Ponzano Veneto 1935-1945: Forza della Memoria

L'occupazione tedesca

La guerra continua

Il spengono le speranze di pace. L’Italia, al nord e al centro, è in mano ai tedeschi. Mussolini il 23 settembre proclama la Repubblica Sociale Italiana e insedia, a Salò, un governo fantoccio dei tedeschi e annuncia che la guerra continua a fianco della Germania nazista. Solo il 13 ottobre il Governo Badoglio dichiara guerra alla Germania. I soldati sbandati, i militari tornati a asa rifiutano l’arruolamento nell’esercito fascista, si nascondono nelle campagne e sui monti.

A Ponzano, dopo l’8 settembre, la scelta dei giovani si caratterizza con il rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò. «I ragazzi venivano a casa e cosa facevano?  - dice Annamaria Gastaldo -. Il fascismo aveva inventato la Repubblica di Salò, la Repubblica Sociale. I fascisti obbligavano i giovani a prendere le armi, i tornare nell’esercito alleati dei tedeschi. Mussolini prima era stato rapito nel Gran Sasso, poi era stato liberato e aveva fondato questa nuova repubblica, la Repubblica di Salò, e i ragazzi dovevano andare sotto le armi. Alcuni, molto pochi, ci sono andati, li chiamavano repubblichini. Invece gli altri, la stragrande maggioranza, non rispondevano alla chiamata alle armi, si davano alla macchia, a casa non potevano andare, erano disertori».

I giovani avevano il problema di sottrarsi alle retate e sfuggire alle perquisizioni operate da fascisti e tedeschi; per catturare i renitenti alla leva furono inventate originali soluzioni.

Che jera do cugini del ‘25 - racconta Mario Marcuzzo - su un fosso ghemo fato una bea busa granda, ghemo portà via la terra, sotto gavemo messo fassine de legna e paia, da una busa sul bordo del fosso se andava dentro là. Ma dopo, ghemo pensà, se vien tanta piova, che la tera frana, femo la fine del topo. E alora basta, se andava pe i campi, sui bari (mucchi) de fen co i segava el fen».

Enrico Zanatta ricorda i giorni concitati, dopo l’otto settembre: «Dopo l’8 settembre era un via vai, nascondersi, paura dei fascisti, un disastro, non mi ricordo tanto. Si sentiva è scappato questo, è scappato quello, dalla caserma xe scappai i militari, i se salva andando a nasconderse. Tanti i xe scampai e xe andai a nasconderse; qualcuno xe andà a far il partigiano».

Ruggero Stolfo si era rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò ma, come la stragrande maggioranza dei giovani, non volle saperne di essere coinvolto nella Resistenza, anche se il fratello Piero e la sorella erano partigiani: «Mi no gho fatto il partigiano. Gho dito: son appena venuto a casa dalla Russia, gho fatto l’Albania e la Grecia, son vegnuo a casa nel 1943 dalla Russia, gho fatto tutta la ritirata. I partigiani i me disca: varda l’imboscato! E mi rispondevo: non son imboscato, son appena venuo a casa dalla Russia. Andavo a lavorare per i tedeschi sulle trincee e venivo a casa alla sera e andavo a letto».

Enrico Zanatta ricorda il ritorno del fratello: «Mio fratello era del ‘22, a Roma lavorava al Ministero dell’aereonautica, faceva modelli degli apparecchi. Da Roma, dopo l’armistizio, xe venuto pressappoco a piedi. Xe scappà. Qua nel campo, perché jera rischioso, gavemo scavà una busa e, con la scaletta, lu andava a nascondersi là, perché i fascisti i veniva a torlo. Era una vita un po’ grama».

Anche i fratelli di Pasquale Borsato vivono una analoga esperienza: «Avevo due fratelli più vecchi, avevamo fatto un rifugio, una buca sotto un ciliegio e, di notte andavano a dormire lì. Ci sono state diverse incursioni di fascisti in cerca di quelli che erano a casa e si rifiutavano di fare il militare per la Repubblica di Salò. A casa dormivamo io e i miei genitori, i miei fratelli andavano nel rifugio sotto il ciliegio».

Così il Commendatore Luigi Martini spiega il rifiuto di tanti giovani ad aderire all’appello dei fascisti e dei nazisti: «Non potevamo arruolarci a fianco dei tedeschi, era un fatto istintivo, questa unione era innaturale. Qui il nemico è sempre stato il “todesco”, dalla guerra del 15-18 al Risorgimento. Da bambini, da ragazzini quando si giocava alla guerra, a sette otto anni, si era “italiani” contro “todeschi”. C’era una specie di sentimento atavico, in un certo senso. Anche il Re ci aveva dato fastidio, non doveva tagliare l’angolo, doveva restare a Roma, ha tagliato la corda ed ha consegnato l’Italia in mano ai tedeschi. Era Radio Londra che ci spiegava che non eravamo più alleati dei tedeschi che avevano occupato l’Italia. E poi ci avevano lasciati contro i tedeschi con un reparto armato di un moschetto ogni due uomini e tre pallottole a testa, non andava bene». A proposito dei giovani che aderivano alla Repubblica sociale, Luigi Martini esprime questo parere: «I collaborazionisti però per lo più erano persone che non sapevano dove andare. Le Brigate nere della Repubblica di Salò erano aguzzini, facevano paura, dove andavano facevano paura. I fascisti avevano mano libera. Al Pio Xᴼ torturavano, chi capitava li era finito».

Il rifiuto di aderire alla Repubblica Sociale e combattere a fianco dei tedeschi, come appare da queste testimonianze, fu spontaneo ed immediato, ma i primi nuclei di Resistenza attuarono un’intensa e capillare azione contro i bandi di richiamo alle armi.

Ai primi bandi di chiamata — scrive nel Diario storico militare sull’attività svolta dalla brigata “Piero Gobbato”Dopo la Liberazione, ai Comandi delle brigate partigiane fu richiesto di documentare attraverso il Diario storico militare sull’attività svolta dalla brigata  le azioni militari e politiche attuate tra la costituzione della brigata e il 25 aprile del 1945. Questi documenti, redatti er il riconoscimento della brigata e il titolo di partigiano combattente ai patrioti impegnati ella lotta di Liberazione, sono oggi strumenti preziosi per ricostruire la storia della Resistenza. redatto, nel 1946, dal Comandante della brigata, Mario Grespan, nome di battaglia D’Artagnan Per ragioni di sicurezza cospirativa ogni partigiano aveva un nome di battaglia, per evitare di essere individuato in caso di infiltrazione di spie e salvaguardarsi da possibili ritorsioni sulla propria famiglia. - che produssero tante perplessità, specialmente nelle nostre campagne, si oppose una serrata battaglia di propaganda spicciola presso i renitenti e si ricorse all’intimidazione con gravi minacce per coloro i quali si fossero presentati. In questo campo possiamo dire di aver avuto un successo totale, in quanto i casi di presentazione di armi sono stati pressoché negativi. (Archivio Istresco - d’ora in poi AISTRESCO, f. 3, b. 2, fasc. brigata “P. Gobbato”).

La guerra assume aspetti sempre più drammatici

Continua il racconto di Annamaria Gastaldo: «Dopo sono cominciati i bombardamenti su Treviso e da Treviso sono venuti tanti profughi. Poi i bombardamenti di Ponte della Priula. Dopo i massacri dei partigiani a Bassano, a Valdobbiadene; si sapeva che succedevano queste cose. Un giorno sono andata a Miane, in bicicletta con mio papà, per il Ponte di Vidor, a trovare la mia amica del cuore, sfollata appunto a Miane, che mi ha raccontato: «Ci sono tanti partigiani, qui hanno bruciato tutte le case, sono stati ammazzati». Anche qua, a Ponzano, c’erano i partigiani, noi ragazzi non sapevamo, stavano nascosti».

I tedeschi obbligavano giovani e anziani a lavorare per le loro opere di difesa e per riparare i danni subiti per i bombardamenti. Enrico Zanatta racconta il suo lavoro obbligatorio per i tedeschi: «In tempo di guerra avevo sedici anni. Al posto di mio papà, era anziano, son andà a lavorar nella passarella del Piave, obbligatorio, per i tedeschi. Ghe jera un camion che partiva da Ponzano, in piazza a Paderno, el fasea i quindici all’ora, andava a gasometro, a legna (sistema usato durante la guerra per usare come combustibile il distillato della legna), allora noialtri andavimo a rubar la uva nei vigneti e fascimo ancora a tempo a ciapar il camion. Ogni modo, andavimo a lavorare, se jera una quarantina da Ponzano, giovani e anziani, perché gli altri erano soldati, per cui o vecchi o giovani. Là si lavorava, se fasca la passerella dove dovea passar il treno, se fasea quattro o cinque metri al giorno. Ogni giorno ghe jera gli apparecchi, i caccia americani, lori i mitragliava co jera sopra in aria, perché noialtri scappassimo, perché i savea che jerimo obbligatori, dopo i mollava le bombe. Una volta me son messo la baiia sulla testa e tinc, tonc s’è arrivà le schegge. Questo l’è stà un periodo nel ‘44, dopo gho lavorà ancora per i tedeschi, a Merlengo, sulla Villa che adesso è di Basso, davanti alla chiesa di Merlengo, c’è una villa, là dentro c’era un’officina attrezzata e si faceva il gasometro per i camion, l’impianto a legna, anche là eravamo obbligatori, ma non ci furono bombardamenti. E così gho passà un po’ la guerra».

Paura, stenti, restrizioni

Così ricorda quel periodo Annamaria Gastaldo: «Per fortuna non abbiamo avuto lutti in famiglia. Con i bambini non si parlava della guerra, la televisione non c’era, la radio l’ascoltava solo qualcuno, c’era Radio Londra, tun-tun, tun-tun (ripete il suono con cui iniziavano le trasmissioni di Radio Londra), che faceva i notiziari per i partigiani, gli davano indicazioni: l’elefante ha….»Radio Londra teneva un notiziario sull’andamento della guerra e trasmetteva i comunicati ai partigiani sulle azioni da compiere in codice. L’ascolto di Radio Londra era assolutamente
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Il cibo si doveva comprare con le tessere, ma non ce n’era a sufficienza, dovevamo ricorrere al mercato nero. La vita era dura perché ti davano solo quello che era ammesso con la tessera. Il pane ti davano quello segnato sulla tessera, ti staccavano il cedolino e ti davano una pagnotta, questo era il tuo pane per la giornata. A volte era mescolato con le patate, ed era meno peggio, a volte era mescolato non si sapeva con cosa, sembrava gesso, era una roba dura ed era cattivo, cattivo. Tanto è vero che la mia mamma, quando poteva trovar farina dai contadini, la vendevano a mercato nero, faceva il pane in casa. C’era chi si teneva qualche galletto, a casa nostra avevamo le pecore».

L’arte di arrangiarsi era diventata fondamentale per sopravvivere, come emerge dal racconto: «Si facevano tosare le pecore, poi si faceva filare la lana e ci facevamo i cappotti. La mamma, teneva il maiale. Si faceva bollire con gli | ossi del maiale la soda caustica e si otteneva il sapone, aveva un odore schifosissimo, non era proprio Marsiglia.

Mio zio Candido era sfollato da noi, aveva il tornio ed aveva creato un marchingegno per la pasta, aveva fatto le rondellette per far venire giù la pasta. Poi c’era la pressa, con i semi di girasole si faceva l’olio. Ci si arrangiava in questo modo. Era dura, ad esempio i copertoni delle biciclette non si trovavano più, allora sul buco si mettevano quelli che si chiamavano i “fortessoni”; dove c’era un buco si metteva un “toco” di cuoio, di gomma e coprivi, però quando correvi facevi tum, tum (fa il segno di sobbalzare)».

I bombardamenti

L’italia vive sotto l’incubo delle bombe, non sono colpiti solo gli obiettivi militari, ma anche i civili.

La testimonianza di Annamaria Gastaldo è significativa di un clima di paura:

«Quando si andava per strada, se arrivava un aereo, bisognava mettersi nascosti sotto di qualcosa, se no ti mitragliava, e bombardava. Bisognava stare attenti mitragliavano tutto ciò che si moveva». E, a proposito dei bombardamenti notturni, continua: «Di sera, si vedeva il colore delle pallottole, hanno colori diversi rosse, verdi, gialle, erano anche belle. Com’è bello vedere Il bengala, il bengala è come un fuoco d’artificio. Prima di bombardare buttavano giù grappoli di bengala. Per non farsi vedere, la sera, dovevamo abbrunare tutto, anche le macchine e le biciclette, i fanali erano coperti di vernice nera, restava soltanto un rettangolino da dove filtrava la luce. Se no succedeva come ai Paeassoni, dove ha sganciato due bombe PippoLa notte sorvolava le città e le campagne un cacciabombardiere dell’aviazione inglese, soprannominato “Pippo”. Lanciava le bombe dove vedeva luce.. I Paeassoni stavano oltre Via Roma, in quella casa che adesso è stata ristrutturata bene».

Nel libro di Guglielmo Polo è ricordata la vicenda della famiglia Benetton, soprannominati Paeassoni: 

Cinque bombe, pochi giorni prima della cessazione delle ostilità, e precisamente la sera del 25 aprile 1945, furono gettate dall’apparecchio che girava di notte e che era chiamato “Pippo”, nei pressi della casa dove si festeggiavano le nozze di due giovani sposi, Andrea e Natalina Benetton. Forse qualcuno imprudentemente non aveva osservato le norme d’oscuramento. Non vi furono per fortuna né danni rilevanti né vittime. (G. Polo, Ponzano, Paderno, Merlengo “ieri e oggi”,Ponzano Veneto 1983).

I bombardamenti avvenivano quotidianamente, la Prefettura, attraverso il Comitato provinciale protezione anti-aerea, coordinava il sistema di difesa dai bombardamenti gli allarmi, i rifugi, la struttura medica di pronto intervento per i casi meno gravi, decentrata rispetto all’ospedale, cui si affidavano casi più gravi. Di questa struttura si trova una testimonianza in un documento conservato nell’archivio di famiglia del dottor Gastaldo:

In conformità dei verbali accordi intercorsi con un Organo di questo Comitato, resta inteso che codesto Ambulatorio di S. Maria della Rovere è destinato a funzionare in caso di incursione aerea quale posto di pronto soccorso per infortuni da offesa nemica.

I bambini vivevano il pericolo dei bombardamenti con un misto di curiosità e di paura, come racconta Lino Rossi che, durante la guerra, aveva una decina di anni: «Era una domenica e stavo andando a vespro, passavo davanti alla Trattoria “Picciol”, sentiamo l’allarme di bombardamento. Passano i caccia in picchiata sulla zona di Castagnole, dove c’era una polveriera. Abbiamo visto le bombe cadere e, poi, un grosso fungo, come quando fanno vedere gli effetti della bomba atomica. Quella volta avevano colpito proprio la polveriera. Per fortuna era prestin! Quando siamo arrivati al vespro, tutte le vetrate dei lastroni erano cadute a terra, per lo spostamento d’aria. In qualche paese, qua attorno, ci sono stati feriti». Anche i contadini, lavorando i campi correvano grossi rischi, come nell’episodio ricordato da Arrigo Precoma: «Una persona portava fuori i rifiuti della latrina, con una carretta tirata da una mussetta, per concimare i filari delle viti. Sulla carretta aveva una vecchia botte. Un aereo è passato sopra, ha rallentato, rallentato, poi ha mitragliato. Questo uomo si è salvato perché ha avuto l’istinto di buttarsi nel fossato, però con il salto ha tranciato due filari di viti. L’asina mitragliata è morta ed è stata macellata. Mio papà mangiando ha trovato una scheggia o la pallottola, si è ferito un po’ la bocca. Mia mamma gli diceva: te mori anca ti, te mori anca ti! L’è morta mitragliata, testona, non l’è morta avvelenata, ha risposto mio padre.»

Lino Rossi racconta di un altro mitragliamento: «Una vecchia parente, una zia di mio papà, che abitava sulla Postioma, tra il torrente Giavera e la cromatura, era preoccupata per le oche. Aveva le oche fuori, nel canale, è andata di corsa a riprenderle. Aveva, come usavano allora le vecchie, le cottole lunghe fino ai piedi. Hanno mitragliato ed hanno ucciso una o due oche. Questa vecchia zia si è trovata il buco di una pallottola tra le gonne. L’ha rischiata grossa, poteva essere ferita».

Arrigo Precoma riporta una testimonianza della paura che aggrediva i bambini nell’assistere ad un bombardamento: «La Domenica delle Palme del 45, gli aerei hanno sfiorato il cimitero di Merlengo. Ricordo che ero nella stalla e facevo i bisogni corporali, nel vasetto, ero un bambino, e mio padre che gridava: attenti, attenti! Si è sentito un forte scoppio. C’era tanta paura, ma quello che mi ha fatto più impressione è stata una nuvola di gas nero che attraversava il paese. Mia mamma mi ha raccontato che ho preso una tale paura che non ho fatto la cacca per cinque giorni».

I bombardamento di Treviso

Un bombardamento con effetti tragici e devastanti si abbatte su Treviso il 7 aprile del 1944. Tra la gente si dice che l’obiettivo da centrare è l’albergo Stella d’Oro sede del comando tedesco. Racconta Bruno Picciol: «Alla Stella l’Oro, l’albergo era situato dove ora si trova la Borsa di Treviso, ghe jera il comando tedesco i lo ha bombardà. Nel bombardamento del 7 aprile del 44 il tha centrà proprio la Stella d’Oro. Perché ghe jera i generai nazisti»La finalità strategica di questo bombardamento rimane, anche dopo sessanta anni, incomprensibile. In città di Treviso non esistevano obiettivi militari, eccettuato lo snodo ferroviario. Sui motivi che spinsero il comando interalleato a questo bombardamento, esistono varie versioni, alcune delle quali del tutto inattendibili. Una attribuirebbe questa scelta ad un’informazione errata del controspionaggio inglese, in base alla quale Hitler e Mussolini avrebbero dovuto incontrarsi a Treviso nella sede del comando militare nazista. In realtà l’incontro del vertice nazi-fascista avvenne, in quei giorni, ma a Tarvisio. La ricostruzione degli eventi su base documentale è presente in Obiettivo “Venerdì santo”. Il bombardamento di Treviso del 7 aprile 1944 nei documenti militari dell’aeronautica militare statunitense, Canova, Treviso 2004.
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Il bombardamento di Treviso è raccontato ancora con una forte emozione dalla professoressa Gastaldo: «Quel giorno andavo a Santa Maria della Rovere, dove mio papà aveva un ambulatorio, non ricordo per quale motivo. Lui mi ha detto: vai a casa subito perché non tira una buona aria. Si sentivano le sirene dell’allarme, i bombardieri stavano arrivando e la contraerea cominciava a sparare. Era una bella giornata d’aprile, il cielo era limpido, gli alberi avevano già i primi germogli. lo venivo a casa per quella stradina dietro San Pelaio, lì ho cominciato a sentire la contraerea e dopo sono arrivati i bombardieri. I bombardieri arrivavano a scaglioni. Si vedono quando sganciano le bombe, gli aerei spiccano un salto e la bomba non cade giù diritta, viene giù così (fa segno della parabola in avanti) segue la spinta dell’aereo. Tu vedi l’aereo là, ti fa l’impressione che tocchi proprio a te, scappi perché la bomba è come se ti venisse addosso.

È cominciato il bombardamento, i bombardieri venivano ad ondate per diverso tempo. Dopo di che il cielo era nero, come fosse venuto un temporale, proprio grigio, scuro, era tutta la polvere.

Il giorno dopo i ragazzi del paese sono andati a Santa Bona a vedere i morti, c’erano mucchi di morti, una roba brutta da vedere, ma i ragazzi andavano a vedere perché erano degli “scavessotti”. Treviso era tutta una buca, avevano buttato giù tuttoIl poeta trevigiano Emilio Gallina ha scritto una poesia sul bombardamento di Treviso che si trova a p. 145..  In Via Roma, a Ponzano, dopo la guerra, dove c’era il campo sportivo, con i mattoni delle case bombardate, hanno costruito le case per i bisognosi, le case minime».

Enrico Zanatta era uno degli “scavessotti”: «A Treviso, c’è stato il grande bombardamento nell’aprile del ‘44. lo lavoravo a Treviso, all’Eden, facevo il fabbro in officina, il mio mestiere, dall’ingegnere Hisler. Suonano le sirene, scappo in bicicletta, scappa, scappa son arriva fino a San Pelaio e s’è arrivà il bombardamento. Non son vegnuo a casa, son andà a vedar il disastro a Treviso. Me papà e me mamma andava in cerca de Richetto, ma non c’ero,  ero a Treviso a vedar morti, un disastro, è stata una brutta roba». «Te avessi da vedar tutta sta gente - racconta Anna Mestriner - che veniva su da Treviso per la strada, dove ora ghe xe Benetton, Via Roma, piena de gente: chi gavea un cussin sotto il braccio, chi una borsa, chi gavea una roba sulle spae, chi un fioetto su le spae, la strada jera piena de gente, i gavea paura e i scappava dalla città. I gavea coppà tanta de quea gente, ma tanta. I gha colpio il rifugio, se ciamava ai Bagni, è morta anche una tosa da Ponsan, la se ciamava Emma Piovesan».

 


Note: