Ponzano Veneto 1935-1945: Forza della Memoria

L'assassinio di Piero Gobbato, Luigi Rossi e dei fratelli Bianchin

Il bisogno di armi per un salto di qualità nella lotta partigiana

Nell’estate del 44, il movimento partigiano è al massimo di crescita, per partigiani impegnati e azioni svolte. La Resistenza si è rafforzata a Ponzano, qualificandosi in una vasta azione di sabotaggio. Occorrono, però, armi automa-tiche, che sono gli obiettivi strategici più importanti, maggiormente vigilati e difesi dai fascisti e dagli occupanti tedeschi. Le formazioni partigiane che agiscono in pianura, a ridosso della città, in luoghi densamente abitati, non possono usufruire dei rifornimenti d’armi paracadutate dall’aviazione anglo-americana. Bisogna recuperare le armi là dove sono, nelle caserme delle Brigate nere. Lo Stato fascista è tenuto in piedi dai tedeschi e si regge sulla paura, ma ormai la sconfitta è sempre più evidente. Numerose sono le defezioni nelle file fasciste, comandanti delle Brigate nere prendono contatti con la Resistenza, offrono informazioni ed armi. Piero Stolfo riferisce di questi contatti: «Il capitano degli Alpini, che avevo trovato all’inizio, veniva a dormire a Ponzano e ci avvisava dei rastrellamenti, c’informava dei movimenti dei fascisti, ed era collegato con la Resistenza. Un tenente fascista era un ex impiegato di banca, ma era comunista, anche lui c’informava delle mosse dei fascisti». In questo clima matura la trappola tesa ai partigiani di Ponzano delle brigate di “Giustizia e libertà”. “La nuova strada” il settimanale dell’ANPI, nell’articolo già citato, così descrive la situazione a Ponzano:

Le file si erano ingrossate e la mancanza di armi, specie di quelle automatiche, costituiva il problema che più stava a cuore. Il Comandante Piero iniziò con il suoi uomini una serie di azioni allo scopo di disarmare i nemici e di impossessarsi di quanto occorreva. (“La nuova strada”, 1947).

Sull’azione armata nel gruppo partigiano esistevano diverse opinioni. Racconta Bruno Picciol che invitava Piero Gobbato a non andare in azione con le pistole: «Se i ne trova, ghe disémo che sendava a far na passeggiata. Se i ne trova armai, i ne cópa. Ma xe ben esser armai, rispondeva Piero. Ma chealtri i gha i mitra. Presto andemo a tor’e armi e se postémo anca nialtri”. Piero Gobbato aveva già contatti con ufficiali della Guardia Repubblicana, come ricorda Picciol: «Xe successo sto fatto. El me xe passà davanti e el me gha dito: ‘sta sera se vedemo; soito posto, soita ora. Comunque el ne gha dito: ghe saria dandar a Santa Maria del Rovare al comando fassista. Ma cèo, sito mato? Statu schersándo, fidarte dei fassisti!? Si!, el gha dito. Un capitano qua da Asolo el me dà dée armi automatiche. Mi no’me fido, ghe digo, comunque se te disi che l’è così... Varda che el me gha asicurà, chiuse il discorso Piero». Bruno Picciol continua la sua testimonianza: «Se sémo trovai mi, Cirillo Zanatta, Gigéto, i fradei Bianchin e Piero. Saria morto anca mi, se Piero non me dise: gavemo quatro pistoe, ndemo via nialtri quatro e vialtri vegnarì n’altra volta. Va ben Piero, ghe digo, se l’è cussi, ve auguro bona fortuna. E torno casa in bicicletta. Me sento fora e sento: brom, brom. Me son dito: vuto vedar che li gha fregài!? Me xe vegnùo i cavei driti. Par tuta la notte no’ gho mai dormio”. Racconta Giuseppe Uliana: «I se gha trovà tutti dala Giacomina, in osteria, e alora Piero ghe gha dito: ti Bruno e ti Zanatta, anca questo el xe morto, jèra i più zovani, stè a casa, andaremo via nialtri: mi, i do fradei e Gigetto. La mama dei fradei Gobbato la ghe dava animo, la i spenseva a no’‘ver paura». Giuseppe Uliana, inoltre, conferma la versione dei fatti di Bruno Picciol: «Piero el gha d’averghe ditto: stasera voialtri che si bocce ste a casa, che andemo noialtri, voi vegnè un’altra volta. Bruno dise, anche adesso, che lu gaveva la pistola e ghe l’ha data a Gigetto. Non jera tanto armai non i aveva tante robe. E ghe gha ditto: te do la pistola, va via con la me pistola, andè voialtri».

La trappola e l’assassinio dei partigiani di Ponzano

I partigiani cadranno in un’imboscata. Di questo agguato esistono varie versioni tra loro non sempre coincidenti. Nessun partigiano sopravvisse all’azione. Il CNL di Ponzano immediatamente dopo la Liberazione condusse una dettagliata inchiesta per ricostruire l’assassinio dei partigiani del Comune ed individuare i responsabili. Col passare del tempo, quella tragica notte, tra il 7 e l’8 settembre del ‘44, ha assunto il valore di una leggenda tramandata nei racconti della popolazione. Nel libro di Guglielmo Polo, Ponzano, Paderno, Merlengo ieri e oggi cit., si legge:

Nella notte tra il 7 e 1’8 settembre 1944, presso la Chiesa di Fontane, un gruppo partigiano guidato da Piero Gobbato venne circondato da militi fascisti che avevano teso un agguato. Quattro del suddetto gruppo furono presi dai fascisti: di essi, Luigi Valentino Rossi fu ferito gravemente all’addome, piantonato perché nessuno lo soccorresse e lasciato morire tra atroci sofferenze, mentre Piero Gobbato e i due fratelli Bruno e Gino Bianchin vennero trascinati al comando militare fascista di Villa Felissent, processati sommariamente, torturati, indi trasferiti in località “alle Corti” ove furono uccisi. (Ivi p. 32).

Il settimanale dell’A.N.P.I. di Treviso e Belluno, “La nuova strada”, pubblicato il 4 settembre del 1947, descrive l’agguato a Gobbato, Rossi e ai fratelli Bianchin, sulle basi delle testimonianze raccolte dal CNL di Ponzano:

Era l’8 Settembre 1944 e la guardia fascista del lavoro, rinforzata da agenti della polizia repubblichina, temendo per la ricorrenza un movimento di Patrioti, si era appostata qua e là. Presso il cimitero vecchio di Fontane di Villorba i fascisti in agguato attaccarono improvvisamente. La squadra di avanguardia si fermò contrattaccando decisamente i nemici e combattendo corpo a corpo. La lotta durò pochi secondi. I compagni della retroguardia si gettarono a terra: ebbero un attimo di esitazione nell’impossibilità di far fuoco in quella oscurità interrotta dagli spari. Fu alla luce di questi che fu visto Gigetto Rossi balzare nel tentativo di strappare un mitra dalle mani di un militare e quindi accasciarsi mortalmente ferito.
La sparatoria cessò. I nemici vociavano rabbiosamente e rivelarono di essere più numerosi della nostra retroguardia che riuscì a ritirarsi.
Il Comandante Gobbato, Bruno e Gino Bianchin da Postioma vennero catturati e trascinati nella caserma delle guardie del lavoro in S. Maria del Rovere: Gigetto Rossi rimaneva a terra facendo udire il lamento per lunghe ore di lenta agonia. All’avvertimento che un ferito grave giaceva a terra, il tenente fascista rispose «Lascia che muoia, un cane in meno».
E Rossi morì per primo [...]. Mori il contadino-eroe, l’intelligente e semplice, il volenteroso e nobile Comandante di squadra “G.L.”, il sottufficiale che aveva combattuto per anni in terre lontane. (“La nuova strada”, 1947).

Giuseppe Uliana, cognato di Luigi Rossi, tornato dalla prigionia, ricostrui, attraverso varie testimonianze la morte dell’amico: «E alora ‘sto Piero el gavea un contato co’ un capitano dei republichini che jera dentro la Caserma Salsa. Lori jera d’acordo dendar in fianco dea Caserma Salsa che i ghe garia passà fora dee armi par rinforsarse. Invesse i li gha tradii. Siccome jera anca el fato che, proprio un ano dopo l’8 setembre, i gha rinforsà ‘e guardie. Se sà come che fa i militari: i prevedea chelcossa de movimento. Alora ‘sto capitano invesse che darghe e armi, el gha mandà un camion co dee patulie a Fontane e li gha tirài dentro su un traneo; su una trapola. El savea el percorso che i fasea». Uliana introduce un altro elemento significativo: la provocazione dell’ufficiale fascista era orientata a stroncare il gruppo di Resistenza di Ponzano; infatti afferma: «Lu gavea dei dubi che a Ponsán ghe fusse zà sto gruppo. Quando ch’el gha scoperto che Piero el jera un capo, lo gha tirà su un traneo. El ghe gha ditto: vien su par la strada bassa de Fontane, da Ceolin. Quando che i xe stai là ala Césa Vecia che ghe xe l’altra strada che vien da Fontane, el camion el jera, i gha dito, messo de traverso ala strada. Alora i gha sparà. Gigetto i lo gha colpio subito, i do fradei de Postioma e Piero, i li gha portai in caserma e li gha interrogai e li gha torturai». Il CNL di Ponzano raccolse la testimonianza del dottor Piero Battistuzzi che riferiva la versione orale del milite della Guardia Nazionale Repubblicana che uccise Luigi Rossi:

Circa la fine del Patriota Rossi so che, fu colpito da un colpo d’arma da fuoco alla regione epatica, presso il cimitero di Fontane da Toffoli Andrea da Pieve di Soligo.
Ecco la versione orale, approssimativa, del fatto fattami dallo stesso Toffoli.
Alla curva della strada presso il cimitero di Fontane il Brigadiere Castellan Felice senti appressarsi alcune biciclette a mezzo suo cenno ci apprestammo in aggua-to. Appena spuntarono i quattro individui il Castellani intimò l’«alt» e « le mani in alto» ed, armi puntate, ci ordinò di avvicinarci agli individui per perquisirli.
lo mi accostai ad uno tenendo il moschetto sotto l’ascella; carico, senza sicurezza, il dito al grilletto, pronto ad una eventuale reazione. Feci il gesto di perquisire quando il partigiano, che teneva le mani alzate, abbassò improvvisamente la destra ed estratta una pistola sparò un colpo che io per fortuna riuscii a scansare deviandogli il tiro colla mia sinistra libera e nello stesso tempo feci scattare il grilletto del mio moschetto. Colpito al petto il giovane stramazzò al suolo dove fu abbandonato. (Relazione al Comitato di Liberazione Nazionale di Ponzano del Dr. Piero Battistuzzi, sull’uccisione di Rossi. Archivio Gobbato).

La versione del Toffoli, anche se è evidente l’intento di discolparsi, rimane l’unica testimonianza diretta di un protagonista di quella tragica notte. Bruno Picciol rilascia una dichiarazione sulla morte di Luigi Rossi, che contraddice la versione del Toffoli: «Come xe successo de Gigetto Rossi? Gigetto Rossi, chea sera el jéra più indrio, parché mi gho sempre dito: stemo do davanti e do a cinquanta metri. In caso, vedemo come che ‘a va. E cussì lu el xe restà pi indrio. Quando che i gha intimà: alt, fermi, i gha sparà do colpi di rivoltea in aria. Anca lori i gha sparà e i fassisti i lo gha colpio sua pansa. Lu, in bicicletta, l’è vegnuo fin in Via Pastro, qua a Fontane, sul ponte dea Giàvera, a destra, l’è morto soto i platani [...]. El sigava: juteme, juteme, porteme in ospedal, quanto mal, son ferio! Nissun gha vuo el corajo de vegner da basso par jutarlo. Cussì lu el xe morto là, povero fiol, drio la siesa». Luigi Rossi agonizza tutta la notte, sorvegliato dalle Brigate nere, nessuno può soccorrerlo. Ferruccio Bianchin, cugino dei Bianchin, staffetta partigiana, così ha ricostruito l’episodio: «Quando che i se gha incontrà co’‘e Brigate nere, Gigetto Rossi xe sta colpio subito e i gha ciapà Gino. So fradel, Bruno, lo gha sentio sigàr, el xe tornà indrio par liberarlo e i gha ciapà anca iu. El fradel pi’ vécio, el jera riussio a salvarse ma el più zovane, el jera sta ciapà dae Brigate nere, cussì el xe tornà indrio par liberarlo e el ghe gha dito ae Brigate nere: ciapé-me mi e mandè a casa me fradel più cèo, da me popa e me mama. I jèra do fioi unici». Enrico Gobbato che sarà il sindaco di Ponzano alla liberazione, fratello di Piero, non partecipò direttamente all’azione. Da varie testimonianze si può dedurre che fosse alla retroguardia del gruppo partigiano, ma le forze nemiche erano soverchianti, per cui non potè intervenire nello scontro, né prestare direttamente aiuto a Luigi Rossi morente. L’unica autorità in grado di intercedere per i prigionieri e aiutare Luigi Rossi era il Parroco, da cui si recarono Enrico Gobbato ed alcuni partigiani. Anche su questa vicenda esistono versioni contrastanti: pochi sono i testimoni ed è nata una specie di leggenda su questo tragico episodio. Giuseppe Uliana così descrive l’iniziativa di Gobbato: «La storia de Enrico la xe che iu gaveva tentà, a Fontane, a portar a casa Gigetto ma i lo gavea spostà. I gha trovà el sangue su a strada. I jera dusento o tresento metri al deà de un canal e xe rivà da novo quei dee Brigate nere. I se gha sparà. Cussì i disea quei che gavea visto dae finestre dee case. E alora, visto che là i jera in pericolo, el xe vegnuo dal prete de Ponsàn. Enrico el jéra fora de iu. El gavea visto Gigetto morto e i fassisti gavea ciapà Piero e i lo gavea portà in Caserma Salsa. Lu el jera ‘ndà par dirghe al prete de poder far qual chelcossa. El gha sonà dal prete de Ponsán e el prete gha ciamà so sorea. Ea ghe gha dito: no’ ste’ndar Giovani parché qua i te copa. Alora Enrico gha saltà el cancel ma el gavea na bomba a man de quee tedesche, picada ala sintura. Se gha picà ‘e braghe sul cancel e ‘a bomba la xe sciopada. Ghe xe sta amputà na gamba. Riccardo Rossi che el jera el campaner, el stava andando a sonàr l’Ave Maria, el xe sta ferio anca lu». Luigia Rossi, sorella di Luigi, ha ricostruito dai racconti questa versione:
«Quea matina Enrico (Enrico Gobbato) el ‘ndava dal prete par portarghe un segreto, parché lu gavéa visto Gigetto, ma no’ l’gavéa visto Piero. I ‘ndava dal prete per contarghe ‘sto segreto. E ‘e done diseva che i jera ‘ndai par copàr el prete, ma no’ jéra gnente vero. I jéra ‘ndai par contarghe ‘sto segreto. Enrico el gha fato par saltàr la sbara e ghe xe cascà la bomba a man el se gha fato mal. I lo gha portà via insieme al campanèr. Se gaveva fato male anca lu par- ché el jèra là da vissin». Nel libro Ponzano: note storiche. Storia sociale ed economica, del 1981, nel capitolo Un tragico episodio, si riporta una testimonianza del Parroco di Ponzano:

Don Sernagiotto ha lasciato una relazione sul tragico episodio che costò la vita a due partigiani ed il ferimento del sacrestano: «Il giorno 8 settembre 1944, verso le 5.30 il parroco fu svegliato da persona entrata nel cortile della canonica che lo chiamava con insistenza. Richiesto chi fosse, e saputolo (si trattava del sig. Ignazio Gobbato)Enrico Gobbato, in vari documenti, verrà indicato col nome Ignazio, in quanto aveva un doppio nome.  aprì la finestra e domandò se ci fosse qualcuno che avesse bisogno del suo ministero. Ebbe risposta negativa, ma che voleva parlare con lui, che scendesse immediatamente. Quel tale era armato e poi si unirono a lui altri cinque individui, pure armati di moschetto, che prima si erano nascosti. Il giovane era irritatissimo, agitava le armi e minacciava il parroco, se non fosse sceso.
Il parroco reputò più prudente chiudere la finestra e ritirarsi. Poco dopo si udi una detonazione. Era sfuggita di mano a quel partigiano, capo della spedizione, una bomba a mano che teneva con sé e che lo ferì gravemente, tanto che gli si dovette amputare una gamba. Anche il sacrestano, sig. Riccardo Rossi, appena giunto per il suono dell’Ave Maria, rimase leggermente ferito dallo scoppio».

Il figlio del sagrestano, Lino Rossi, che allora aveva dieci anni, non era presente all’avvenimento, ma è in grado di riportare la testimonianza del padre, ascoltata decine e decine di volte in famiglia: «Essendo mio padre in quel momento sacrestano e campaner, andava a suonare le campane. Quella mat-tina, l’8 settembre, era una festa mariana e dovevano essere suonate la campana media e quella grande. Non potendo suonare le campane, perché ero troppo piccoletto, quella mattina non ero assieme a mio papà, c’era mia sorella più grandetta che l’ha raggiunto più tardi. Non poteva portarla sulla canna della bicicletta perché i copertoni non sarebbero stati in grado di sopportarne il peso. Mio papà appena arrivato ha visto un certo movimento ed ha sentito un colloquio del Gobbato che parlava col parroco che era al secondo piano, non nella sua camera ma di sopra. Mio padre ha sentito questa risposta del Parroco: aspetta un attimo, non pol far che arrive Riccardo. Riccardo era mio papà, il sagrestano. Don Giovanni Sernagiotto non era coraggioso, anzi era un uomo un po’ timoroso, ed ha avuto paura. La sua camera era al primo piano e lui, per precauzione, era andato al secondo. Allora c’era la stessa recinzione d’adesso come forma, come posizione, solo che essendo vecchia, già da allora, c’era un cancello di ferro che s’incastrava sul fermo per terra, per aprirlo bisognava dare un calcio. In quel momento, mio papà ha ricevuto un altolà, ha risposto: son mi, Enrico, son Riccardo, la situazione gli pareva un po’ strana. Gobbato gli ha intimato: aprimi il cancel-lo! O hai paura che ti minaccio a mano armata. Un momento, ha risposto mio padre ed ha fatto due passi per avvicinarsi alla chiesa, mentre stava mettendo la chiave nella toppa, si è girato ed ha visto che Enrico buttava le bombe a terra. È scoppiata una bomba. Mio papà è stato colpito dalle schegge vicino all’occhio, in una gamba e al ventre. A Enrico è rimasta spappolata una gamba, attaccati al muro della chiesa sono rimasti, per mesi, schizzi di sangue, brandelli di stoffa e di pelle. Questo sta a dimostrare che in quel momento Gobbato era sconvolto per la forte emozione. Senza dubbio, escludo che sia andato a minacciare il parroco, ma a domandargli di intervenire, il parroco era l’unica autorità che poteva intervenire a favore di Rossi morente, di Piero Gobbato e dei fratelli Bianchin, prigionieri dei fascisti. Enrico era sconvolto, con tutte le disgrazie che gli erano capitate. Ho sentito dire che in quelle condizioni ha attraversato tutto il cortile, mentre il cancello era aperto, ed ha saltato la ringhiera, là dove ci sono le lance in aria, lì è rimasto appeso con la gamba. Mio papà ferito da più schegge era disperato e gridava: te gha rovinà un pare de sinque fioi!». Enrico Gobbato e Riccardo Rossi furono portati all’ambulatorio del dottor Gastaldo, come racconta la figlia Annamaria: «Ho sentito come un botto, un gran colpo. Mi sono detta: vuoi vedere che gli americani sono sbarcati a Venezia? Correvano voci che gli americani sarebbero sbarcati. Dopo di che ho sentito suonare il campanello, è arrivato uno che reggeva Riccardo “Campaner”, era stato ferito da un bomba e aveva tutte le schegge nell’addome. Gobbato lo hanno portato da noi e aveva il piede tutto staccato, oramai penzoloni. Mio papà l’ha tagliato, me ne ricordo, come fosse ora. Mio padre per anestetizzarlo, siccome non aveva anestetico, gli dava la grappa e le sigarette. Gli ha legato tutte le vene e dopo l’hanno portato via a casa di sua mamma. Mio papa ogni giorno andava a curare Enrico, dicendo che andava a curar la mamma. La mamma d’Enrico abitava in quella casa prima delle scuole elementari. Là abitavano i Gobbato, erano tre fratelli Enrico, Irma, Piero che è quello che è stato torturato e poi ucciso. Enrico era venuto da Don Giovanni per dirgli: don Giovanni intervenga per salvare questo ragazzo. Era Rossi che è rimasto tutta la notte a lamentarsi. Nessuno è andato a soccorrerlo, non si poteva avvicinarsi. Enrico voleva parlare col parroco ma, mentre attraversava il cortile, non si sa come, gli è caduta una bomba che aveva alla cintura». La pubblicazione sulla storia di Ponzano di Guglielmo Pol rafforzerebbe questa versione:

Sfuggirono all’imboscata Enrico Gobbato, fratello di Pietro, ed alcuni compagni, i quali pensarono, spinti dalla disperazione, di chiedere aiuto al parroco di Ponzano, don Giovanni Sernagiotto.
In quell’occasione cadde dalla tasca di Enrico Gobbato una bomba a mano che scoppiando lo ferì gravemente al piede sinistro. Alle sue grida accorse in aiuto un vicino, Natale Bortoletto. Tempestivamente e di nascosto il dott. Ernesto Gastaldo dovette eseguire l’amputazione del piede coadiuvato da Albino Picciol, zio del Gobbato, e da Marcello Faccin. In tale circostanza fu ferito, seppur leggermente, anche il sacrestano Riccardo Rossi che in quel mentre giungeva per il suono dell’Ave Maria.

Emilio Gallina, poeta dialettale trevigiano, sfollato da ragazzo a Postioma, fornisce una testimonianza che dà l’idea di come questi episodi abbiano assunto un tono da leggenda: «Sentivo i racconti degli uomini del colmello riuniti a filò. Racconti che impressionavano noi, allora ragazzetti e che ora mi tornano vaghi. Di Gobbato, impazzito dal dolore per la morte dei due giovani, del suo girovagare per la campagna minacciando con una pistola i superstiti che a spalle portavano via gli sfortunati ragazzi mi è rimasto il ricordo». Bruno Biasini, invece, ha rilasciato questa versione:

Quelli che sono scappati sono andati a Ponzano per dire a Ignazio Gobbato che suo fratello era morto. Ignazio è andato dal prete di Ponzano per chiedergli di andare lui ad avvisare i familiari di Pietro. Il prete, come risposta, gli ha chiuso la finestra in faccia.
«Non vengo mica per ucciderlo», gli ha urlato contro Ignazio. «lo non ne voglio sapere», ha ribattuto il prete.
Allora Ignazio ha preso la bomba che aveva attaccato alla cintola e ha cercato di buttarla via. Si vede che levandola ha toccato la sicura, così la bomba è scoppiata rovinandogli una gamba. Alle 4.30 del mattino lo hanno trovato Gino Palazzon ed alcuni altri lo hanno portato dal dottor Ernesto Gastaldo, il quale ha effettuato immediatamente l’amputazione. Appena operato, è andato a prenderlo Rino Bertelli e se l’è portato a casa per un po’ di tempo. (Ives Bizzi, La Resistenza nel trevigiano cit., p. 93).

L’assassinio di Piero Gobbato e dei fratelli Bianchin

Nell’articolo, già citato, del settimanale dell’A.N.P.I., “La nuova strada”, si descrivono in modo puntuale e documentato, dopo il ferimento, la morte di Luigi Rossi, le torture e la tragica fine di Piero Gobbato e di Bruno e Gino Bianchin:

La furia satanica dei fascisti esplose contro i tre prigionieri, il cui contegno fu esaltato dai testimoni oculari che ci hanno descritto la scena.
Colle mani legate dietro il dorso, tra calci sferrati con scarpe chiodate e forti percosse, i tre si dimenarono per lunghe ore al suolo senza far nomi, senza tradire i compagni di cospirazione e di lotta.
Piero Gobbato fu riconosciuto come comandante e contro di lui si scagliò maggiormente la barbara ciurmaglia.
Con un braccio spezzato, sanguinante da tutte le parti egli a stento si reggeva in piedi (...]. Quando si parlò di morte, ai fratelli Bianchin che si lamentavano pensando ai vecchi genitori di cui erano gli unici figli ed il solo ausilio nel faticoso lavoro della terra, il Comandante rivolse nobili parole di conforto e di incoraggiamento. Bruno Bianchin, audacissimo nelle imprese e tanto caro al Comandante per l’eccezionale “fegato” dimostrato, pregò inutilmente i feroci torturatori che fosse almeno risparmiato il fratello minore Gino, giovanissimo e buono.
I tre giovani ricevettero il conforto religioso dal Cappellano della Caserma, il quale a suo tempo ebbe sincere parole di ammirazione per i Martiri e di esaltazione degli ideali da essi professati. (“La nuova strada”, 1947).

I tre partigiani furono confessati da Don Angelo Campagnaro, sacerdote della Cattedrale di Treviso, il quale rilasciò una testimonianza:

lo sottoscritto dichiaro che, dopo aver amministrato la S. Confessione al sig. Gobbato Piero e ai due fratelli Bianchin, Confessione ricevuta con tanta fede da tutti nella sala del Palazzo Zorzenoni, via Vittorio Veneto nei pressi della chiesa, ho chiaramente udite queste espressioni di Piero Gobbato: Gli chiedeva un sottufficiale: «Ditemi la verità, voi siete ufficiale, non è vero? »
Rispose: « No, ma sono uno che ama fortemente la Patria.»
«Perche avete fatto questo?»
Risposta: « lo non vi odio, ma non posso collaborare con voi. In Italia vi devono essere solo Italiani, quindi sono contro di Voi perchè collaborate con i Tedeschi.» Tutto questo egli diceva di fronte ad una quarantina di soldati armati ed era legato fortemente le mani al dorso. (Testimonianza di don Angelo Campagnaro, del 6 novembre 1944. Archivio Gobbato).

L’articolo del settimanale dell’ANPI così continua:

Dopo animata discussione una decisione fu presa: il capitano ordinò di trasportare i patrioti nelle carceri della caserma Salsa in attesa di regolare giudizio ed a tale scopo furono affidati al più feroce tenente.
La pattuglia si incamminò lentamente nella notte, accompagnata dall’abbaiare dei cani. All’improvviso l’ufficiale diede ordine di deviare verso le Corti [...).La satanica decisione era forse balenata in quell’uomo senza cuore, mentre ancora si discuteva in caserma, e là, ora sorge un cippo commemorativo, in luogo certamente nascosto e solitario, fu ordinato il fuoco e stroncata la vita dei migliori compagni. «Viva l’Italia libera!» fu il grido lanciato da Piero, il grido di fede e di combattimento delle formazioni partigiane. Abbandonati in un fossato, c’è chi ha raccontato che inutilmente il più giovane dei Bianchin rivolse, agonizzante, l’ultima preghiera affinché i nemici gli permettessero di morire almeno fuori dall’acqua. Ma quale pietà si poteva pretendere da quei fratricidi? (“La nuova strada”, 1947).

Dalla dichiarazione rilasciata da Carlo Gallina al CNL di Ponzano, emerge l’efferatezza delle torture subite dai tre partigiani, il coraggio di Gobbato, la tenerezza del più vecchio dei fratelli Bianchin nei confronti del fratello più piccolo, che aveva appena 18 anni:

La notte dal 7 all’8 settembre mentre mi trovavo in Caserma “Militi del Lavoro” furono portati tre giovani catturati dalla pattuglia comandata da Castellan.
Durante l’interrogatorio, al quale mi trovavo presente al momento, perché anch’io catturato [...] in seguito a rastrellamento, vidi torturare i tre prigionieri da Mestriner e Spianazze, a tale vista, conoscendo i prigionieri stessi mi allontanai perché non potevo sopportare simili cose inflitte a conoscenti, chi insisteva di più per l’uccisione dei giovani erano i seguenti: Aiello, Storgato, Mestriner, Spinazze, Perris, Tolot e i due fratelli Fier di Nervesa.
Dichiaro inoltre quanto mi è stato riferito dal mio compagno Marsonetto Roberto deceduto - il quale è stato spettatore di quanto hanno inflitto ai prigio-nieri.
I due fratelli Bianchin nel sentire la sentenza di morte si misero a piangere, ma Gobbato li confortò dicendo loro che non piangessero perché il loro sangue andava sparso per la libera Italia. Dopo tante torture con il calcio del moschetto, alla testa e ai fianchi i giovani perdettero i sensi cadendo in affanno e ancora il Mestriner continuava con gli scarponi a percuoterli alla testa specialmente al Gobbato perché lo credevano il comandante.
Erano guardati da circa una quarantina di soldati armati uno dei quali si espresse così di fronte al Gobbato: «Quello che più hanno percosso non sparge neppure una lacrima!» (Dichiarazione rilasciata da Carlo Gallina al CNL di Ponzano, il 20 Maggio 1945. Archivio Gobbato).

Nell’archivio Gobbato è stato trovato un appunto scritto a mano, firmato Marangio, nome di battaglia di un partigiano non identificato, che riporta una testimonianza agghiacciante nella sua crudezza:

Mi dissero il povero Marsonetto e Battistuzzi che quelli che più hanno torturato Gobbato sono Mestriner e Aiello, tanto più vero che Mestriner disse a Battistuzzi: «Vede signor tenente che a furia di bastonare Gobbato mi sono perfino fatto male un braccio.» Fier mi disse che Mestriner bastonò Gobbato. (Archivio Gobbato).

 
Note: