Ponzano Veneto 1935-1945: Forza della Memoria

Fascismo a Ponzano

La situazione sociale

All’inizio degli anni ‘30, Ponzano contava poco meno di 4.000 anime: una popolazione povera, prevalentemente dedita all’agricoltura.

Bruno Picciol, l’ultimo dei partigiani superstiti delle brigate “Giustizia e Libertà”, del Partito d’azione di Ponzano, descrive in modo efficace la situazione del comune: «Quanti jera i poaretti na volta? Jera tutti. Se disea che jera e rode del vassor (l’aratro) che pagava e tasse, quei che gavea tera, co no ghe jera neanca un operaio».

Il Commendatore Luigi Martini, sindaco per molti anni di Ponzano, dà quest efficace immagine della condizione sociale ed economica del paese, prima della Seconda Guerra Mondiale: «In tutto il Comune di Ponzano, negli anni ‘30-40, avevamo sei pozzi, due o tre pubblici il resto privati, si tirava su l’acqua con la corda. Fin che sono andato in guerra, si beveva acqua del fosso. In primavera c’erano i girini e la mamma tirava su l’acqua con i girini e poi li cavava via. Solo più tardi, avevamo il permesso di andare a prendere uno o due secchi d’acqua da bere, al giorno, ad un pozzo presso il vecchio asilo di Merlengo, dove avevano montato una pompa. Naturalmente c’era un contratto che, se c’erano delle rotture, si concorreva alle spese. Eravamo tutti piccoli e piccolissimi proprietari contadini, qualche fittavolo. Gli operai erano pochi, stavano in Borgo Ruga: muratori, qualche manovale e falegname, non c’erano posti. La prima strada, via Roma, è stata asfaltata nel ‘55-56».

Studiare costava un duro sacrificio per le famiglie e i figli dei contadini, come appare dalla esperienza scolastica, del commendatore Martini, negli anni ‘30: ‹Eravamo molto poveri. A casa mia, mio padre, con cinque figli, lavorava tre campi e mezzo di terra. Ho fatto le quattro classi inferiori della scuola media da privatista, mi ha aiutato mio fratello don Angelo, gli ultimi tre anni ho frequentato la scuola pubblica. Mio papa era alto uno e sessanta, io quasi un ottanta, i suoi pantaloni vecchi non mi arrivavano neanche a metà polpaccio. Mia madre aggiungeva un pezzo di stoffa, il più simile possibile, quasi uguale, io andavo in giro con quei pantaloni. Ho subito anche lo scherno da parte e qualche mio compagno di scuola. Bisognava pagare le tasse, però era esente ca aveva la media del sette, quindi per andare a scuola avevo la media del sette»

In questo contesto sociale il fascismo raggiungeva un ampio consenso. Non c’era stata opposizione all’avvento del fascismo. Il regime non si presentava, tra i piccoli proprietari e i fittavoli, con un volto repressivo, ma come elemento di continuità con il bonario paternalismo esercitato da sempre dalle classi dominanti nei confronti dei contadini. A questo si aggiungeva una forte retorica patriottica e un elemento di novità, il populismo. Cosi il rapporto del mondo contadino col regime fascista era frammentato tra adesione passiva e consenso attivo.

Il regime fascista riuscì a superare la crisi del ‘29 che aveva investito l’economia mondiale partendo dagli Stati Uniti e che aveva travolto milioni di piccoli risparmiatori e di aziende. In Italia, dove prevalente era l’economia agri-cola, ebbe effetti disastrosi sui piccoli e medi proprietari e sui fittavoli, costretti ad indebitarsi con le banche e con gli agrari. Racconta Arrigo Precoma: «Mio padre ha preso una grande fregatura con la crisi del 1929. E stata una crisi mondlale, ma forte cosi come in Italia non c’e stata in nessun’altra parte al mondo. La dittatura non permetteva di emigrare e nor c’era un soldo. Anche i fratelli di mio papa, a Caerano San Marco, si sono trovati con il bestiame ipotecato, per l’affitto dell’azienda e della casa dovuto ai padroni di Venezia. I contadini non avevano soldi e il padrone gli ipotecava il bestiame. Ipoteca oggi e ipoteca domani, solo una famiglia, su quattro, che aveva un po di risparmio è riuscita a stare a galla».

La scuola e le organazzazioni giovanili fasciste

Tra i giovani l’adesione al regime era altissima: la scuola, per le nuove generazioni, cresciute nel fascismo, era lo strumento fondamentale attraverso il quale passava la propaganda del regime. La professoressa Annamaria Gastaldo così ricorda il legame tra scuola e fascismo: «lo ero “Piccola italiana”, non ho fatto in tempo ad arrivare a “Giovane fascista”, ed ero caposquadra. I ragazzi cantavano una filastrocca: «Caposquadra, testa quadra, ripetente, bona da gnente».

Mi ricordo un lungo corteo che abbiamo fatto a Treviso, tutte vestite in divisa, abbiamo girato par tutte le strade, tutti incolonnati. La divisa da “Piccola italiana” era, - ho una foto con tutte quante le mie compagne di scuola in divisa - gonna nera a pieghe, camicetta bianca, con l’emme di Mussolini, a sinistra sopra il cuore, che si attaccava con un automatico, sembrava plastica.

I Balilla, invece, avevano le braghe grigioverdi e la camicia nera, il cappello l’avevano gli avanguardisti. Ricordo i giochi della Gioventù del Littorio. Allora ci portavano allo stadio vicino al Foro Boario, fuori porta San Tommaso, dove c’era la Motorizzazione, doveva essere dove c’è lo stadio di Treviso, il Tenni. Mi ricordo un grande prato dove si facevano gli esercizi con i cerchi e con le clavette. Per far questo esercizio, che durava cinque minuti, ci tenevano là tutta la mattinata; andavamo fuori a squadre, prima le “Piccole italiane”, poi le “Giovani fasciste”».

Tra gli anziani permanevano forme di dissenso. Racconta Luigia Rossi: «Quando sulle scuole i ne portava qua e là, me toccava a sconderme, perché i me metteva capo squadra e quando passavo da casa nostra, che l’era lì visin, me scondevo in mezzo perché me pare non volea». Il marito, Giuseppe Uliana, aggiunge: «A casa mia non se era fascisti, perché me pore papà me disea: non stè andar a far el premilitar, non stè a crederghe, perché i ve pareccia e poi ve manda a copar».

Arrigo Precoma racconta la contrarietà di suo padre verso il fascismo: «Mio fratello andava volentieri al premilitare perché era un modo di stare in compagnia con i ragazzi della sua età. Era coscritto con Bruno Picciol. Mio papa gli diceva: cossa vatu a far quelle monade là. Mio fratello gli rispondeva: varda papà non star a parlar così, non se parla contro. Mio padre per questo motivo fu ammonito perché si dimostrava contrario al fascismo».

D’estate, allora, poche famiglie potevano permettersi la villeggiatura ai monti o al mare. Il regime aveva istituito i “Campi solari”: «Durante la scuola i me g’ha fatto far anche il “Campo solare” - racconta la signora Maria Fornari - per un mese, alla “Casa del fascio”. Al “Campo solare” te andavi via la mattina e te tornavi casa la sera, i te dava anche da magnar a mezzogiorno e anche la merenda. Il pomeriggio si dormiva sui sdrai. Se stava sul cortivo, le tose da una parte e i tosati, con Marcellone, da st’altra parte». Il “Campo solare” rappresentava un’ulteriore occasione di propaganda patriottica fascista: «La mattina se fasea l’alza bandiera e la sera se la tirava zo. Se sogava e se passava le vacanze cosi, per un mese». Dalla prosecuzione del racconto appare che, tanto ardore per la Patria, non impediva che i piccoli gerarchi fascisti locali traessero vantaggi personali dalla loro condizione di potere. «I capi fascisti jera impiegati del Comune, Marcellone e il “Dazier”. Il “Dazier” gavea comprà una casa, una bea casa da un venezian e ai fioi, invece che farghe far il “Sabato fascista”, li mandava a lavorar la so terra».

Pasquale Borsato così narra la sua esperienza alla scuola elementare: «A scuola si era tutti in camicetta nera e il sabato si doveva andare al campo sportivo per le esercitazioni di ginnastica militare, quella che era la ginnastica premilitare. Benché fossimo bambini dovevamo saper fare il saluto alla bandiera, il saluto a Mussolini: “Saluto al Duce”. Questa era la scuola elementare al tempo del fascismo».

«Quando se andava a scuola, durante il fascismo, bisognava pagare la tessera, cinque franchi, una colombina, se no non te andavi mia a scuola» riferisce Mario Marcuzzo.

«A g’ho pagada anca mi la tessera del fascio - dice Maria Fornari - me ricordo cosa ghe jera scrito: giuro di eseguire gli ordini del Duce con tutte le mie forze necessarie, anche con il sangue, per la causa della rivoluzione fascista.

Invece sulla casa della Cuccagna ghe jera scritto: Razza Piave, buonissima razza italiana soprattutto fascista. Quante volte son passata davanti! Adesso i la g’ha butada giù».

Il premilitare

L’italia fascista era costruita su una retorica guerriera e fin da giovani gli uomini erano inquadrati in un’organizzazione paramilitare. Il “Sabato fascista” era un momento istituzionale per la preparazione militare. Chi doveva lavorare la terra non era certo entusiasta di perdere un sabato pomeriggio quando urgeva terminare il lavoro nei campi. I carabinieri erano chiamati a vigilare sull’osservanza delle regole fissate dal regime: chi non andava alle adunate del sabato era sospettato di sovversivismo e, comunque, era considerato un disfattista. Cosi rievoca Bruno Picciol il suo rapporto con il “Sabato fascista”: «Fascisti, bisognava esser fascisti, il sabato ne toccava andar al pre-militar, qui al campo sportivo. Mi non andavo e la domenega me toccava andar dai carabinieri e mi ghe disevo che non gho tempo e loro me diseva: andè per un’ora, per mezza ora. Marescial, ho me fradel che xe via, ho quattordese, quindese campi de terra da lavorar. Capisco, ma i me ciama e me dise de ciamarve. Va ben marescial, andremo, magari un sabo sì e un sabo no. Una domenega a Ponzan, una domenega, a Paderno, una domenega a Merlengo.

Era obbligatorio andar alla messa vestii da fascisti, avanguardisti, balilla, figli della lupa, e avanti su fin che a diciotto anni non te eri fascista».

Anche Ferruccio Bianchin, il cugino più giovane, staffetta partigiana, dei fratelli Bianchin, racconta: «A scuola se fasea il “Sabato balilla”. Nell’atrio ghe jera il Cristo in mezzo al re e Mussolini: evviva il re, evviva il Duce, sempre così e la mattina quando si entrava a scuola tutti quanti a saludar (fa il segno del saluto romano), il povero cristo in mezzo ai do ladroni. Il “Sabato fascista” se fasea a Paese, ma mi son andà poche volte».

Per gli operai la situazione era migliore, ricevevano la paga dell’impresa e il “soldo” militare come riferisce Ruggero Stolfo: «Zanatta ne fasea far il sabato fascista, io ero fascista per forza, tutti erimo fascisti ai tempi di Mussolini. Mi non gho pagà la tessera, ma ero fascista anca mi. Prima d’andar soldà, lavoravo dove ghe jera il Consorzio, na volta; ora i lo gha buttà giù. Faseo il ferraiol, a ligar i ferri. Me capita il “Dazier” e Liberali, che jera il podestà, i me dise: te gha d’andar per quindese giorni a far il campo. Era il ‘;39. Quando vengo a casa, ho ditto, son licenzia. L’impresa dove lavoravo me licenziava se non andavo a lavorare, il padrone era famoso, te licenziava se non te fasevi il to dover. Ti non stà a preoccuparte, ti va là. Allora semo andai via in cinque, anche me compare, semo andai a far le esercitazioni, a far manovre, a provar, g’aveo diciannove anni. Semo vegnui a casa, in divisa, mi presento a lavorar, trovo il padrone sulla porta. Allora vado dal Podestà: alo visto, se mi non son licenzia! Ti va là te vedrà che te lavori. Gho tirà la paga del premilitare e anche dell’impresa. I me gha fatto aver tutto quanto, pensavo d’esser licenzià e invece no, jera lori che comandava».

Alle scuole medie superiori partecipare al “Sabato fascista”, indossando la divisa, era tassativo. «C’era l’obbligo - racconta Luigi Martini - del “Sabato fascista”, il sabato pomeriggio per le esercitazioni, la ginnastica e poi, più avanti, a 16, 17 anni il premilitare, che consisteva in marce, esercitazioni ginniche, percorsi di guerra. Il sabato a scuola c’era l’obbligo di presentarsi in divisa. Chi non l’aveva era cacciato dalla scuola. E capitato anche a me all’Istituto Magistrale “Duca degli Abruzzi” di Treviso. Non avevo la divisa perché non piaceva in famiglia, ma anche perché eravamo molto poveri».

Mussolini a Treviso

La visita di Mussolini a Treviso è il riscontro dell’alta adesione popolare al regime. Il Duce parlò in una Piazza del Grano straripante di folla, venuta da tutta la provincia.

Annamaria Gastaldo così ricorda, con una punta d’ironia l’avvenimento:
«Quando è venuto il Duce a Treviso, io non ero in Piazza del Grano, ma presso i signori Sarzetto che avevano il bar che dava sulla strada Pontebbana. Lui è arrivato a Villa Margherita. In quella occasione era stata asfaltata la strada, prima era una strada bianca. Per il Duce ci hanno asfaltato la strada (la professoressa ride di gusto, molto divertita). Quando ha parlato il Duce c’era tanta gente in Piazza del Grano. Ed è arrivato fino a villa Margherita, passava di là, ma non si poteva buttare niente dai balconi, non si poteva gettare fiori, avevano paura che qualcuno buttasse bombe».

La visita di Mussolini era stata studiata come un grande evento per la propaganda di regime. La preparazione investì, per un mese, tutti i giovani della città e dei paesi intorno a Treviso, come emerge dalla testimonianza di Mario Marcuzzo: «Mussolini l’è vegnuo qua a Treviso, g’ho fatto un mese de premilitare alla palestra Verdi, ghe jera un campo sportivo, là dove ora ghe xe il tribunale. Se andava via la mattina e se tornava a casa la sera».

Il regime

Il consenso non era solo frutto di una adesione favorita dalla propaganda del regime e dall’azione capillare di proselitismo delle organizzazioni giovanili fasciste, esisteva anche un intenso e ramificato controllo, volto a contenere e reprimere ogni minimo accenno di dissenso. Questa pratica sfociava spesso in un potere arbitrario, un amalgama di paternalismo e di prepotenza.

Dice Bruno Picciol dei capi fascisti: «Liberali era il segretario federale fascista, ma non gha mai fatto del mal, i poveri li ha sempre aiutati. Ghe jera Marcellone, impiegato comunale, non te fasea mia una carta se non te eri notà al fascismo, non te andavi mia a scuola, neanche a scuola, se non te eri fascista e non te pagavi la tessera. Marcellone era uno de quei boni. Era un impiegato del comune, i personaggi così jera ignoranti intelligenti».

Non si poteva criticare il fascismo. Bruno Picciol dà un’ulteriore testimonianza: «Una sera, al capo acquario), Marcellone ghe sigava: l’è ora de finirla, te disi mal del fascio, ti che te vivi col fascio. Da domani mattina te si esonerà dall’impiego. A onor mio, a onor dei fascisti. Gho assistio a sta scena.
Dopo ghe gho domandà a so fradel: te ricordito de quella sera, cosa gavea fatto. Gavea bevuo un biccier de troppo e gavea parlà male del fascio».

Anche Pasquale Borsato attribuisce al potere che derivava dalle cariche comunali una parte del volto della prepotenza del regime fascista: «Ricordo che i fascisti del paese erano Marcello Moro, Marcellone, impiegato comunale, Crema, un altro impiegato comunale, erano i fascisti che dominavano a Paderno. Marcello Moro e Crema erano prepotenti, invasivi, per il potere che gli derivava dall’essere impiegati comunali».

Per Luigi Martini il fascismo, a Ponzano, non si sosteneva sulla violenza. La prepotenza e l’arbitrio erano aspetti marginali del regime, a livello locale: «Non c’era antifascismo diffuso ma non c’era nemmeno un fascismo pesante. Il segretario del Fascio era Liberali, era fascista perché gli avevano messo il cappello in testa, ma non è che fosse un gran fascistone, secondo me». Non esisteva un controllo democratico. La figura del podestà, assimilabile alla funzione del sindaco, sempre dal racconto di Luigi Martini, assumeva un ruolo puramente burocratico: «Podestà, per diversi anni è stato un Dolfato di Villorba, Pietro, veniva una volta al sabato a firmare qualche lettera e qualche carta. Era un periodo senza infamia e senza lode, poi, con l’ingresso in guerra, le cose sono peggiorate».

Alcuni elementi di violenza, a Ponzano, si devono essere manifestati solo nella fase iniziale del fascismo, al momento della presa del potere, quando più pesante fu l’azione squadristica, come appare dalla testimonianza di Pasquale Borsato: «Ai tempi dell’olio e del manganello, all’inizio del fascismo, qua nel nostro comune, è morto un padre di famiglia a suon di manganellate e “oliasso” di macchina bruciato. Questo è morto per le conseguenze delle botte e dell’olio bruciato, ma non è stato dichiarato».

Il dottor Gastaldo: un medico non gradito dal regime fascista

Il dottor Ernesto Gastaldo appare come una delle personalità più interessanti della storia contemporanea di Ponzano. Nato nel 1897, vinse il concorso per Ufficiale sanitario del comune nel 1923. Non veniva da una famiglia agiata, si era laureato con notevoli sacrifici. Nel libro di Guglielmo Polo, Ponzano, Paderno, Merlengo ieri e oggi, Comune di Ponzano Veneto 1983, cosi viene sottolineato il rapporto del dottor Gastaldo con il paese:

La gente ricorreva a lui non solo per prestazioni mediche, sempre gratuite quando il paziente aveva una situazione familiare disagiata (era chiamato infatti «il medico dei poveri»), ma anche per consigli o per aiuto, quando si trattava di lottare contro i soprusi e contro la cieca burocrazia.

Il medico condotto mal sopportava le manifestazioni ispirate dalla retorica fascista, le ottuse imposizioni del regime.

Ma facciamo parlare la figlia Annamaria: «Ricordo un altro episodio, significativo per quanto riguarda mio padre, questo precede la guerra mondiale.

Era terminata la guerra d’Etiopia (1936): i nostri soldati erano andati a combattere ed avevano vinto e tutta la gente doveva andare in chiesa a cantare il Te Deum, per ringraziamento. Mio padre era un uomo di fede, religioso, che ha sempre avuto una fede grandissima, però per quel Te Deum non si è fatto vedere, non è andato, era il Presidente dell’associazione dei combattenti. Il Federale, vale a dire il segretario del Fascio locale, la carica fascista più importante nel comune, ha denunciato mio padre. Mio padre ha ricevuto una lettera di riprovazione, io la conservo ancora, perchè non era andato a compiere quello che, allora, era considerato un dovere civile e patriottico. Si è trovato costretto a rispondere con una lettera di scuse, era l’Ufficiale sanitario del comune, era in palio il lavoro, la famiglia e tutte le prospettive future.

In questa lettera si scusa ammettendo di essere giunto in ritardo al Te Deum di ringraziamento, perché occupato nella visita di alcuni malati. Il clima che si era creato imponeva di andare, era una vera propria imposizione che invadeva anche la sfera più intima, la sfera religiosa».

Dall’archivio del dottor Gastaldo emergono alcune vicende, oltre a quella narrata dalla figlia, che segnano un attrito con il Fascio locale.

Già nel 1935, con una lettera, datata 10 aprile, inviatagli dal Presidente della Commissione Federale di Disciplina, veniva comunicata, al dottor Gastaldo:

La sospensione da ogni attività nel Partito Nazionale Fascista per la durata di mesi sei per atto d’indisciplina (Archivio Famiglia Gastaldo).

Quale era il motivo del provvedimento disciplinare? Aver partecipato ad una cena di saluto al Segretario del Comune di Ponzano, trasferito per motivi politici, come appare dalla minuta della lettera di giustificazione del 9 maggio del 1935, di cui riportiamo alcuni significativi passaggi:

In data 16 aprile u.s. mi è stato notificato un provvedimento disciplinare a mio carico: “Sospensione di ogni attività dal P.N.E. per un periodo di sei mesi per atto indisciplina”. Questo atto di indisciplina, a quanto mi è stato riferito, consisterebbe: 1° - nell’aver io organizzato una cena di addio al Segretario Comunale trasferito; 2ー nell’avervi partecipato. Ho affermato per iscritto e a voce di non esser stato l’organizzatore [...] sono stato invitato alla cena e vi ho partecipato per solo atto di cortesia. E tradizionale in Paderno di offrire ad ogni Funzionario partente un cena di addio. Mi si è obbiettato dal Dott. Sanna che i fascisti dovevano conoscere che il Segretario era stato trasferito per punizione e per motivi politici e che quindi la cena data al medesimo doveva suonare un atto di solidarietà o di protesta. |...] Non sono mai stato messo al corrente che vi fosse una questione politica contro il Segretario… Il lato politico di questa cena credo non fosse sospettato né dal Podestà, né dal Segretario Politico, né dai Regi Carabinieri, perché questi erano a conoscenza giorni prima, e non si sono in nessuna maniera opposti. Chiedo pertanto che mi venga annullato il provvedimento.

Nonostante la giustificazione, Ernesto Gastaldo fu costretto a scontare il provvedimento disciplinare. Solo il 12 marzo del 1936 si comunicava al Fascio di combattimento di Ponzano Veneto, con una lettera del Presidente della Commissione di Disciplina conservata nell’archivio di famiglia che, nella seduta del 3 marzo, il dottor Gastaldo era stato reintegrato nel Partito Nazionale Fascista.

Anche della mancata partecipazione al Te Deum, la Messa solenne per la vittoria in Etiopia, che emerge dalla testimonianza della figlia, si trova documentazione nell’archivio Gastaldo.

In un primo biglietto, che appare deteriorato, c’è l’invito a partecipare alla Messa solenne di ringraziamento per la vittoria di Addis Abeba, con la bandiera.
Una successiva lettera del Segretario del Fascio contiene la pesante e perentoria deplorazione per non aver risposto alla convocazione.

Deploro nel modo più vivo la tua assenza al Solenne Te Deum tenutosi oggi in Comune, in occasione della Grande Impresa Africana: Non solo non ti sei presentato, ma non ti sei occupato neppure di fare intervenire alla cerimonia una modesta rappresentanza con la Bandiera della Sezione. Ritengo la tua mancanza molto grave e segno il fatto fra le note caratteristiche che distinguono la tua persona di fascista e di Dirigente.

In seguito a questa deplorazione, Ernesto Gastaldo viene invitato a presentarsi alla Commissione Federale di Disciplina, il massimo organo di magistratura interna del Partito Nazionale Fascista, a livello provinciale (Archivio Gastaldo, lettera del 30.5.1936).

La situazione per lui si fa particolarmente pesante. Ha già subito un provvedimento disciplinare l’anno precedente. La mancata partecipazione al Te Deum di ringraziamento, per la vittoria che consegna all’Italia un nuovo Impero, appare come un grave atto di insubordinazione.

Egli è di nuovo costretto a giustificarsi, ma questo è comprensibile visto il clima del momento: dopo la presa di Addis Abeba e la fondazione dell’Impero il regime fascista è al culmine del consenso nel Paese.

Il medico si giustifica con una lettera:

A conoscenza dell’accusa a mio carico, espongo (..I gli clementi indispensabili perché venga fatto su di me un giudizio sereno. In data 9 maggio corrente XIV° mi venne recapitato l’invito |...) al Te Deum di ringraziamento per la vittoria di Addis Abeba [...) con una rappresentanza di combattenti (...). Ho dato subito disposizioni in merito ad un membro del Direttorio della sezione dei combattenti [...). Questa scena si è svolta alla presenza di varie persone fra cui la levatrice comunale ed il brigadiere dei Reali Carbinieri [...]. Il giorno dopo per una visita inaspettata mi sono recato quindici o venti minuti dopo l’ora stabilita alla casa del fascio per accertarmi se una rappresentanza di combattenti fosse andata in Chiesa con la Bandiera. La signora Cafasso mi ha assicurato che la bandiera era stata portata [...). Per non disturbare l’orazione di occasione del Parroco di Paderno mi sono fermato appena dentro la chiesa che era gremita di folla ed ha potuto constatare che oltre la bandiera buon numero dei combattenti era presente. Nella stessa sera di ritorno a casa ho trovato una lettera del Segretario Politico di Ponzano Veneto (...I. Confesso che questa lettera mi ha dapprima sorpreso e poi vivamente indignato, non appena cioè sono venuto a conoscenza che il Signor Segretario Politico prima di scrivermi era stato informato da varie persone (...] della mia presenza alla cerimonia. In data 12.5.1936 consegnavo a mano al custode della Casa del Fascio una lettera per il Signor Segretario Politico, lettera che trascrivo integralmente: «Devo rispondere alla sua del 10 corrente per contestare alcune affermazioni che voglio chiamare con eufemismo inesattezze. Non è vero che io non mi sia presentato al Te Deum e non è neppure esatto che io non mi sia occupato per farvi intervenire una rappresentanza di combattenti con la bandiera. La verità è che per un impegno imprevisto sono arrivato in ritardo alla celebrazione |...] non riesco a trovare una ragione comprensibile, che ella nella sua lettera abbia asserito che io ero assente dalla cerimonia quando prima persone degne di fede l’avevano invece informata della mia presenza«.

La giustificazione fu ritenuta convincente, non furono assunti provvedimenti disciplinari.