Ponzano Veneto 1935-1945: Forza della Memoria

Dal 25 luglio all'8 settembre

25 luglio 1943

Le condizioni di vita nelle città sono disperate, è ormai fiaccato l’animo polare. Sotto i bombardamenti, attanagliati dalla fame, depredati dal mercato nero, umiliati dalla prepotenza squadristica, la stragrande maggioranza degli italiani hanno abbandonato ogni consenso nei confronti del regime fascista. Tra la fine di giugno e i primi di luglio, nelle città del nord e del centro, da Milano a Torino, da Genova a Firenze, ma anche a Porto Marghera e a Padova e in fabbriche della provincia di Treviso, come la Simmel e la FERVET di Castelfranco, gli operai danno vita a scioperi contro la fame e per la fine della guerra.

Il 10 luglio del 1943 le truppe anglo-americane sbarcano in Sicilia, si trovano di fronte una fiacca resistenza. «Li fermeremo sul bagnasciuga» aveva proclamato Mussolini, ma in pochi giorni conquisteranno tutta l’isola.

L’invasione, i bombardamenti, gli scioperi segnano la definitiva crisi política e militare del fascismo. È la fine del regime: il 25 luglio del 1943, dopo che il Duce è sfiduciato dal Gran consiglio del Fascismo, il Re affida il Governo al generale Badoglio che fa arrestare Mussolini. La popolazione, in tutt’Italia, reagisce con manifestazioni di gioia, sono abbattute le statue di Mussolini, distrutti i simboli del regime. C’è una grande speranza che la fine della guerra sia vicina.

La popolazione di Ponzano vive questo avvenimento in modo ovattato, in paese ne arrivano soltanto gli echi.

Questa speranza è presto delusa: Badoglio dichiara che la guerra continua, a fianco dei tedeschi, e sono represse nel sangue le manifestazioni per la pace.

Sono andato a fare il militare il 23 aprile del 1943, eravamo destinati ad andare in Croazia - racconta Bruno Picciol - c’è stata la caduta di Mussolini, il 25 luglio e non siamo più partiti. La notte, c’è stato un grande allarme, suonavano le sirene, poi tutti in silenzio. Gi americani i gha sbarcà. Alla caduta di Mussolini tutti quanti jera contenti: jera ora, podeva vegnar prima!

E allora tutti i buttava le fotografie di Mussolini fora per i balconi. A Treviso c’era una manifestazione e dopo i gha dovuo ritirarse, perché Mussolini xe tornà ancora. Ghe jera quei che cominciava a darghe qualche sciaffon ai fascisti. I gha dovuo far marcia indrio, il fascismo xe tornà ancora. Prima dell’otto settembre, perché l’otto settembre ghe xe stà l’armistizio con gli alleati, gli americani xe sbarcai in Sicilia e i ghe gha fatto dar le dimissioni a Mussolini. So genero, Galeazzo Ciano, e tutti quei altri, che lu dopo gha fatto copar, i ghe gha fatto dar le dimissioni».

Anna Mestriner descrive come fu vissuto quel giorno, nella sua famiglia, tra il padre, impiegato comunale, filofascista, e la madre, di una famiglia antifascista di Fiera di Treviso: «Me papà era fiduciario del Comune, me papà jera fascista. Me mama era dei Caldato de Fiera, tutti comunisti, ma in famiglia no i parlava mai de politica. No jera discussioni di fronte ai fioi. Non come ora, i fioi non savea niente de politica e de quel che succedea. Quando che xe cascà Mussolini, la prima roba che gha fatto me mama a xe anada a brusar la fotografia del Duce che gaveimo in casa e anca il berretto nero coi fiocchi della divisa. Me ricordo che l’è stà un brutto giorno per me papà, perché ghe credea ai più tanti. Me papà jera triste me mamma contenta perché ghe aveva sempre dato causa ai fascisti e a Mussolini che so fiol jera da tre o quattro anni in guerra».

I militari impegnati all’estero vissero la caduta di Mussolini attraverso gli ufficiali, emerse infatti l’antifascismo monarchico che covava nell’esercito.

Ricorda Giuseppe Uliana: «Il 25 luglio ero in Grecia, gli ufficiali i ne radunava, e ghe jera quei contro, [quei che] jera con Mussolini, e quei col re, e i cercava de tirarne da una parte e dall’altra».

Racconta Piero Stolfo. «Il 25 luglio quando è cascato Mussolini eravamo tutti molto contenti, anche molti ufficiali».

«Nel luglio del 43 - narra Luigi Martini - ero alla Scuola di Applicazione della Fanteria a Parma per il corso abbreviato per comandanti dei Plotoni d’assalto dell’Aeronautica, una specie di “marines” dell’Aronautica. La notte del 25 luglio del 1943, quando hanno arrestato Mussolini, ho sentito un gran baccano, gente che gridava. Apro la finestra: c’era gente in strada, abitavo vicino alla “Casa del fascio”, l’hanno incendiata. Nell’esercito non è cambiato niente, tant’è vero che ci hanno mandato al fronte, mi hanno mandato a Gaeta. C’erano circa duecento ragazzini, del ‘24, del ‘25, che venivano da Sciacca, da Castelvetrano, l’estrema punta della Sicilia, già occupata dagli americani e dagli inglesi».

Così Mario Marcuzzo ha vissuto la caduta di Mussolini: «Il 25 luglio ero militare, a Vicenza, gavemo savuo da radio scarpa che l’era cascà Mussolini, se jera contenti, se pensava che fosse finita la guerra».

8 settembre: “Tutti a casa”

Il 3 settembre l’Italia firma la resa incondizionata. L’8 settembre il Generale Eisenhower, comandante delle forze militari anglo-americane, annuncia, a sorpresa, l’armistizio con lo Stato italiano. Breve è l’esultanza di civili e militari, perché repentina e violenta è la reazione germanica: i tedeschi occupano le caserme e i luoghi militarmente strategici. A conoscenza delle trattative egrete di pace, Hitler aveva fatto alluire ingenti truppe in Italia. Il Comando italiano aveva lasciato mano libera ai tedeschi. Il Re, Badoglio e lo Stato Maggiore dell’esercito fuggono al sud, già in mano agli anglo-americani. L’esercito è lasciato a se stesso, migliaia di soldati sono allo sbando, gettano le armi e cercano di tornare a casa.

Anche a Ponzano si vive la gioia della pace, ma sarà un attimo breve.

Così Pasquale Borsato ricorda la delusione di quel momento: «L’8 settembre é stata una grande delusione. Prima hanno suonato le campane per la guerra che era finita, poi i tedeschi hanno invaso il Paese».

Annamaria Gastaldo racconta: «Del 25 luglio non ne abbiamo saputo tanto.

La reazione forte è stata l’8 settembre con l’armistizio: c’è l’armistizio. E finita la guerra, erano tutti contenti. E finita la guerra! Mio papà diceva: siete matti non è finita la guerra, ora viene il peggio. La gente che aveva un po’ di lesta capiva che non era finita, avevamo i tedeschi in casa, non stavano certo fermi. Infatti da allora è cominciato il peggio. Prima abbiamo sofferto, ma dopo è stato tremendo, è cominciata la lotta partigiana. I ragazzi che erano sotto le armi cosa facevano? Si sono trovati dentro una caserma, dove i comandanti non davano più ordini, dovevano buttare le armi o andare con i tedeschi. Tanti ragazzi tornavano a casa a piedi da zone lontanissime.Qualcheduno aveva una giacchettina, anche da donna, e sotto un paio di calzoncini da tennis, dove si trovavano la gente gli dava qualcosa da cambiarsi. Buttavano via la divisa militare e si mettevano qualsiasi roba, ma non poteva essere sempre che gli andasse bene».

Dall’esperienza del Commendator Martini emergono le gravi responsabilità dello Stato maggiore dell’Esercito, del Governo, e del Re. E palese la grave impreparazione dei nostri soldati, la scarsità di armi e munizioni. Le truppe sono abbandonate, senza ordini, alla rappresaglia dei tedeschi, con il Re e Badoglio in fuga. «L’8 settembre - ricorda Luigi Martini - ero al comando di un centinaio di ragazzini, anch’io ero un ragazzino di ventun anni, ancora non avevo avuto la pistola d’ordinanza, allora ho preso il moschetto dell’attendente, con un caricatore, agli altri cento ho distribuito le munizioni, chi aveva un caricatore con tre cartucce e chi aveva un caricatore in tasca, e siamo andati contro i tedeschi che avevano occupato il porto. Dopo una breve sparatoria ci hanno dato l’ordine di ritirarci. Il nostro comandante era il capitano losa, avevano messo a comandare i “marines” italiani un giudice di Roma richiamato. Ci siamo ritirati in caserma, i tedeschi ci hanno disarmato ed hanno messo le sentinelle alla porta. Siamo stati li tre giorni, senza mangiare e senza bere. La caserma aveva di fronte una parete a picco sul mare. Un giorno sono sceso, con un caporale di Udine, mi è stata utile l’esperienza di alpinista, fino ad un metro dall’acqua, li c’era un po’ di battigia, siamo andati avanti un bel pezzo, siamo risaliti ed abbiamo visto che c’erano delle case. All’indomani mattina presto, con chi voleva venire, siamo partiti, eravamo tre ufficiali, poi c’erano quattro sottufficiali e qualche aviere. Molti sono rimasti perché erano vicini a casa, la stragrande maggioranza veniva dalla Sicilia e non sapevano dove andare, la Sicilia era già occupata dagli americani».

Drammatica è la situazione soprattutto per i militari lontani dall’Italia: si trovano senza ordini a fronteggiare un alleato improvvisamente trasformato in nemico, animato da un feroce desiderio di rivalsa contro gli italiani che hanno osato riprendersi la propria dignità ribellandosi alla prepotenza tedesca.

Piero Stolfo racconta come ha vissuto lo sfascio dell’esercito: «L’8 settembre ero in Yugoslavia. A Nuovo Mesto, dopo l’armistizio, ho trovato la ragazza che avevo fatto scappare, mi ha pagato un bicchiere di vino e mi ha chiesto la pistola. L’ho data, non mi serviva più. È passato un apparecchio degli slavi che ha gettato un volantino che diceva: consegnate le armi, tornate a casa, si salvi chi può! I partigiani slavi lasciavano salva la vita a noi dell’esercito e sterminavano i fascisti dei Battaglioni M».

Giuseppe Uliana finisce in campo di concentramento in Germania: «L’8 settembre ero ancora in Grecia, gli ufficiali i xe sparii tutti, i tedeschi i gha messo un manifesto, chi gaveva armi, chi gaveva una moto i doveva consegnarli a loro, se no fucilazione. I tedeschi facevano propaganda, tutto il giorno, che a chi voleva venir a combattar in Italia, i ghe dava da magnar. Chi non voleva i lo portava in Germania a lavorar per i tedeschi. Ho deciso di star là perché ero convinto che la guerra finiva presto».

Piero Stolfo vive l’esperienza di un avventuroso rientro: «A Postumia abbiamo trovato una Compagnia d’italiani, che ci hanno detto che, se andavamo con loro, i tedeschi ci facevano andare a casa, erano sotto scorta tedesca. Ci siamo aggregati a loro, ma, a San Piero del Carso, abbiamo scoperto che ci volevano mandare in Germania. Per fortuna c’è stato un attacco dei partigiani slavi e noi siamo scappati. Mi hanno dato dei vestiti borghesi, in stazione ho comprato una carta d’identità per 200 lire. I tedeschi domandavano la Carta d’identità: “Papiren” dicevano. Sono tornato con un treno che, invece che andare a Trieste, ha preso per Mestre. Prima di Mestre i ferrovieri hanno fermato il treno perché i tedeschi ci aspettavano. Siamo scappati per la campagna, per tornare a casa a piedi. Ad un signore ben vestito abbiamo chiesto la strada per Treviso: tutto a diritto. Per fortuna c’era una vecchietta che ci ha dato da bere e ci ha detto che quello era un fascista e ci mandava nella bocca del lupo. Ci ha dato la strada giusta, una stradina di campagna. Siamo finiti ad una cartiera e il padrone ci ha fatto passare il Sile sulla barca condotta da una sua operaia, non ha voluto niente di mancia, se no il padrone la licenziava. Ho trovato uno che era con me in Yugoslavia, mi ha dato una forca, così sembravo un contadino che andava al lavoro per i campi».

Luigi Martini racconta un avventuroso ritorno a casa: «Da Gaeta, abbiamo camminato fino quasi a Roma, in mezzo ai campi per strade secondarie, mangiando mandarini e aranci crudi. A Roma, sono riuscito a prendere un treno, avevo la tuta bianca da aviere e la divisa nello zaino. Fino a Firenze è andata bene, poi ho dovuto cambiare treno ed abbiamo fatto parecchia strada sdraiati sopra il tetto del vagone, tenendoci l’un con l’altro. Quando siamo arrivati verso Mestre, il treno si è fermato a quattro cinque chilometri e i ferrovieri ci hanno detto: via tutti, scappate, a Mestre ci sono i tedeschi che vi portano in Germania». Così è successo a quelli che sono rimasti. Noi siamo saltati giù dal treno e siamo andati per i campi. Ho impiegato una giornata e mezzo per arrivare, a piedi, a casa a Paderno».

Mario Marcuzzo ebbe la fortuna di trovarsi a Vicenza: «L’8 settembre ero a Vicenza si doveva partire per la Croazia, un tenente ne gha fatto tor le candele dalle macchine, perché non le mettesse in moto e le portasse via i tedeschi, le gha messe su un sacchetto e ne gha dito: arangeve. Ndè a casa, ma vardè de schivar i tedeschi. Mi jero qua da visin, ma chi andava da basso, zo de là, a Bologna, a Roma, a Napoli (...). Semo arrivai in stazion, ghe jera un convoglio, alora, queo che fa i segnai sul parcheggio dei treni, ne gha domandà: dove dovè andar voialtri? A Treviso. Fermeve qua voialtri che parte il treno per Bologna e dopo rientra il merci per Treviso. Quanta fortuna gho, me son dito. Nel frattempo un boccia de sete, oto anni me gha dito: volo vestirse in borghese lu? Porca miseria, magari, ghe gho risposto. E alora el vegna a casa con mi, che me mama ghe dà un per de braghe e ‘na camisa. Con mi ghe jera un richiamato, del 7 o dell’8, el gavea paura. Quando semo arrivai a Treviso, non l’ho più visto, l’è scampà senza nianche salutarme. Più visto. Non ghe jera tanti tedeschi a Treviso. Son vegnuo a casa a piè, non ghe jera la coriera».

 

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