Crisi nelle campagne trevigiane

Emigrazione

Già durante il governo austriaco furono avviate numerose disposizioni tendenti a fermare il flusso migratorio, sia regolare che clandestino. Tuttavia i paesi bisognosi di manodopera, in testa quelli sudamericani, non esitarono ad attuare una politica opposta, nella speranza di attrarre il maggior numero possibile di lavoratori.

Si ha notizia nei documenti dell’archivio di Ponzano di un sacerdote gesuita che favoriva l’espatrio verso il Brasile; numerosi parroci favorirono questa iniziativa, onde evitare altre forme di espatrio più dolorose ai capi famiglia disperatamente bisognosi di occupazione, come l’emigrazione clandestina.
Franzina individua invece due tipi diversi di spinte all’emigrazione. La prima è una forza di espulsione, generata dalle condizioni del nostro paese che spingono i contadini ad andarsene. La seconda causa ha una prevalente componente esterna, che è una forza di attrazione esercitata dai Paesi in cui i salari e le possibilità di successo sono migliori che in Italia. Studi su questo tipo di spinte non sono affatto nuovi: già i contemporanei si chiedevano quali fossero le reali cause dell’esodo.

Franzina è uno dei pochi autori a distinguere tra attrazione ed espulsione, per molti altri la principale causa dell’emigrazione era la dilagante disoccupazione e l’incapacità di arrivare alla sussistenza. Da qui la spinta a lasciare la nostra regione per andare a cercare fortuna in paesi in cui fosse possibile arricchirsi.

L’accento viene posto in molte opere sull’indigenza e sulla povertà, che costringevano a partire senza un punto di riferimento nel paese straniero, incontrando difficoltà di ogni genere. L’impossibilità di trovare una occupazione e la diffidenza della gente nei confronti degli emigranti spingeva molti all’accattonaggio e ad una vita di espedienti. Spesso l’avventura in terra straniera si concludeva con un rimpatrio forzato.

Anche nel caso in cui l’emigrato fosse riuscito a trovare un lavoro stabile, l’assenza di accordi internazionali permetteva comunque lo sfruttamento del lavoratore. La situazione era ancora peggiore considerando la famiglia che a casa attendeva con speranza le rimesse. La disoccupazione citata da questi autori colpì il nostro paese in maniera più forte soprattutto alla fine del secolo, tra il 1870 e il 1875, e tra il 1890 ed il 1910.

Tra i primi autori a trattare l’argomento emigrazione rientrano anche le osservazioni di diversi statistici, tra cui Campana, che individua nell’incapacità del nostro sistema economico di garantire ai contadini-braccianti delle concrete possibilità di successo la causa dell’emigrazione. Fa notare come i salari dei braccianti non vengano adattati ai continui aumenti nei prezzi delle sussistenze. Conclude affermando che se non potevano essere sufficienti i salari degli operai tanto meno avrebbero potuto esserlo quelli dei villici.

L’unico modo che avrebbero avuto i contadini per procurarsi condizioni di vita migliori senza attendere un intervento sociale era quello di emigrare.
D’altra parte la differenza nelle retribuzioni salariali era notevole: si passava dalle 60 lire mensili percepite mediamente in Italia alle 140-150 percepite in America. Oltreoceano era anche possibile acquistare terra, mentre in Italia ciò era molto improbabile anche per i contadini più dediti al lavoro ed ai sacrifici. Questa analisi tiene conto sia delle condizioni di partenza che di arrivo ed è formalmente corretta da un punto di vista logico.

Tuttavia un altro statistico dell’epoca dell’università di Palermo, cercò di verificare l’esistenza di una relazione tra il prezzo delle derrate alimentari ed i flussi migratori. Il lavoro svolto smentì clamorosamente la tesi si Campana come mostra la tabella sottostante.

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E’ evidente che i prezzi delle sussistenze diminuirono invece che aumentare.

Quindi poteva essere vero semmai che l’emigrazione aumentava mano a mano che i prezzi delle derrate diminuivano. Questo perché l’abbassamento dei prezzi remunerava meno i fattori impiegati per produrli; infatti l’emigrazione partiva proprio dalle località in cui la produzione agricola era più importante, come testimoniano i dati relativi all’occupazione degli emigranti.

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Fonte: Ministero Industria Agricoltura Industria e Commercio. Tratto da E. Franzina, La grande emigrazione… cit

Il flusso migratorio ha sì interessato praticamente tutti i tipi di figure professionali, ma è innegabile come la stragrande maggioranza degli emigranti fossero persone legate al mondo dell’agricoltura.

Osservando la tabella possiamo notare come la prima e la terza categoria di lavoratori sommate assieme arrivino a coprire ben il 68,7% del totale degli emigrati.

La prima categoria comprende sicuramente delle figure che possiamo ritenere colpite dal ribasso dei prezzi: una minore remunerazione dei prodotti della terra comporta certamente una minore retribuzione anche di chi ci ha lavorato. Quindi tutte le figure definibili “marginali”, il cui ruolo cioè non fosse ritenuto assolutamente indispensabile, finivano per perdere concrete possibilità di guadagno, finendo rapidamente sotto la soglia di sussistenza.

Anche la terza colonna indica una serie di figure legate al mondo agricolo. Sicuramente gli individui classificati come giornalieri e braccianti, visto anche lo stato dell’industria della nostra regione, non potevano che trovare lavoro nel mondo agricolo. I terraioli e gli addetti allo sterro, pur potendo essere legati in qualche modo ai lavori stradali, sicuramente non avrebbero potuto garantirsi delle entrate costanti tutto l’anno da questo tipo di attività. Quindi una parte del loro reddito era sicuramente legata a lavori di tipo contadino, giornaliero o bracciantile. Anche il loro reddito era quindi in qualche modo connesso al rendimento della produzione agricola. Inoltre se la componente principale della loro attività fosse stata legata all’agricoltura sarebbero ricaduti probabilmente nella seconda categoria. Queste osservazioni sono allineate con quanto sostenuto da diversi autori.

Il ribasso dei prezzi a partire dal 1870 era la conseguenza della concorrenza offerta dai grani russi e americani, che portò ad una vera e propria crisi agraria. La crisi agraria era spesso citata nei giornali dell’epoca a partire dal 1880 come una delle prime cause dell’emigrazione. Questo tipo di osservazione era supportata valutando il tipo di flusso migratorio, costituito per lo più da contadini. Secondo le cronache dell’epoca i più colpiti erano i braccianti, i mezzadri ed i piccoli proprietari, proprio le tipologie di agricoltori più diffusi nell’alta pianura.

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Emigranti su 100.000 abitanti; grano: prezzo di un quintale (media fra I e II qualità).Si noti come a partire dagli anni ottanta il prezzo del grano nel Veneto risulta sempre inferiore a quello medio del Regno. 

Franzina distingue inoltre l’emigrazione in tre fasi, che arrivano fino al primo conflitto mondiale. Per questa tesi sono rilevanti solo le prime due.
Per quanto riguarda il periodo che va dagli anni settanta alla fine degli anni ottanta sembra che si possa parlare di una prevalenza dei fattori di espulsione rispetto a quelli di attrazione, in quanto gli anni più difficili corrispondono ai periodi di massimo deflusso. Per il periodo successivo è invece vero il contrario: sono i momenti di espansione economica a generare maggiori flussi migratori, quindi l’autore ritiene prevalente la componente attrattiva. L’autore pone comunque una avvertenza al lettore: le cause che possono far oscillare l’andamento dei flussi migratori restano comunque tantissime, quindi i dati vanno presi con molta cautela. E’ d’altra parte evidente che incidenti locali collegati ad impennate migratorie non sono le vere cause all’origine dell’esodo.

Se è vero che le motivazioni scatenanti rimanevano la siccità, le alluvioni, le tempeste, ed i terremoti che si succedevano con una frequenza straordinaria, non bisogna dimenticare che questi eventi non sarebbero stati tanto drammatici se i pesi imposti all’agricoltura fossero stati diversi. Le pesanti tasse, la concorrenza del grano estero, l’arretratezza tecnologica e secondo Franzina anche la trasformazione capitalistica delle campagne erano i fattori che rendevano i singoli episodi tanto importanti da spingere a decisioni drastiche quali l’emigrazione.E. Franzina, La grande emigrazione… cit, pagina 43.

In ultima analisi secondo l’autore la causa dell’emigrazione si riduceva ad una unica parola: la miseria. Se l’emigrazione era realmente il termometro della miseria, e quindi frutto più che altro dell’espulsione dalle campagne, allora la miseria poteva dipendere da una eccessiva eccedenza naturale.

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Ma lo squilibrio fra addensamento demografico e risorse agricole non poteva da solo bastare a giustificare l’esodo: le ragioni erano troppo complesse per poter essere riportate ad una conclusione univoca. Sempre secondo Franzina creare delle tavole cronologiche altamente significative non è possibile, tuttavia i fattori espulsivi hanno sicuramente condizionato l’andamento complessivo. La tabella proposta nella pagina precedenteE.Franzina, La grande emigrazione… cit. riporta una aggregazione dei dati proposta dall’autore per convalidare questa tesi. Si può notare che all’aumento costante della popolazione corrisponde in progressione aritmetica un aumento dell’emigrazione.

Anche secondo LazzariniA. Lazzarini, Fra tradizione e innovazione, cit. è il crollo dei redditi seguito alla crisi agraria la causa dell’emigrazione che ha portato, nei quindici anni successivi, all’espatrio di oltre un terzo della popolazione. Quindi Lazzarini ritiene che il principale fattore dell’esodo sia di tipo interno/espulsivo. Un esodo di tale portata non può secondo l’autore che essere un segnale di condizioni di vita divenute del tutto insopportabili.

Già in passato queste erano precarie e in qualche caso sotto al livello di sussistenza. Anche se a fine Ottocento i salari in termini reali sono gli stessi della fine del SettecentoA. Lazzarini, Fra tradizione e innovazione,  cit. le proteste si scatenavano solo nei momenti di crisi della produzione di cereali, in cui i prezzi degli stessi salivano. Paradossalmente era proprio nelle campagne che la situazione diveniva grave, perché i mercanti facevano incetta di questi generi per rivenderli all’estero o per l’approvvigionamento delle città.

Anche dopo l’unità la situazione non è migliore, e dopo il 1880 peggiora in maniera decisa. In questo periodo una serie eccezionale di calamità naturali colpisce il Veneto. Quello che però contribuisce più di ogni altra cosa al peggioramento delle condizioni dei contadini è il dramma del crollo dei prezzi dei cereali conseguente all’integrazione dei mercati a livello mondiale.

La situazione diviene pessima anche per i braccianti che vengono retribuiti a denaro, in quanto i proprietari iniziano ad utilizzare le macchine che vanno a ridurre la necessità di braccia. Offerta di lavoro quindi che aumenta in maniera drammatica, anche a causa dei fallimenti delle piccole e medie aziende agricole, in risposta alla riduzione della domanda conseguente al calo dei prezzi. Molti ex conduttori vanno così ad ingrossare le fila di chi reclama lavoro.

I problemi dei contadini partono dall’alimentazione insufficiente e fondata sul mais, passano per la pellagra in rapida espansione e per le abitazioni malsane che portano ad una elevata mortalità. Queste sono sovente costituite dai noti casoni di argilla e canna, sovraffollati e in coabitazione forzata con gli animali domestici. Sempre secondo Lazzarini è ovvio che la causa immediata dell’esodo sia la ridicola retribuzione e la difficoltà di trovare lavoro.

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  Fonte: Ministero Industria Agricoltura Industria e Commercio. Tratto da E. Franzina, La grande emigrazione… cit


Tutti gli autori sono concordi sul fatto che anche le statistiche sull’emigrazione non possono essere ritenute completamente affidabili. Cito un esempio tratto sempre da Franzina relativo al 1887: secondo le statistiche italiane per l’Argentina erano partiti 52.323 italiani, mentre secondo i dati argentini gli immigrati provenienti dal nostro paese erano 67.139. Nello stesso anno verso gli Stati Uniti, sempre secondo le statistiche italiane partirono 37.221 emigranti, ma il porto di New York registrava l’arrivo di ben 46.256 italiani.

Molti di questi emigranti in eccesso erano in realtà coloro che avevano dichiarato di recarsi temporaneamente in Francia, Svizzera, Austria, ecc… ed avevano in seguito deciso per l’emigrazione permanente oltreoceano.

Le zone di destinazione dei nostri emigrati variarono nel corso del tempo. Andando a controllare il censimento del 1871 nella provincia di Treviso c’erano ufficialmente 748 emigrati. L’emigrazione era prevalentemente verso l’Europa, soprattutto verso l’Austria e in particolare verso Trieste. La maggior parte degli emigrati a Trieste erano agenti e commercianti.

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  FONTE: ISTAT, censimento della popolazione del 1871, pagina CXXVIII

Franzina ritiene di essere pervenuto a dei dati sufficientemente vicini a dei valori effettivi

Le due tabelle che seguono fanno riferimento alla prima emigrazione, diretta soprattutto verso Austria e Germania.

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FONTE: E.Franzina, La grande emigrazione,  cit.

La prima emigrazione è prevalentemente maschile, composta principalmente di operai. Gli agricoltori che emigrano sono già la seconda categoria professionale in termini numerici, ma bisogna tenere conto che in valore assoluto sono molto più numerosi.

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Il secondo periodo preso in considerazione va dal 1876 all’inizio del Novecento. In questi anni si assiste all’esodo dalle campagne. Il tipo di emigrazione cambia completamente: innanzitutto iniziano gradualmente a spostarsi intere famiglie, anche se l’emigrazione di singoli individui resta prevalente.

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FONTE: E.Franzina, La grande emigrazione, cit

Inoltre diventa importante l’emigrazione propria (soprattutto alla fine degli anni ottanta) che si affianca all’emigrazione temporanea caratteristica del periodo precedente.

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FONTE: E.Franzina, La grande emigrazione, cit

Come già illustrato nella tabella 4.2 gli emigranti sono principalmente legati alle campagne e al mondo agricolo. Sono anni in cui alcuni proprietari temono per le conseguenze infauste sull’agricoltura e sui loro interessi. Preoccupazioni poco fondate, vista la fortissima espansione demografica, anche in provincia di Treviso, dove si era assistito con maggiore intensità al fenomeno migratorio.

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Come si vede dalla tabella la provincia di Treviso in valore assoluto aveva il maggior numero di emigranti propri, mentre ad Udine spettava quello dell’emigrazione temporanea (con un valore peraltro esorbitante, soprattutto in relazione alla popolazione presente).

Anche le destinazioni degli emigranti mutarono nel corso di questa seconda fase dell’emigrazione dai paesi europei ai paesi d’oltreoceano.

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Bisogna notare come i dati delle ultime due tabelle, tratte dallo stesso libro, non coincidano.E. Franzina, La grande emigrazione, cit. tabelle pagina 51 e seguenti. 

In conclusione: gli emigranti principalmente erano lavoratori vicini al mondo agricolo, spinti ad andarsene più da cause interne come sostiene Lazzarini piuttosto che da tentazioni provenienti dall’esterno. Questa tesi è avvalorata anche dai riscontri relativi al clima culturale presente e alla mentalità: il contadino era assai poco incline ai cambiamenti.

Una volta assoldato che l’emigrazione è collegata con l’andamento del prezzo del grano e quindi influenzato dalla crisi agraria, si può essere portati a vedere i contadini come dei produttori e non come dei braccianti.

Se è vero che i braccianti potevano costituire una buona parte dell’emigrazione proveniente dalla bassa pianura, è anche vero che secondo alcuni autori furono i piccoli proprietari, mezzadri e fittavoli i primi ad essere spiazzati dalla crisi.

Molti documenti dell’epoca al contrario decantavano il fenomeno della proletarizzazione e della conversione in braccianti dei contadini, in primis l’inchiesta Jacini. Come vanno valutati? Secondo la mia tesi non sono del tutto attendibili. Infatti, pur essendo innegabile la situazione di enorme disagio in cui versava la popolazione, su cui sono concordi tutti gli autori da me consultati, è forse discutibile il tipo di approccio paternalistico con cui l’argomento fu trattato all’epoca. Era un approccio che non andava ad urtare in maniera eccessiva l’interesse degli assetti proprietari. Infatti nell’alta pianura la figura del bracciante faticava enormemente a diffondersi. Sono altre le realtà in cui essa era affermata, anche se geograficamente vicine. Nel comune di Ponzano alcuni esempi di famiglia patriarcale di grandi dimensioni (da trenta a sessanta persone) resistono fino al secondo dopoguerra come risulta da testimonianze orali.

Bisogna quindi prestare molta attenzione nella lettura dei documenti dell’epoca, in particolare per quanto riguarda l’inchiesta agraria: la figura del contadino bracciante diseredato dalla terra, disoccupato e messo in crisi dal rialzo dei prezzi è uno stereotipo che non è presente incondizionatamente in tutto il Veneto come da essa appare. Anzi, come dimostrano i dati relativi all’andamento dei prezzi e le cronache sull’emigrazione fu proprio il crollo dei prezzi dei prodotti a mettere in crisi i piccoli contadini ancora legati a vario titolo ai loro poderi Le grandi aziende capitalistiche in cui lavoravano giocoforza i braccianti sono sempre state considerate univocamente più resistenti alle crisi della piccola proprietà. I contadini di fine Ottocento che emigravano vanno quindi visti proprio come produttori, e non come acquirenti / braccianti, a meno che non si riesca a spiegare in altro modo la connessione tra crisi agraria legata al crollo del prezzo dei prodotti ed emigrazione.


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