Ponzano Veneto 1935-1945: Forza della Memoria
In guerra: inizia una tragica avventura
Mussolini trascina l’Italia in guerra
Nel settembre del ‘39 la Germania, che ha già occupato l’Austria e la Cecoslovacchia, invade la Polonia. E l’inizio della Seconda Guerra mondiale.
Mussolini dichiara la non belligeranza dell’Italia. E un espediente per guadagnare tempo e preparare il paese alla guerra: l’esercito non era pronto e l’opinione pubblica ancora incerta. L’Italia si era già misurata con due guerre l’aggressione, dopo l’Etiopia, nel ‘39 aveva invaso l’Albania. La parte più accorta dello Stato maggiore aveva verificato i profondi limiti dell’esercito italiano, pur contro un nemico debole e impreparato.
Il Partito Fascista mise in campo tutta la forza della propaganda di regime per creare un forte consenso all’ingresso in guerra dell’Italia. In modo partiolare le organizzazioni studentesche fasciste esercitarono un ruolo determinante.
Così la professoressa Annamaria Gastaldo descrive il clima prebellico tra i liceali di Treviso: «lo frequentavo il Ginnasio, a Treviso, alcuni studenti facihorosi del Liceo Ginnasio Canova, sono saliti in presidenza ed hanno detto al| preside che dovevamo andare fuori tutti per una manifestazione a favore della guerra. Il preside ci ha permesso di uscire e siamo andati tutti fuori in corteo, Gridavano: vogliamo la guerra, vogliamo la guerra. I ragazzi erano come fuori di loro, volevano andare in guerra, volevano combattere per la iloria, per la grandezza dell’Impero».
Le truppe tedesche in pochi mesi invadono, dopo la Polonia, il Belgio, l’Olanda e la Norvegia, travolgono l’esercito francese. Mussolini è convinto che ormai la guerra volge definitivamente a favore dei tedeschi, si illude che il conflitto sarà breve, accelera i tempi per portare l’Italia in guerra. «Occorrono alcune migliaia di morti, per sedere da vincitori al tavolo della spartizione dell’Europa» dirà il Duce ai suoi più vicini collaboratori.
Il 10 giugno del 1940, Mussolini dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Il Belgio ha già capitolato il 28 maggio, la Francia si arrenderà il 17 giugno.
L’annuncio della dichiarazione di guerra fu trasmesso in ogni angolo del paese. Non esisteva la televisione e solo poche famiglie agiate disponevano di una radio, ma il fascismo si era dotato di uno strumento di comunicazione e di propaganda di massa capillare: il Duce, nei momenti decisivi, parlava direttamente al popolo attraverso gli altoparlanti collocati fuori delle “Case del fascio”. Anche nel paese più sperduto, c’era una “Casa del fascio”.
Dunque, a Ponzano, in quella lontana estate del ‘40, molta gente ascolta l’annuncio di Mussolini per l’ingresso in guerra, direttamente dagli altoparlanti. «Quando c’è stato il discorso di Mussolini che annunciava la dichiarazione di guerra - così Annamaria Gastaldo rievoca la sua esperienza - noi l’abbiamo ascoltato dall’altoparlante della “Casa del fascio”, che era dove adesso c’è il panificio degli eredi Pavan, in Via Roma a Paderno. C’era tanta gente, la cosa era talmente importante, un altoparlante diffondeva la voce di Mussolini.
Mussolini con un discorso ampolloso a un certo punto disse: noi dobbiamo odiare gli Inglesi. La dichiarazione di guerra è stata fatta nel ‘40, io avevo 12 anni, ero vicino a mio papà. Mio papà ha fatto solo un commento: gli italiani non sono capaci di odiare. Queste parole mi sono rimaste sempre dentro. Poi è cominciata questa guerra».
Luigia Rossi invece descrive in questo modo la reazione dei suoi fratelli all’ingresso in guerra: «I me fradei più vecci, uno dovea andar volontario in Africa e uno i lo avea richiamato, uno piansea e uno cantava, non jera tutti compagni. Altri tre fradei jera de finanza, non ghe jera da lavorar».
Il fascismo in guerra: armiamoci e partite
Il clima cambia pesantemente con l’entrata in guerra. I fascisti si adoperano per invogliare i giovani alla guerra e per reclutare volontari, ma pochi gerarchi andranno in guerra, la stragrande maggioranza resta a casa. Tra il popolo prese corpo la voce che la parola d’ordine della gerarchia fascista era:
“Armiamoci e partite”.
L’esercito, composto da gente comune, andava a combattere e a morire sul fronte esterno, mentre la gerarchia fascista stava a casa, per mobilitarsi sul fronte interno contro il “disfattismo”. Bastava una critica velata, l’espressione di un minimo dubbio, per essere accusati di disfattismo e le conseguenze potevano essere pesanti: una bastonatura col manganello ed anche il confino.
Una sera semo andai da Miotto a sentir el discorso del Duce - racconta Picciol - emo fatto solo che così (fa l’atto di storgere la bocca), una scianta, solo par ridar, mi e Munarin. Vegnemo fora, vien avanti Miciel e gha dito: sta volta l’è andata così, ma n’altra volta, se ve vedo ridar quando fa il discorso il Duce, ve metto a posto. Non gavemo mia riduo, gho ditto, se per caso te fa na mossa, non xe mia offender. Me venia da ridar perché l’avea ditto forti par mare, par aria e par terra, forti e la parola l’è quella storica, categorica: “Vincere”. Te vinci sì, sì, pensavo; gavea i cariarmati grandi quanto una scatola di patina da scarpe. Quando xe arrivà gli americani i so carriarmati toccava sotto Porta Santi Quaranta, che uno xe rimasto incastrà sotto la porta».
Il Primo maggio era un giorno blindato, bisognava impedire qualsiasi forma di ricordo della Festa dei lavoratori. Quel giorno, c’era una repressione preventiva di qualsiasi riunione. Fu cosi che a Bruno Picciol, una sera del Primo Maggio, capitò una brutta avventura. «Co i fascisti me xe toccà anche al Primo Maggio. Una sera vò per Merlengo, vegno a casa drio la Caotorta, Incontro una pattuglia di sette, otto omini: alt, Primo maggio, festa dei lavoratori, bisogna che controllemo tutti quei che camina per saver dove che va. Ti da dove viento? Mi vegno da Merlengo. Non te credo. Ghe jera Miciel, fascista anca lu per bisogno. Dise: xe Bruno, se conossemo. Silenzio!, dise queo che comandava, Primo maggio non deve esser movimento, la notte. Andavo a casa, ghe digo. Queo che jera insieme con mi, jera di Santa Bona, i lo gha fatto tornar indrio, i lo gha portà sulla casa da dove semo partii, dai Buffolo a Merlengo. I gha ciamà fora il padrone e gha dovuo testimoniar che jera stato là da so fia: l’è andato via che sarà un quarto d’ora, venti minuti. Il Primo maggio non se dovea far schiamazzi e tutti a casa, se jera già in guerra».
Piero Stolfo, per uno di questi soprusi, fini in prigione. «Avevo lavorato al Municipio per pulire gli alberi, mi avevano dato, per quindici giorni, 250 lire, Il daziere voleva trattenermi 50 lire, per pagare la tessera del fascismo dei miei fratelli che erano in Grecia e in Albania. Per farmi dare i soldi l’ho preso per il collo, ma a casa ho trovato i carabinieri, mi hanno tenuto dentro per otto giorni, i miei fratelli Rino e Ruggero era già in guerra, in Grecia».
L’oro alla Patria
Il regime lanciò la campagna “oro alla patria”, si diceva, per comprare l’acciaio e le materie prime necessarie al potenziamento bellico dell’Italia. Era un modo per costruire un rapporto diretto e capillare dei cittadini con le scelte del regime. Anche questa campagna, che ebbe un’ampia adesione popolare, fu condotta con un forte controllo del Partito Fascista. Non dare l’oro era un segnale di scarso senso della Patria, un sentimento pericoloso che poteva avere pesanti ripercussioni. I campioni dello sport consegnavano, pubblica-mente, le medaglie e i trofei, le dive del cinema i loro preziosi monili, le donne del popolo la fede nuziale, l’unico oggetto di valore della loro vita, che conservavano gelosamente. Annamaria Gastaldo racconta come fu vissuta questa esperienza dalla sua famiglia. «L’“oro alla Patria” avevano chiesto i fascisti. Mia mamma s’era fatta fare una vera d’oro, la sua se l’è tenuta ed ha dato al fascio quella nuova. Ecco questa è la vera di ferro (Mostra una vera di ferro con scritto all’interno “oro alla patria” 18 novembre anno XIX’ Il regime fascista aveva cambiato il calendario: il primo anno partiva dall’inizio dell’ “Era fascista”, il 1922, l’anno della Marcia su Roma e della presa del potere.). Davano tutto questo oro, ma anche il ferro. Abbiamo dovuto consegnare anche la recinzione della nostra villa, tutte le ringhiere in ferro e anche i cancelli. Bisognava dare il ferro alla patria, per fare cannoni. Ma l’oro chi sa dove andava a finire? Si diceva che se lo sono tenuto i capi fascisti. Mia mamma si è tenuta la sua fede d’oro originale, mio papà no, consegnò la sua».
«I fascisti - racconta Maria Fornari - i gavea domandà l’oro, le vere d’oro ma anche il rame. Le secce e le pignatte de rame. Mi me ricordo che a casa gaveimo le pignatte e anche il minestro di rame, tutto ne gha toccà a darghe».
Le Leggi razziali
Con il definitivo avvicinamento alla Germania, il governo fascista promulga, nel 1938 le Leggi razziali. Comincia così la persecuzione degli ebrei, anche in Italia. I cittadini italiani di religione ebraica vengono privati dei diritti più elementari, i giovani non possono frequentare le scuole statali; sono cacciati dal lavoro gli impiegati pubblici, si crea un vuoto intorno a chi esercita le libere professioni, boicottate le aziende di imprenditori ebrei. Con l’invasione tedesca, i fascisti della Repubblica di Salò finiranno per consegnare allo sterminio nazista centinaia di migliaia di ebrei. Anche a Ponzano si registra un tentativo di persecuzione. «La Villa Comunello - racconta Annamaria Gastaldo - era della Marchesa Bourbon del Monte, che era ebrea. Ricci era il nome del marito. La marchesa aveva una cagna, un pastore tedesco da difesa.
Notoriamente nessuno entrava, se non il medico, perché la cagna assaliva tutti quelli che entravano. Mio papà venne a sapere dai carabinieri che dovevano andare ad arrestare la Marchesa. Questo doveva esser già all’inizio della guerra o forse dopo. Allora mio papà andò ad avvisarla: Marchesa scappi perché domani vengono ad arrestarla. Lei è fuggita e si è rifugiata a Firenze dove c’erano tanti ebrei che sono rimasti nascosti. E vissuta là, da noi è venuta la cagna che si chiamava Quini, era bellissima, tremenda perché aveva mangiato I suoi cuccioli. Una cagna veramente cagna. Da noi è stato portato un pianoforte Stenwal e un frigorifero di quelli enormi, i primi che si vedevano. La marchesa ha cercato di portarsi via solo la roba che veramente le serviva. I fascisti si sono domandati: chi poteva entrare per avvisare la Marchesa Ricci? Soltanto il medico. Dicono che questa cagna, una volta che don Remigio aveva provato ad entrare nella villa gli aveva rotto la tonaca, da alto in basso.
Quindi, l’unico che entrava nella villa era il dottor Gastaldo. Insomma i fascisti volevano mandare al confino mio papà, l’ha rischiata brutta. Se non che al capitano, che lo stava inquisendo, pulendo la pistola è partito un colpo ed è morto. Così il Padreterno ha provveduto a toglierlo di mezzo.
La Marchesa, dopo la guerra, è tornata a vivere nella villa ed ha ritrovato il suo cane, il pianoforte Stenwal, il frigorifero. La Marchesa, dopo la Liberazione, lavorava come interprete al comando inglese che si trovava dove adesso c’è la casa del Prefetto, in Borgo Cavour».
Di questo episodio si trova traccia anche nell’archivio del dottor Gastaldo. Da una lettera del 1944, inviata al Comune di Ponzano, emerge il legame di fiducia tra il medico e la Marchesa:
In risposta alla V/s del 17 marzo Vi preciso che io non sono l’amministratore della Marchesa Bourbon Del Monte (nata De Morpurgo), ma semplicemente incaricato da Lei di curare in sua assenza ed in sua vece gli interessi suoi e del suo nipote Ranieri Bourbon Del Monte - Principe di S. Faustino - il quale mi ha riconfermato l’incarico con regolare procura. Non sono pertanto obbligato a fare alcuna denuncia e credo che la Sig/ra Marchesa non l’abbia fatta perché essa non si ritiene compresa nella Legge da Voi citata.
La legge a cui fa riferimento, in questa lettera, il dottor Gastaldo sono le Leggi razziali che obbligavano i cittadini italiani ebrei a denunciare i propri beni, mobili e immobili, al Comune.
Sulla Marchesa Bourbon del Monte il racconto di Maria Fornari: «La marchesa la xe morta povera, il giorno che la xe morta sul diario la gavea scritto che la gavea magnà poenta e salame. La gavea debiti, la gavea da pagar tutte le tasse e la serva jera do o tre mesi che non la pagava più. L’è morta povera, la marchesa, par non vendar il nome».
S’incrina il rapporto tra fascismo e popolo
All’ingresso in guerra il consenso nei confronti del regime è molto alto. Convivevano, tra la popolazione, la speranza e la convinzione che la guerra sarebbe stata breve e vittoriosa.
Presto queste certezze cominciano a incrinarsi sotto le tragiche conseguenze della guerra. I giornali tacciono dei morti, ma nei paesi giungono ai genitori, alle mogli, ai congiunti le comunicazioni dei caduti e dei feriti. La retorica fascista non può coprire dolori e sofferenze. La mancanza di cibo comincia a mordere nelle città. «C’era crisi in tempo di guerra - racconta Enrico Zanatta, Richetto - mi ricordo quelli da Treviso i vegnea a farina e i pagava tanto, al mercato nero, per un po’ di farina. Era crisi, tanta fame. Noi no, me mamma gavea polli, me papà latte, ma per le famiglie in città era un problema. Anche le famiglie de qua i ghe dava un boccon a chi veniva qua».
Nel ‘42, dopo due anni di guerra, sotto l’avanzata inglese in Africa, crolla l’impero. Gli orgogliosi coloni italiani d’Eritrea tornano a casa. Così Annamaria Gastaldo ricorda il ritorno dei cugini dall’Eritrea: «lo avevo dei cugini in Eritrea, questi sono ritornati. Quando l’Eritrea è stata occupata dagli Inglesi, gli Italiani hanno organizzato due navi per riportare a casa i nostri profughi. Mia zia con i quattro maschi è tornata a casa, mio zio è rimasto là perché era l’unica fonte di guadagno, doveva lavorare. Questi sono tornati a casa con due grossi piroscafi ed hanno fatto il periplo dell’Africa, il Canale di Suez era chiuso, entravano per Gibilterra, sono sbarcati a Venezia Mio cugino mi raccontava che, mentre facevano il viaggio, erano chiamati ogni mattina, a fare gli esercizi tipo militare, erano tutti incolonnati. Poi hanno smesso di fare gli esercizi. A mio cugino che voleva conoscerne il motivo gli hanno risposto che era caduto il Duce. Lui mi ha raccontato che non aveva capito bene cosa volesse dire che era caduto e si domandava per ché non si rialzava in piedi, così sarebbero tornati a fare gli esercizi ginnici. Mio cugino, la prima volta che ci siamo visti, mi ha salutato gridando: viva l’italia, facendo il saluto fascista. Tasi, ma situ matto, qui i te massa, gli ho detto. Lui veniva ancora con una mentalità fascista. Là erano tutti fascisti, qua avevamo già cominciato a capire che cosa era il fascio».
La fine dell’adesione al fascismo
E la drammatica condizione vissuta dai militari in guerra che segna la rottura definitiva con il regime di una intera generazione, nata e cresciuta nel fascismo. Rammenta Ruggero Stolfo: «Mi ho imparà a lesar e scrivar sotto le armi, prima non savea, ho fatto la quarta elementare e quando c’era un corso mi andavo per imparar a scrivar». Da queste parole è evidente che, in un primo momento, la vita militare era colta come un’occasione di crescita personale. Ma questa convinzione crolla amaramente sotto la drammatica esperienza della ritirata dall’Albania, prima, e dalla Russia, poi.
Così racconta, sempre Ruggero Stolfo, l’incontro con il fratello Lino in Albania: «Ero in Albania, erimo do fradei e non se riconosseimo, io camminavo di qua a sinistra e lu di là, se vardaimo e non se riconosseimo, jerimo in ritirata, quando gho verto bocca, maria vergine, se semo conossui quando se semo messi a parlar. Me par de conosserte. Ti te si Ruggero! Ti te si Lino!
Pensa in che stati jerimo, per scarpe le coperte ligate, barba longa, una baretla, non se conosseimo tra fradei, pensa come se era ciappai.
In Russia avemo sofferto tanto freddo e fame, in Albania fame e fame».
Albania, Grecia, Russia drammatiche sconfitte, disastrose ritirate segnate dalla morte di tanti commilitoni. «Ventisette mesi tra Albania, Grecia, poi on sta a casa un mese e semo partii per la Russia - continua il racconto di Ruggero Stolfo. Li gho fatto la ritirata, settecento chilometri, per strada, a piè, dodici giorni in mezzo alla neve. Quando ero in Russia l’è arrivà un onorevole, Starace mi pare, e ne gha ditto: voi avete fatto la Russia, quando tornerete a casa avrete un posto sicuro e mi il posto sicuro l’ho trovà andando in Venezuela, a fare il murer. Siamo tornati solo in duemila dalla disfatta della Russia con una tradotta. Semo parti in tre tradotte per ogni batteria. Una disfatta, mi gho fatto un diario» In occasione di questa intervista Ruggero Stolfo ci ha mostrato un quaderno, scritto a mano, no diario della ritirata e un numero della Rivista Airone che riporta la sua storia: il ritrovamento della sua gavetta persa nella ritirata.. Tra gli ufficiali dell’Esercito permaneva una tradizione antifascista, alimentata da un profondo rancore verso la Milizia e i Battaglioni M (M stava per Mussolini), i battaglioni dei volontari fascisti che nei Balcani si sarebbero macchiati di vili rappresaglie ed efferati delitti contro i civili. Così racconta la propria esperienza Piero Stolfo, che dopo 1’8 settembre entrerà nella Resistenza: «C’era una divergenza tra Esercito e Battaglioni M, i battaglioni Mussolini. Gli ufficiali delle brigate fasciste prendevano il doppio degli ufficiali dell’Esercito. Molti erano gli ufficiali antifascisti. C’era un odio dell’esercito nei confronti dei fascisti, una volta in Yugoslavia, dopo un agguato siamo andati a recuperare i corpi dei fascisti dei Battaglioni M morti, un ufficiale mi ha detto: non mettere le mani nel fango. Ho risposto: ma sono nostri, e lui: no, sono fango».
Piero Stolfo ricorda inoltre come avesse finito per appoggiare la popolazione slava, con la complicità del proprio tenente: «Sono andato due volte sotto processo. La prima volta perché ho impedito che tre soldati italiani, fascisti, violentassero una ragazza slava, ho sparato per aria con la pistola. 1 soldati quando sono mandati in guerra non ricevono solo le punture contro le malattie, ma anche punture con la droga per odiare. Per questo motivo mil hanno punito, ma il tenente ha fatto finta di eseguire la pena. La seconda volta ho fatto scappare una partigiana. Avevano catturato una partigiana con tanti volantini nel petto. L’avevano rinchiusa in una stanza, dovevo fare la guardia, dalle due alle quattro di notte, gli ho aperto il balcone e gli ho detto che la finestra era aperta. Lei non ha risposto, ma la mattina alle quattro era sparita. Anche in quell’occasione il tenente mi ha coperto, facendo in modo che non individuassero chi era di guardia».
In Yugoslavia, combattendo contro la resistenza slava, molti soldati che diverranno poi partigiani, imparano l’arte della guerriglia. Giuseppe Uliana in questo modo racconta l’esperienza maturata dal cognato, Luigi Rossi: «Piero (Piero Gobbato) lo teneva caro perché in Yugoslavia savea combattar; Piero e Enrico (i due fratelli Gobbato) iera aviatori. Gigetto jera de artigliria, l’era andà de pattuglia, l’avea visto delle robe. Tanto è vero che una fiola in Yugoslavia tentava di smorosarlo, una roba così, invece lui s’era accorto che l’era una spia. Insomma iu gavea pratica. Iu jera con noialtri, ma gavea na marcia in più, per questo gha fatto il partigiano».
Annamaria Gastaldo così descrive lo scoramento di un suo amico partito entusiasta per la guerra: «Un ragazzo che aveva fatto la guerra ed era tornato a casa scornato e diceva io ero uno di quelli che diceva voglio la guerra, ma lui si era reso conto di cosa era veramente la guerra».
La guerra aveva portato pesanti restrizioni per la popolazione civile. Questa condizione aveva finito per logorare definitivamente la credibilità del regime, particolarmente tra gli strati popolari più poveri. Il commendatore Luigi Martini mette in luce la crescita di questo profondo e radicale dissenso: «Lo stato di ribellione al fascismo è nato dalle condizioni di restrizione economica. Le famiglie che vivevano con due o tre campi di terra non avevano la tessera annonaria. A casa mia, con tre campi di terra dovevano vivere i miei genitori, mio fratello più giovane, mia sorella ed io. Anch’io, ogni tanto, andavo a prendere qualche cosa, perciò eravamo in cinque ed abbiamo mangiato tante di quelle patate americane fino ad odiarle. Poi c’erano quelli che non avevano neanche un campetto, era fame nera. Mio padre faceva cinque o sei quintali di frumento, metà doveva consegnarlo all’“ammasso” I contadini erano costretti a conferire allo Stato una parte consistente dei loro prodotti, che venivano distribuiti con la tessera alla popolazione. Questo anche per evitare che i prodotti alimentari, già molto scarsi, finissero tutti sul mercato nero. Questa operazione era definita portare all’amumasso, erano misure che potevano avere anche un fondamento di legittima suddivisione di quanto c’era da mangiare, ma stipendi non entravano, chi ha lo stipendio, bene o male, si può comprare qualche cosa. Questo è il mio caso, ma corrisponde ad un’ampia realtà del paese. La gente ha patito molto e anche quello ha portato ad un senso di insofferenza, di stanchezza, di ribellione e di odio nei confronti di questo stato di cose e di quelli che erano ritenuti responsabili: per la guerra e le conseguenze ed il Re per la sua fuga. Per il mercato nero non c’erano soldi, fortunati quelli che avevano le patate americane. Roba da vestire neanche sognarsela, comprare un paio di scarpe era una specie di sogno… da extraterrestre».
Note:
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