Ponzano Veneto 1935-1945: Forza della Memoria

Prefazione

Forza della Memoria la ricerca dell’Auser di Ponzano, coordinata da Andrea Dapporto, costituisce il modello di una ricerca rigorosa su una storia, “vissuta dal basso”, dal popolo di un paese agricolo, fatto di piccoli borghi, come era Ponzano. E infatti la storia di singole persone, in carne ed ossa, con i loro ricordi e le loro parziali visioni di un periodo terribile, come quello che comincia 1’8 settembre 1943. Ma è anche la preziosa testimonianza di una piccola comunità, la testimonianza di un percorso che parte da una adesione di massa al fascismo, ancorché passiva in molti, per giungere alla scoperta dei motivi che spiegano e legittimano il ricorso alla lotta armata.
Non solo contro l’invasione tedesca ma contro il “fascismo di tutti i giorni"e la sua rete di poteri irresponsabili e dispotici. Non solo, cioè, contro la reazione criminale delle bande fasciste, come le brigate nere o la guardia repubblicana, ma contro le piccole burocrazie locali, forti di una divisa o di un potere delegato e capace di un infinità di soprusi, grandi e piccoli, liberi da ogni regola e da ogni responsabilità; dal segretario del fascio locale, al segretario comunale, al podesta.
Certo mi sono sentito molto coinvolto nel leggere le pagine sulla lotta partigiana nella zona di Ponzano. Ho avuto la ventura (o la sventura) di fare l’esperienza delle guerre partigiane in montagna, nell’oltre Piave e nel Grappa, in città, a Milano, e in pianura, in aperta campagna, nascosto di giorno nei campi di grano o nelle case dei contadini, per organizzare di notte i sabotaggi alle vie ferrate, o gli assalti alle caserme fasciste, o per predisporre le condizioni per ricevere i lanci alleati, a Monastier o nella zona di S. Biagio di Callalta.
E posso testimoniare come la guerra in pianura, in campagna, era la scelta più pericolosa: non c’era il “fronte” ma una guerra civile, come scrive Pavone, una guerra selvaggia anche, condotta da giovani, senza retroterra dove rifugiarsi, come dimostra il sacrificio di Pietro Gobbato e dei suoi compagni, in campo aperto, dopo un agguato fascista. Era una guerra dalla quale una volta cominciata, non si poteva tirarsi indietro.
Si è scritto poco su questo versante della guerra partigiana che è la guerra in pianura, il più esposto, il più indifeso e, nello stesso tempo, impensabile senza il sostegno delle popolazioni contadine.
In una guerra civile come quella, era diffuso il sentimento - e l’ho provato anch’io - di preferire di essere presi da un reparto tedesco che da una banda fascista (pessima nei combattimenti, ma feroce nei confronti dei prigionieri e della popolazione civile). Eppure, in pianura è stato necessario prendere le armi al nemico, o organizzare dei lanci di paracadute all’aperto, in piena campagna, a pochi chilometri dalle postazioni tedesche o fasciste.
Ma quello che mi ha più interessato e colpito in questa indagine sulla storia di Ponzano sotto il fascismo, sono le testimonianze, anche riluttanti o distorte nella memoria, che concorrono a spiegare come è avvenuto il cambiamento delle idee e dei costumi di una popolazione, di una intera generazione, dopo 20 anni di regime fascista.
Perché, da questo punto di vista, la resistenza italiana costituisce un fatto inedito. E soprattutto la resistenza nelle campagne, isolata da ogni possibilità di conoscere o di intravedere un “altro mondo possibile”. Fuorché attraverso la guerra contro nemici demonizzati, in Spagna, in Abissinia, come nei Balcani e in Russia. Quando la guerra e i saccheggi legittimavano, il potere di distruggere o di imporre, di sentirsi, con un mitra in mano, padroni assoluti della vita o della morte di altri.

Nelle campagne la sottomissione sembra una scelta senza alternativa. Erano lontani i littoriali fascisti, la vita universitaria, il GUF, come momenti di una egemonia possibile di una ideologia fascista, ma anche, e sempre più, come momenti della presa di coscienza, in rapporto con altri, delle sue insopportabili contraddizioni. E, nello stesso tempo, attraverso i libri, i viaggi, la conoscenza di altre realtà, della democrazia altrove e di una cultura che poteva essere indipendente. Erano lontani, almeno all’inizio, prima del 25 luglio e dell’8 settembre del 1943, gli intellettuali che si formavano nell’università come il Bò di Padova e che scelsero, la via dell’antifascismo e della resistenza.
Penso all’esperienza di uomini come Ettore Luccini o di Poldo Ramanzini a Treviso. Di Curiel a Padova o, prima ancora, di uomini come Pietro Ingrao o Mario Alicata. Penso ad un uomo come Egidio Meneghetti. Ed erano lontani ancora gli uomini che uscirono dal carcere o dall’esilio dopo il luglio ‘43, o che provenivano dalla guerra per difendere la Repubblica Spagnola, anche lottando a viso aperto contro i fascisti italiani.
La mia esperienza, dal ‘41 al 43, di militante nell’esperienza francese della resistenza (ribellione all’occupante e ad un regime fantoccio) che non raggiunse mai, se non con la liberazione di Parigi, la dimensione di un movimento di massa mi porta a testimoniare che essa, almeno nella maggioranza dei casi, rimase a livello di attentati dimostrativi, in attesa del giorno della liberazione non di una guerra vera e propria, con le sue repubbliche e le sue zone liberate (ma che aveva pur sempre come punto di riferimento una
“democrazia conosciuta” e piegata solo con la forza militare dell’occupante).
Essa presentava un caso diverso dalla lotta partigiana italiana, in montagna, in città e in pianura. E lo stesso si può dire per la resistenza belga, olandese o norvegese che pure furono momenti importanti della ribellione europea al fascismo.
Lo stesso si può dire, a mio avviso, delle esperienze più vicine alla resistenza italiana, quella yugoslava e greca. Lì c’era solo un nemico: la selvaggia occupazione italiana e tedesca contro dei paesi che non avevano alle spalle venti anni di fascismo e che si trovarono a combattere contro delle bande armate di monarchici (Mikailovic) o di fascisti (Ante Pavelic). E quindi senza l’egemonia ideologica e culturale di cui poteva disporre per venti anni il fascismo italiano. Queste bande furono, fin dal loro inizio, l’equivalente crudele della Repubblica di Salo.
Venti anni di fascismo non spiegano con facilità questa scelta così numerosa della resistenza armata, che senza un sostegno diffuso della popolazione. anche in un lontano borgo agricolo, non avrebbe potuto sopravvivere. Certo, hanno concorso a questo processo le pessime condizioni di vita di una popolazione stremata dall’economia di guerra. E certamente ha pesato, come in altri paesi dell’Europa, la sconfitta di una guerra, lo smantellamento di un esercito come è accaduto l’8 settembre, e l’alternativa che si pose a molti giovani che rifiutavano l’ingresso nelle bande della Repubblica di Salo, di nascondersi o di combattere.
Penso a quei giovani renitenti, di cui parla l’inchiesta, che si riunivano la sera a Ponzano, per compiere, in comunità, la scelta della lotta armata.
Anche gli scioperi del ‘43 e del ‘44 ci propongono spiegazioni diverse. Formalmente erano scioperi economici. Ma le rivendicazioni economiche erano la fragile copertura di una scelta politica, quella di colpire il padrone e di lottare contro i fascisti, che con il loro intervento non si sono certamente illusi sul carattere meramente sociale di queste prime rivolte “pianificate” dai partiti antifascisti. Per questo i fascisti risposero agli scioperi con gli arresti e le deportazioni.
Ecco perché penso che l’inchiesta che è stata giustamente condotta dal basso, dando la parola a uomini e donne che hanno vissuto sulla pelle l’esperienza della fine del fascismo, e così rendendo conto delle loro contraddizioni, della loro evoluzione e dei loro cambiamenti anche repentini, ci aiuti a comprendere come venti anni di oppressione fascista possano sboccare non in episodiche rivolte ma nel più grande movimento armato di massa dell’Europa Occidentale.
Alla radice di questa scelta c’era certamente la disfatta militare dell’esercito fascista in Russia e nei Balcani e la presa di contatto con un grande movimento partigiano come quello greco, albanese e yugoslavo. Ma c’era anche prima di tutto la lunga incubazione di un movimento contro tutti i grandi e piccoli soprusi disseminati anche nei piccoli borghi, dall’apparato fascista e dall’apparato istituzionale che vi era asservito, contro le grandi e piccole violenze di un “fascismo paesano” che, lasciato a se stesso, diventava più feroce e più imprevedibile.
Da li il bisogno di “ritrovarsi insieme”, nei paesi occupati come in quelli liberati dai partigiani, con l’elezione del sindaco e del Consiglio comunale. Da 1i il costruirsi, non solo di una forza di resistenza armata alla ricerca di una sua legittimazione, ma di una dignità personale contro i soprusi. Da lì le prime decisioni collettive autonome, sino alla scelta di una libertà e di una democrazia, da parte di una generazione che non l’aveva mai conosciuta.
Se questa fu anche la storia, o una parte di essa, di un popolo, di una generazione che non conosceva una “democrazia da difendere”, ma conteneva i suoi profondi anticorpi nel rifiuto dei soprusi, dell’umiliazione, dell’arroganza di un potere non più legittimato, per quanto fondato su un populismo reazionario, ci sarà sempre da sperare, alla lunga, nella capacità di riscatto di un paese come questo.

Bruno Trentin