. Anche in questo caso però la distinzione con le altre categorie (dal punto di vista sociale e spesso anche economico) è abbastanza vaga. In molti casi c’erano anche dei conduttori diretti che non disdegnavano di prestare il loro lavoro fuori dalla loro proprietà.

In ogni caso la situazione peggiore era vissuta dalle categorie più deboli: le vedove con i figli, gli handicappati e gli storpi, i malati ed i vecchi, coloro che avevano perduto “l’onore” e venivano mantenuti ai margini della società. Tutte queste persone nel migliore dei casi potevano sperare in un rapporto di lavoro relativamente continuativo presso una famiglia di massarioti, garantendosi vitto e alloggio. I più vivevano alla giornata, integrando gli scarsi introiti confidando nella carità pubblica e privata. In ogni caso anch’essi non erano degli emarginati: erano perfettamente integrati nella vita sociale. Anche quando erano costretti a mendicare lo facevano in altri paesi perché si vergognavano. Non creavano problemi di ordine pubblico e i loro interessi apparentemente coincidevano con quelli della collettività. Eppure erano la componente più debole del ciclo produttivo, esposta a tutte le conseguenze dell’intensificazione dello sfruttamento padronale avvenuta nell’Ottocento. Erano loro i più colpiti dalla pellagra e i più esposti al problema della fame. Tuttavia non reagivano e accettavano con rassegnazione il loro destino ed il loro ruolo, continuando a vedere nei massarioti i loro leader. I massarioti da parte loro cercavano ,attraverso le organizzazioni create assieme ai parroci (le casse rurali, le mutue assicurazioni e le cooperative), di garantire degli strumenti di autotutela. Le pubbliche istituzioni non erano percepite come un sostegno: arrangiarsi era l’unica soluzione alternativa all’emigrazione o al morir di fame. Non nacquero mai organizzazioni di classe nella società del piccolo affitto. Le trattative con i proprietari erano dirette. Fino a che il carattere e la personalità del contraente era tale da sopperire allo svantaggioso rapporto di forza con i proprietari si poteva sperare in un trattamento adeguato. Con l’andare del tempo e l’avanzare della crisi socioculturale le figure carismatiche anche tra i massarioti furono sempre meno. La fierezza del carattere che li aveva contraddistinti lasciò il posto ad una sempre più rigida sudditanza e deferenza formale. D’altra parte non c’erano alternative: essere espulsi dal terreno significava miseria e pellagra oppure emigrazione. I massarioti venivano ritenuti gli unici che in quel momento potessero garantire una continuità culturale con il passato, gli unici che avessero il potere di far sentire la loro voce anche ai padroni facendo mobilitare le masse.

Anche sulla struttura delle famiglie dei braccianti si trova completa convergenza nelle opinioni. Mentre i bovai le conservavano simili a quelle di mezzadri e fittavoli, quasi sempre multiple (dato che le boarie richiedono il lavoro di più individui adulti maschi), i braccianti avevano famiglie quasi sempre mononucleari, tutt’al più estese dalla presenza di un genitore dei due coniugi. Erano quindi composte mediamente da 4-5 individui e la regola di residenza era quella neolocale (si trasferiscono cioè in una nuova abitazione dopo il matrimonio). La situazione era la stessa secondo gli osservatori di tutto il Veneto: dal trevigiano al Polesine passando per Vicenza, dalla bassa veneziana a quella friulana. Sia la struttura che il tipo di formazione di questo tipo di famiglie sembrava coincidere.

In effetti le diversità non mancavano. L’avventizio non era legato alla terra come l’obbligato, aveva un rapporto di lavoro instabile e sempre individuale. Ma anche l’obbligato era un proletario, forse più spesso del giornaliero in questa fase. Aveva un ruolo del tutto subalterno e il suo legame con la terra era ugualmente precario, se non altro perché di durata annuale (viene licenziato a fine anno).

Sempre di lavoro salariato si trattava, anche se donne e figli erano obbligati a prestare la loro opera su richiesta del padrone. Quello che mancava era lo stretto vincolo con il podere che caratterizzava fittavolo e mezzadro, o con la stalla rispetto al bovaio. La famiglia multipla non solo non era necessaria ma era pure ostacolata dalla piccolezza delle abitazioni e dalle limitate dimensioni delle chiusure.

Inoltre il matrimonio e l’uscita dalla famiglia non rappresentavano un problema: il mobilio della nuova casa sarebbe stato in parte fornito dalla sposa, mentre gli attrezzi che il contadino utilizzava prima di maritarsi li avrebbe portati con se anche dopo. Non c’erano quindi grossi impedimenti a questo tipo di avvenimenti.

Il matrimonio avveniva ad una età relativamente bassa. Erano soprattutto i distretti a prevalenza bracciantile ad avere una età inferiore (provincia di Rovigo), ma non di molto rispetto alla media contadina, che si collocava sotto la soglia dei 24 anni (tra cui Treviso, Castelfranco, Montebelluna, Oderzo). Andando verso la montagna questa età saliva fino ai 26-27 anni.
Non sembra quindi esserci una correlazione significativa tra la presenza bracciantile e l’età al matrimonio. Nonostante alcuni autori trovino questa mancanza di correlazione una anomaliaCastiglioni, Dalla Zuanna, La Mendola, Note sulle differenze di fecondità, pagina 116., altre ricerche hanno notato la stessa situazione nel centro Italia.Barbagli, Sistemi di formazione della famiglia, pagine 21-28. Nel caso della regione Toscana, seconda Giuliana Biagioli, l’aumento del controllo da parte della classe padronale e il timore di perdere il fondo determina un innalzamento dell’età al matrimonio, per ottimizzare il rapporto tra le bocche da sfamare e le braccia che lavorano. In pratica ottimizzare il rapporto tra consumi e potenzialità produttiva.
Ovvero una età al matrimonio sostanzialmente simile tra mezzadri e braccianti (tranne nel caso della regione Toscana).

Quella che sembra essere la vera causa di questi matrimoni così precoci, potrebbe essere la riduzione di effettivi vincoli a questa pratica in entrambe le categorie, oppure la sparizione o l’assenza di un vincolo che discriminava solo una di esse (come nel caso del servizio di leva o della preparazione della dote per le donne che non sempre potevano contare sulla famiglia).

A parte i casi dettati dall’emigrazione temporanea (o dalle consuetudini in fatto di successioni), più caratteristica della zona di Udine e della montagna, non esistevano altri impedimenti né per l’avventizio né per l’obbligato. La casa, ricordando la tendenza ad una residenza neolocale, non era un problema dato che veniva fornita dal padrone e serviva poco altro. Anche gli impedimenti posti dalla famiglia non erano seri problemi, dato che questa veniva spesso messa di fronte al fatto compiuto. Concepimenti prenuziali e nozze riparatrici sembrano essere stati abbastanza frequenti.

Anche i mezzadri ed i fittavoli non avevano però grossi impedimenti. Innanzitutto per via dell’abitazione patrilocale che non costringeva ad acquisire preparazione professionale, a trovare un impiego, a costruire o affittare case. Se in questo ambito le famiglie si opponevano, più facilmente che in passato la nuova coppia sarebbe andata ad ingrossare le fila dei braccianti.

Nel Veneto i padroni (come del resto le famiglie) non si opponevano ai matrimoni precoci, e ancora di meno si preoccupavano di limitare le nascite.

Secondo Alpago-Novello erano proprio i matrimoni in giovane età la vera causa delle disgraziate condizioni della classe contadina. L. Alpago Novello, L.Trevisi, A. Zava, Monografia agraria dei distretti di Conegliano, Oderzo e Vittorio (in provincia di Treviso). pag 218. L’eccessivo aumento della popolazione veniva visto come la vera causa della miseria:
“Questi matrimoni così precoci hanno la disgrazia naturale di essere fecondissimi, non avendo i contadini nessuna nozione dei danni che apporta l’eccessivo aumento della popolazione, e neppure il sentimento del come potranno in seguito dar da mangiare ad una numerosa figliolanza; essi quindi non praticano nessuna forma di prudenza coniugale, né si curano di mettere al mondo degli infelici, a cui poi dovrà - se potrà - pensare la carità cittadina. In questi matrimoni immaturi, prematuri, imprudenti e spensierati, noi crediamo consista la causa principale dello stato miserevole delle nostre popolazioni agricole.Ibidem.


In luogo della soluzione adottata ad esempio in Toscana, ovverosia quella di elevare il rapporto tra le braccia ed il numero di bocche da sfamare, la famiglia mezzadrile e fittavola veneta preferì percorrere altre strade. Come il lavoro extradomestico di qualcuno dei membri, in particolare fanciulle e giovani donne; con gli smembramenti che non andassero ad incidere sulle scorte, sempre più necessarie ed al tempo stesso scarse (per la conservazione della conduzione del fondo); infine con la drastica decisione dell’emigrazione nei casi in cui non vi fosse stata alternativa.

Ad aumentare l’alta fecondità si aggiungeva la scarsità del nubilato, che nel distretto di Treviso aveva una percentuale tra le più basse della regione. La fecondità elevataLa fecondità generale è stimata nello 0,424, mentre la fecondità coniugale potenzialmente espressa è 0,675. combinata con la rapida diminuzione della mortalità portò ad una autentica esplosione demografica.

Bisognerebbe valutare anche la parte spettante nella diminuzione della mortalità relativa al calo di quella infantile. Nel Veneto si passò dal 300 per mille che caratterizzava la prima metà del secolo, al 200-220 per mille negli anni ’70, valore che si avvicinava alla media nazionale. Verso la fine del secolo questa quota arrivava al 150 per mille, allineata con quelle delle migliori regioni italiane.


Sembra che nel Veneto questi miglioramenti fossero dovuti al miglioramento delle condizioni sanitarie ed igieniche piuttosto che ad un miglioramento delle condizioni di vita e dell’alimentazione.

Purtroppo questo contribuì non poco a rendere insanabile il rapporto tra popolazione e risorse, specie in seguito alla crisi agraria. Crisi che, portando al fallimento molte aziende agricole, determinerà un rapido aumento del processo di bracciantizzazioneE. Lazzarini, Fra tradizione ed emigrazione, cit. , della disoccupazione, ed un crollo dei redditi che scendono sotto al livello di sussistenza.

A riprova di ciò si può osservare il contemporaneo aumento della pellagra, non a caso definito “male della miseria”, dovuto proprio all’impoverimento della dieta e al peggioramento delle condizioni generali di vita. Altre testimonianze che sottolineano queste difficoltà sono l’aumento esponenziale delle agitazioni dei braccianti e l’emigrazione di massa, oltre al vertiginoso aumento di furti campestri e il contrabbando, l’aggravamento dei patti agrari e della disoccupazione, la crisi della famiglia patriarcale e la proletarizzazione dei contadini.

Analizzando i dati dei censimenti ISTAT si può notare come la popolazione nel Veneto risulti piuttosto “sparsa” rispetto a quella di altre regioni. Inoltre esistono numerosi centri con meno di 500 abitanti.
tabella 32

FONTE: ISTAT, Censimento della popolazione del 1871, I, pagina 371.


tabella 33

FONTE: ISTAT, Censimento della popolazione del 1871, I, pagina 269: Ponzano Veneto, provincia di Treviso, distretto di Treviso.


tabella 34

FONTE: ISTAT, Censimento della popolazione del 1871, I, pagina 269.


tabella 35

FONTE: ISTAT, Censimento della popolazione del 1881. Dato che i centri abitati erano di dimensioni inferiori ai 500 abitanti in questo censimento risulta che la popolazione è tutta sparsa nelle campagne. Rispetto al 1871 probabilmente è stato anche utilizzato un diverso criterio di valutazione circa l’aggregazione o meno delle abitazioni.

tabella 36

FONTE: ISTAT, Censimento della popolazione del 1881, Tavola I, pagina 119. Da questa tabella possiamo ricavare la dimensione media delle famiglie di 6,4 persone.

Sempre dai censimenti, in questo caso quelli del 1871 e 1881, risulta che la maggior parte della popolazione era costituita da contadini e disoccupati. Purtroppo questo dato non ci è di molta utilità dato che nella dizione “contadini” confluiscono le figure più disparate. Solo a partire dal 1901 questa voce sarà suddivisa in più categorie.

I dati dei censimenti presentano anche altri problemi. In primo luogo quello delle donne. Come sono state classificate quelle che vivevano nei piccoli centri? Come disoccupate o come contadini? Inoltre non va inoltre dimenticato che nel censimento delle professioni i dati relativi alla nostra regione sono considerati esclusivamente come provincia, e non sono presenti i dati relativi al circondario; non possono essere quindi giudicati significativi per le ragioni già esposte.

Le professioni nella provincia di Treviso

Analizzando i dati del censimento del 1881 si può verificare che nella provincia di Treviso si avevano:
Agricoltori che coltivano terreni propri: 8,15%
Agricoltori mezzadri: 19,99%
Agricoltori enfiteuti e affittaiuoli: 17,88%
Fattori e agenti di campagna: 0,38%
Contadini, bifolchi, ecc... a lavoro fisso: 27,35%
Braccianti di campagna a lavoro non fisso: 22,60%


I dati del censimento del 1871 sotto questo punto di vista sono del tutto inservibili. Infatti i raggruppamenti che sono riportati sono ambigui e non permettono di distinguere in maniera significativa le varie condizioni professionali.

Per quanto riguarda il censimento del 1901 invece, la classificazione è si più rigorosa, ma i dati in sede di spoglio sono stati interpretati in maniera unilaterale. Si è voluto calcare sul concetto di proprietario terriero, inserendo in questa categoria tutti coloro che affermavano di avere un pezzetto di terra di proprietà. In questa categoria sono quindi finiti tutti i proprietari di terreni, anche coloro che non riuscivano a trarne neanche un valido complemento alla loro attività principale. Certamente il tipo di interpretazione che fu data permette oggi di rintracciare un solido attaccamento alla terra da parte dei contadini, ma l’occupazione principale non è in questo modo più rintracciabile.

Nel censimento del 1881 invece era espressamente richiesto di indicare la professione dalla quale si traeva “la maggior parte dei mezzi di sussistenza”, e questi dati sono quindi più significativi per la definizione delle reali occupazioni dei contadini. Inoltre si distingue tra le due categorie più significative a livello socioeconomico: tra lavoratori fissi e non fissi.

Questo non significa che non ci siano problemi: certamente le donne sono sottostimate, perché anche se lavorano nei campi sono considerate tra le “attendenti alle cure domestiche” o tra le addette all’industria per via del lavoro a domicilio.

Comunque dai dati del 1881 si può notare come sia ancora rispettabile la percentuale di occupati a lavoro fisso. Va comunque sempre tenuto presente l’alta incidenza di figure miste, come ad esempio il microproprietario che lascia temporaneamente il podere per integrare il reddito familiare con altre attività. Considerati congiuntamente coloro che dichiarano di trarre la maggior parte del loro reddito dal lavoro dipendente sono il 50% degli impiegati in agricoltura nella provincia di Treviso. E’ il valore più basso fra quello delle altre province venete. A prevalere è ancora la struttura poderale a coltura mista e la conduzione di tipo familiare. Mentre nella sinistra Piave dominava la mezzadria, sulla riva destra prevaleva l’affitto con canone in generi.

Lazzarini trova utile considerare anche i seguenti dati sulle categorie professionali in agricoltura, tratti dal censimento asburgico del 1857:
Distretto di Treviso:

Popolazione di diritto: 81489
Possessori di fondi: 1,14% (929)
Lavoratori sussidiari agricoli: 33,68% (27446)
Giornalieri: 6,46% (5264)



Il concetto di popolazione di diritto (nel censimento popolazione indigena di diritto) si avvicina molto a quello di popolazione residente. E’ interessante notare come in tutta la provincia di Treviso vi sia una elevata percentuale di lavoratori sussidiari.

Come lo stesso autore (Lazzarini) è meglio non scendere ulteriormente nell’analisi, in quanto la mancanza di informazioni quantitative a livello distrettuale non permette che informazioni di larga massima. Inoltre la distribuzione della popolazione secondo professioni è si molto importante nell’analisi di una geografia della struttura sociale, ma non del tutto decisivo.A. Lazzarini, Fra tradizione e innovazione … cit. pagina 203.

Le condizioni di vita dei contadini e la “Vita del popolo”

La famiglia patriarcale comincia ad andare in crisi nell’Ottocento perché comincia a mancare di unità. Le cause riportate dai contemporaneiMa i sintomi erano presenti da tempo, come si può leggere nelle testimonianze ad inizio secolo di L. Crico. si riferiscono un po’ a tutte le sue figure. Il capofamiglia aveva spesso perso la capacità di distribuire i compiti, in quanto non abbastanza avveduto e di scarsa autorità. Le mogli si erano lasciate plagiare dalle nuove idee e avevano perso gli ideali di frugalità che le rendevano efficienti ed erano divenute spendaccione. I figli non erano mai contenti, disubbidienti e desiderosi di mettersi in proprio. Le ragazze per guadagnare soldi da spendere al mercato filavano fino a notte fonda e disdegnavano i costumi tradizionali.
Questa transizione culturale nel Veneto fu molto lenta e assai poco lineare, sia a causa della mentalità molto chiusa verso gli stimoli provenienti dall’esterno, sia a causa degli scarsi cambiamenti a livello sociale. La transizione demografica nel corso degli anni settanta e ottanta accentuò molto questa tensione tra la rigida struttura esistente e le esigenze dei nuovi stili di vita.

Tentativi di risposta ai possibili cambiamenti nei modi di vivere e sociali che stavano emergendo vennero anche dal punto di vista giornalistico: nel 1891 nacque a Treviso il giornale “Vita del popolo”, redatto da Luigi Bellio.

Era un giornale diretto soprattutto ai contadini e proponeva una società ideale creata a partire dalle esigenze e dalla mentalità degli agricoltori. I valori proposti erano quelli della fede cristiana e solidarietà sociale. La stessa struttura sociale proposta era una sorta di associazione delle associazioni di stampo cattolico presenti e nascenti a livello locale, che andassero a sopperire alle lacune e ai danni causati dalle strutture e imposizioni statali.

Anche se il problema operaio a Treviso sembrava ancora molto lontano, le condizioni dei contadini erano forse anche peggiori. Ecco perché “La vita del Popolo” del 2 aprile 1892 aveva fatto buona accoglienza al giornale socialista “L’operaio”: il suo programma mirava alla difesa della classe contadina oltre che di quella operaia.
La “vita del Popolo” nell’articolo del 7 agosto 1892 “Che cos’è l’operaio” fustigava aspramente la teoria Manchesteriana che vedeva nell’operaio un abile produttore, un attrezzo da sfruttare più che una persona.A. Gambasin, Parroci e contadini… cits. Accusato di socialismo, il giornale dovette distinguere le sue posizioni da quelle del movimento politico. I gruppi conservatori di Treviso avevano mosso l’accusa di socialismo al giornale, che rispondeva alle accuse citando la sua linea d’azione e rifiutando di essere associato ad un determinato movimento politico:

“…[la vita del popolo] rivendica ad una masnada di boari o di braccianti, carne venduta, il diritto al riposo festivo! Perché proclama i diritti dell’operaio, dei fanciulli, delle donne ingaggiate nel lavoro in fabbrica; perché sottrae con le casse rurali i contadini agli usurai (…)uno peggiore dell’altro, che s’avvinghiano al collo del miserabile e non gli lasciano il respiro e lo strozzano, dandogli pane solo in cambio di sangue; caricano sulle sue spalle il peso di tutte le tasse: non hanno pietà di lui nella sventura; sgrossano (…) sempre le pesanti cifre di quel maledetto libro dei crediti, anche quando la grandine devasta ogni cosa nelle campagne; ai capitali aggiungono favolosi interessi: mettono bende sugli occhi dei contadini e girano loro a capriccio degli agenti, tutti gli affari della stalla (…) prestano un sacco di grano per averne due: smungono il muscolo del contadino e non ne rispettano l’anima – vediamo questa turba di infelici gementi, vittime dell’America e della pellagra”.


Quello che il giornale voleva difendere erano insomma gli interessi dei contadini attraverso la lotta alle ingiustizie sociali.

Sull’analisi delle cause della miseria contadina proponeva inoltre un interessante articolo intitolato proprio “Causa della miseria”: “La vita del popolo”, 30 gennaio 1892.

“in qualche comune le tasse arrivano fino al 58-60 per cento della rendita. Con quale risultato? Per il piccolo proprietario: è costretto ogni due mesi a vuotare la sua borsa nelle casse dello Stato, perciò non pensa a far lavori nuovi nel campo, non a provvedersi di macchine, non ad acquistare concimi, con l’impossibilità di aumentare le rendite.
Il vino, la boaria, le galete sono per conservare il patrimonio terriero; in queste condizioni le condizioni alimentari della famiglia spesso sono insufficienti, non è possibile mandare a scuola i figli i quali rimarranno nella loro condizione di povertà e di miseria. Basta una tempesta oppure siccità , una malattia per ridurre nella miseria la famiglia di un piccolo contadino. Se si tratta di grandi proprietari che hanno campi in affittanza: allora l’aggravio delle tasse si riversa sugli affittuari, sui mezzadri; al contadino resta un terzo delle galete , un quarto dell’uva, mentre aumentano il prezzo di locazione della casa, le onoranze, ecc…”


Per i piccoli proprietari, che gestivano una chiusura di 3-4 ettari la rendita veniva assorbita al 90% dal costo della produzione, cosicché dal proprio lavoro traevano solo l’uso della casa. Per sopravvivere dovevano perciò offrire il loro lavoro come braccianti. Inoltre il fitto misto impediva il cambiamento delle colture, prevedendo l’obbligo i consegnare determinate derrate, con annesso magari anche l’obbligo di vendere i prodotti (o solo alcuni di essi) solamente al proprietario.

Sempre sullo stesso giornale il 13 febbraio 1892 appare un altro articolo “Ancora sulle tasse”, in cui venivano riferite le percentuali di tasse pagate sulla rendita agraria. I dati forniti indicano la tassazione delle rendite tra tasse comunali, provinciali e governative. Se i dati corrispondono al vero non c’è da stupirsi se le istituzioni venivano percepite come un peso: il livello di tassazione è in linea con quello degli attuali paesi del welfare!

Come si vede dalla tabella tre esempi denunciano come una parte considerevole delle imposte fosse costituito da quelle comunali. Secondo una stima dello stesso articolo andavano aggiunte anche la tassa del fuocatico, la tassa sulle vetture, la tassa dei domestici e la tassa del fabbricato. In pratica queste andavano a sottrarre un ulteriore 48,82% al reddito rimasto dopo l’applicazione dei coefficienti evidenziati in tabella.

I valori della tabella sono stati ricavati, secondo l’autore dell’articolo, direttamente dalle cartelle esattoriali. Non a caso l’articolo del 30 gennaio 1892 era intitolato “Causa prima della fame”. Nell’articolo del 12 febbraio il giornale invece fa notare come la responsabilità della situazione fosse degli elettori. Il redattore si chiedeva infatti come fosse possibile che i cittadini si facessero imporre dai Comuni delle tasse superiori a quelle imposte dall’Erario.

Note:

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