Ponzano Veneto 1935-1945: Forza della Memoria

La lotta partigiana tra iniziativa politica e azione militare

Partigiani di pianura

“E la montagna la culla del partigiano - scrive Giorgio Bocca nella Storia dell’Italia partigiana, Oscar Mondadori, Milano 2004) (...) i gruppi di pianura [...] nell’estate del ‘44 si capirà che hanno una loro funzione importante”. Il compito fondamentale dei gruppi di pianura sarà il sabotaggio dietro la linea del fronte.

Arrigo Precoma abitava a Merlengo in mezzo alla campagna, dove abita ancora. Era un bambino. Oggi somma ai ricordi personali preziosi racconti della famiglia e descrive i comportamenti e il modo di agire delle brigate partigiane di pianura: «Erano una brigata, una bella squadra partigiana, il comandante si chiamava Falco Falco era il comandante di una brigata partigiana che agiva in modo indipendente. Cosi Viene descritto nel libro di Ives Bizzi, Il cammino di un popolo, Giacobino Editore, Treviso 1976: “Vi sono uomini che non vogliono assoggettarsi alla disciplina. Falco, ad esempio, con la sua squadra, è incontrollabile… Ogni tanto capita al comando della Wladimiro, sente come stanno le cose e poi se ne va e agisce senza ricevere ordini”. . Operava qua in zona ed aveva la propria base, dicevano, a Villorba dove c’era della gente che lo favoriva, lo aiutava.Questo lo so per la testimonianza di compagni dei fratelli Bianchin.

Le brigate partigiane furono ospitate a casa mia, presumo nel periodo che va dalla seconda metà dell’anno 1944 all’avvenuta Liberazione. Erano squadre composte da circa 20 uomini, arrivavano sempre a notte inoltrata, bussavano rumorosamente e, a chi chiedeva chi fossero e cosa volessero, rispondevano “patrioti”.

La prima volta che mio padre gli aprì la porta si fece avanti un uomo col volto travisato da barba e baffi finti che disse a bruciapelo: guarda qui che bella pancetta, toccandogli la pancia con la mano, da tirare giù di spesa questa sera, al chiaro di luna. Mio padre aveva la parola pronta, era stato tredici anni in Australia, aveva visto tante cose, ebbe la prontezza di spirito di non impaurirsi e rispose: cosa guadagni a tirare giù dalle spese un padre di famiglia che ti ha aperto la porta di casa e ti dà quello che può.

Mio padre era originario dalle parti di Caerano San Marco e si era venuti a sapere, da parte dei parenti, chi erano questi partigiani che si chiamavano patrioti.

Cambiando tono e maniere, si presentò ed espose le sue necessità d’avere ospitalità, per riposare la notte al riparo e soddisfare le più semplici necessità di sopravvivenza: vitto, pulizia personale ed altro ancora.

Mio padre acconsenti senza mostrare nessuna paura. Con un sonoro fischio fece arrivare, uno alla volta, circa 20 uomini equipaggiati che poi si divisero tra altre due famiglie, che stavano li vicino, circa sei o sette per famiglia.

La sera seguente cambiarono posizione, se n’andarono in luoghi che a nessuno dicevano, parlavano fra di loro con soprannomi e in codice per luoghi e fatti. Le loro maniere furono rispettose nei confronti di tutti. Compensavano se potevano e come potevano. Si sono comportati bene anche nei confronti di mia mamma che era una giovane donna. Allora ci hanno anche compensato, come potevano, ma non era certo un affare da un punto di vista economico.

L’unica cosa, che mi ricordo, che ci hanno lasciato è un paio di guanti che sarebbe un affare avere adesso. Guanti di lana che abbiamo usato per tanti anni, io li usavo che avevo già 12 o 13 anni».

Per le brigate di montagna la vita è particolarmente dura, l’ambiente non è favorevole ma offre una valida sicurezza. Il partigiano di pianura che vive alla macchia è esposto alla delazione e l’imboscata del nemico può giungere da ogni parte:

Tuttavia rimane ben grave il problema dei mezzi militari e di sussistenza. I partigiani che vivono alla macchia sopportano privazioni di ogni sorta e nonostante gli sforzi del comando la vita è molto precaria. (AISTRESCO, f. 3, b. 2, fase. brigata “P. Gobbato”).

Anche il partigiano che continua una vita normale di giorno e di notte va in azione è continuamente sottoposto al pericolo di delazione e rischia, in ogni momento, di incappare in un rastrellamento delle Brigate nere o dei militari tedeschi alla caccia dei renitenti.

Trovare armi, munizioni, esplosivo

C’è una forte disponibilità di molti giovani ma il problema fondamentale è la scarsità di armi. Afferma Mario Grespan nel Diario storico militare della brigata “P. Gobbato”:

Come forza potenziale, non è esagerato dire che si avrebbe avuto un organico di oltre 300 unità, ma per lo scarso armamento iniziale e per la zona in cui bisognava agire non si è ritenuto conveniente superare le 200 unità. Di questi poi molti sono stati costretti alla inattività da cause di forza maggiore e pur avendo aderito con un’anzianità molto rispettabile, interverranno molto più tardi o saranno persi di forza durante i mesi successivi soprattutto per la mancanza di mezzi militari (...). L’armamento fu il problema più grave giacché per procurarsi un fucile fu necessario ben spesso rimanere lunghe notti in agguato in attesa di un’occasione propizia per effettuare qualche disarmo. (AISTRESCO, f. 3, b. 2,fasc. brigata “P. Gobbato”).

Le armi venivano rifornite con aviolanci dell’aviazione anglo-americana, ma anche questa operazione era molto difficoltosa:

Purtroppo si sono fatti attendere fino all’esasperazione se si pensa che le prime coordinate sono state trasmesse nel mese di luglio del 1944 per il Il° Battaglione e nel mese di agosto quelle per il 1° Battaglione (...). Nell’estate del 1944 pare sia imminente un’aviolancio per risollevare il morale, ma le coordinate inviate a Padova saranno una pia illusione (...). Le formazioni “Giustizia e Libertà” che agiscono nella zona media tra il Montello e Treviso hanno assicurazione di un’aviolancio fin dal mese di luglio 1944. Anche essi saranno delusi |...]. Solo il 4 aprile (1945) ottenemmo un aviolancio e dopo essere stati per ben undici volte in campo con esito negativo. Non bisogna sottovalutare in tale fattore anche in considerazione dei pericoli a cui ci si esponeva per tali operazioni, essendo i due campi di lancio prescelti letteralmente circoscritti da presidi nemici ed era quindi necessario un impiego notevoli uomini. (Ivi).

Dalla relazione sull’ Attività operativa svolta cit., dalla brigata “L. Bavaresco” l’attività nel Comune di Ponzano risulta il disarmo di brigatisti neri e fascisti:

19 luglio 1944 - Località Merlengo. Una nostra pattuglia riesce disarmare in pieno giorno due militari tedeschi della Frigonubex. All’azione partecipano due partigiani. Vengono recuperate due pistole.
17 settembre 1944 - Località Merlengo. Perini e quattro partigiani affrontano e disarmano due fascisti della brigata nera di Treviso. All’azione partecipano cinque partigiani. Recuperati una pistola e un moschetto.
4 ottobre 1944 - Località Loschi di Ponzano. Disarmo di tre militari della guardia nazionale repubblicana da parte di Perini con tre uomini. Vengono recuperate i tre moschetti.
22 ottobre 1944 - Località San Pelaio e Ponzano. Una pattuglia della brigata incontra tre militari della Repubblica sociale italiana rispettivamente la San Pelaio e 2 a Ponzano. All’azione partecipano due partigiani. Vengono recuperati tre moschetti e una pistola.
11 gennaio 1945 - Località Paderno. Verso le ore 19 tra Paderno e Povegliano una pattuglia al comando di Sparviero sorprendeva e disarmava cinque militari tedeschi del presidio di Villa Elsa in Paderno. Venivano recuperate due pistole e tre fucili Mauser e munizioni. All’azione partecipavano sette partigiani.
24 aprile 1945 - Località Ponzano. Scontro con una pattuglia della GNR e successivo disarmo. Comandava l’azione Michelin. Partecipavano all’azione 10 partigiani. Recuperate 3 pistole. (AISTRESCO, f. 3, b. 2, fasc. brigata “L. Bavaresco”).

Nella stessa relazione, alla voce “Armamento e munizionamento” si legge:

Scarso ed eterogeneo, all’inizio, per tutti i reparti. I Garibaldini I partigiani delle brigate “Garibaldi”, come la “L. Bavaresco” erano chiamati “garibaldini”., non avendo mai ricevuto alcun lancio, si sono procurati le armi e le munizioni attaccando e disarmando militari, pattuglie e presidi isolati di forze fasciste e tedesche.(Ivi).

Certo è che in tutte le brigate scarseggiavano, in modo particolare, le armi automatiche.

Il deposito di munizioni di Castagnole rappresentò per la “L.. Bavaresco” la maggior fonte di rifornimento di esplosivi. La direzione e i lavoratori erano coinvolti nella Resistenza; dal maggio del ‘44 fino alla Liberazione, fornirono esplosivo e bombe a mano ai partigiani della brigata:

A mezzo dei nostri elementi utilizzati prevalentemente per un piano a carattere continuativo di sabotaggi al cantiere di caricamento proiettili di Marnati & Larizza e per l’asportazione di munizioni ed esplosivo dal cantiere stesso (Pasquali Guido, Pasquali Antonio, Cappellazzo ed altri cinque garibaldini) con varie azioni si è potuto recuperare e trasportare una grande quantità di materiale bellico che figura, complessivamente, a fianco elencato (30.000 colpi per armi portatili. 20.000 innesti e capsule da mina. Oltre metri 500 di miccia. 250 bombe a mano. Oltre 6 q. di esplosivo: tritolo, pentrite, formelle esplosive). (Ivi).

Sempre dal diario sull’Attività operativa svolta cit., si viene a conoscenza che il materiale sottratto a Castagnole era fornito ad altre brigate di pianura e anche alle formazioni di montagna:

Tale munizionamento ed esplosivo veniva in parte utilizzato per di atti di sabotaggio compiuti dalla brigata e in parte era fornito alle formazioni vicine a quelle di montagna (...). La brigata sotto questo aspetto ha operato dal maggio del 1944 alla liberazione anche come base per i rifornimenti di munizioni ed esplosivo per le formazioni di montagna.
Le azioni di prelevamento del materiale avvenivano in massima parte presso il citato cantiere di Castagnole e di minor misura presso il deposito di Artiglieria di Santa Bona. (AISTRESCO, f. 3, b. 1, fasc. brigata “I. Bavaresco”).

L’equipaggiamento

Il Diario storico militare della brigata “P. Gobbato” riporta anche notizie relative all’equipaggiamento:

Per l’equipaggiamento si può dire che in linea di massima ognuno doveva bastare a se stesso, tutta via non si è potuto fare a meno di qualche distribuzione di calze, scarpe, a maglie ed impermiabili da parte della Comando di brigata, limitatamente ai più indigenti. Per altri invece i più abbienti tra i partigiani stessi hanno dato qualche capo di vestiario sottraendolo al corredo personale. (AISTRESCO, f. 3, b. 2, fasc. brigata “P. Gobbato”.).

La situazione nella brigata “L.. Bavaresco” è ancora peggiore:

L’equipaggiamento è frutto di operazioni militari ed economiche. Scarso, quindi anch’esso ed eterogeneo.

Si ha notizia che solo nel luglio del 1944 vi fossero dei rifornimenti di vestiario:

Il Comando del Battaglione “Castelfranco” fornisce… oggetti di vestiario che vengono distribuiti, parte ai garibaldini di pianura, parte a quelli di montagna.(AISTRESCO, f. 3, b. 1, fasc. brigata “L.Bavaresco”.).

La necessità di denaro

La mancanza di disponibilità di denaro rappresenta un altro grave problema per l’azione partigiana. Dal Diario storico militare. cit. sull’attività svolta dalla brigata “P. Gobbato” emerge che:

I primi finanziamenti sono molto esigui e il più delle volte bisogna ricercarli nelle classi più abbienti e incontrando talvolta la massima incomprensione.

In seguito la brigata riuscirà ad avere un finanziamento consistente ma poco spendibile:

La II brigata “Giustizia e Libertà” [denominazione iniziale della brigata Gobbato]... stabilisce buoni contatti con il Comando Regionale di Padova, e con questo, tramite di Gianni Dolo, otterrà il primo finanziamento di una certa consistenza sebbene in buoni del C.L.N.R.V. [Comitato Liberazione Nazionale Regionale Veneto] che bisogna convertire in liquidi. (Ivi).

Anche la brigata “L. Bavaresco” avvia una iniziativa per il finanziamento:

Nel novembre del 1944, con i buoni del CLN, abbiamo incominciato ad andare a soldi per gli sbandati dagli esercenti ed alcuni signori della zona. Solo l’amministratore degli Esposti si è rifiutato di dare qualche cosa urlando ed imprecando. (Dalla testimonianza di Bruno Biasini in Ives Bizzi, La Resistenza nel trevigiano cit.).

La brigata “P. Gobbato” riuscì ad acquisire finanziamenti soddisfacenti:

Grazie all’iniziativa dei suoi comandanti, la brigata otterrà i finanziamenti indispensabili tramite il Partito di Azione e tramite il Comando Divisione Montegrappa” con il quale, dopo qualche mese, entra in contatto. [La liquidità consente un rapporto diverso e più positivo con i contadini della zona]. Al pagamento si provvedeva in contanti e si prelevavano da quegli agricoltori che dovevano conferire all’ammasso rilasciando regolare buono per lo scarico. I fondi necessari, inizialmente ridicoli sono andati via via aumentando, soprattutto dopo l’adesione di questa brigata alla divisione “Montegrappa”. Complessivamente si arriva al in circa alla somma di un milione. (AISTRESCO, f. 3, b. 2, fasc. brigata “P. Gobbato”.).>

La cifra era indubbiamente cospicua, per l’epoca, e dimostra come, verso la line della Resistenza, il Partito d’Azione avesse stabilito forti e stabili legani con l’alta borghesia di ispirazione laica, repubblicana e liberaldemocratica.

La propaganda partigiana

Il regime fascista e l’invasore tedesco svolgono una massiccia e capillare propaganda per isolare la lotta partigiana dalla popolazione. Le brigate hanno bisogno di darsi degli strumenti per spiegare le proprie azioni, far conoscere l’opera funesta degli invasori, denunciare pubblicamente le spie e i torturatori. Per molti giovani leggere di nascosto un volantino ciclostilato, già passato furtivamente per tante mani, rappresentò il primo incontro con una stampa libera.

Il Partito d’Azione stampava un giornaletto clandestino rivolto agli operai e ai contadini:

Un giornaletto clandestino “Voce dei campi e delle officine” penetrava silenzioso nelle case, nelle stalle e apriva lentamente l’ opera di dirozzamento politico, preparando gli animi alla democrazia, ad un regime di equilibrio fra giustizia sociale e libertà politica. (“La nuova strada”, 4 settembre 1947).

Va sottolineato come le prime azioni furono rivolte proprio alla ricerca e all’acquisizione di strumenti per la stampa clandestina.

Piero Stolfo racconta la sua attività di partigiano: «Facevo parte dei GAP (Gruppi d’Assalto Partigiani - aggregati alle brigate d’assalto “Garibaldi”) il mio nome di battaglia era “Giuseppe”, a Ponzano eravamo un gruppo organizzato di otto partigiani: Bruno Biasini era il capo, Slongo e Mario Stefanetto, Mario Piccinin da Paderno. Eravamo in contatto col partito Comunista, Gobbato era legato al Partito d’Azione. I contatti col Partito li teneva Biasini, io ero l’unico gappista, ricevevo gli ordini direttamente dal comando militare GAP di Treviso attraverso una ragazza, una staffetta.

La prima azione che mi fu ordinata fu di andare a prendere un ciclostile presso un Pastificio di Madonna della Rovere per fare i volantini. I volantini erano scritti a Treviso ed erano portati a Biasini. Li scriveva Piero dal Pozzo che era il segretario del Partito». Si tratta probabilmente della tipografia clandestina sistemata in casa di Mario Michielin come racconta Ives Bizzi nell libro Il cammino di un popolo.

Nella testimonianza rilasciata nel 1975, Bruno Biasini conferma l’esistenza di questa tipografia clandestina:

In casa di Mario Michelin abbiamo sistemato una stamperia clandestina. In quei primi tempi è venuto giù anche il compagno Leone del comitato militare del partito (Ives Bizzi, La Resistenza nel trevigiano cit., pp. 92-93).

L’azione di propaganda era anche fatta con scritte sui muri che avevano un forte impatto psicologico sulla popolazione e creavano tra i fascisti la psicosi che dietro ogni angolo poteva esserci un partigiano.

La notte del 1 maggio 1944 - è sempre la testimonianza citata di Biasini - abbia mo fatto falci e martello e scritte con viva Carlo Marx a Fontane e Lancenigo. La gente ci chiedeva: «Ma chi è questo Carlo Marx?» (Ibidem).
Può destare un certo stupore l’utopia che animava questi partigiani comuni sti che rischiavano la vita per inneggiare ad un perfetto sconosciuto. Per vent’anni gli scritti di Marx erano scomparsi dalle librerie e dalle biblioteche circolavano, come stampa clandestina, tra pochi intellettuali.
Nella relazione sulle attività della brigata “L. Bavaresco” si trova conferma di questa testimonianza. Si legge infatti che, nella notte del Primo maggio del ‘44, furono messi in atto:

In località Ponzano - Postioma - Catena - Lancenigo - S. Pelaio. Asportazione di istruzioni e di segnalazioni stradali di militari tedesche. Scritte murali innegianti alla lotta di Resistenza e numerosi tagli di fili telefonici. Azione condotta da Biasini e Benetton con 10 uomini dalle ore 23 alle ore 3. (AISTRESCO, f.3, b.1, fasc. brigata “L. Bavaresco”.)

Anche il Partito d’Azione svolgeva un’opera intensa di propaganda e di educazione politica tra la popolazione e all’interno delle brigate partigiane “Giustizia e Libertà”:

Numerosi furono di opuscoli e i giornali clandestini - si legge nel Diario storico militare della brigata “Gobbato” - distribuiti tra i renitenti, i partigiani e di civili. Il Partito d’Azione fu in questo senso il più attivo nell’ambito di questa brigata e si è imposto in modo assoluto ad opera di Romolo Pellizzari, Giovanni Spano ed altri nella Zona del 1 battaglione e con Carlo Bortolato (deceduto), Piero Gobbato (deceduto), Ignazio Gobbato (mutilato per azione partigiana), Ramanzini Leopoldo, Martellone, Turno ed altri nella zona del II battaglione. Preziosa e fattiva è stata l’opera loro in seno le nostre forze partigiane. Anche la divisione “Montegrappa” va ricordata per la sua “Gazzetta pedemontana” e per gli altri loro foglietti ciclostilati. (AISTRESCO, f.3, b.2, fase. brigata “P. Gobbato”).

Nel Documento sull’Attività operativa svolta della brigata “L. Bavaresco” si trova una ardita azione di propaganda, condotta, nel marzo del 1945, dai partigiani che hanno il comando a Paderno:

Sparviero con una pattuglia di partigiani, nella notte sul 28, attaccava ai muri di Treviso manifestini e proclami delle formazioni partigiane. Al passaggio di 1 autocarro carico di fascisti, presso l’albergo Baglioni, lanciava in aria un mazzo di manifestini riuscendo poi a dileguarsi. L’azione destò vasta eco tra la popolazione di Treviso. (AISTRESCO, f. 3, b. 1, fasc. brigata “L. Bavaresco”).

L’assistenza alla popolazione

L’assistenza era uno strumento fondamentale per rafforzare il legame con il popolo e spesso i partigiani si privavano del poco che avevano, come si legge nel Diario storico militare cit., della brigata “P. Gobbato”:

I mezzi di sussistenza furono limitatissimi rispetto alla bisogna e si doveva spesso stringere la cinghia. Però periodicamente si distribuisce la carne di bovini macellati ad uso dei partigiani e degli sbandati indigenti, ma spesso si è preferito distribuirla alla popolazione civile bisognosa, soprattutto per dimostrare che non per noi solo si combatteva, ma per una causa comune e per il popolo in particolare. Pur essendo in condizioni assai precarie. (AISTRESCO, f.3, b.2, fasc. brigata “P. Gobbato”).

Nello stesso documento si legge ancora:

Si può calcolare - grosso modo - di aver assegnato oltre 50 quintali di carne bovina alla popolazione civile. E stata distribuita in forma periodica o saltuaria la somma di circa Lit 400.000 a famiglie indigenti in conseguenza della guerra.Sono state distribuiti anche tabacco sale ed altri generi.

Nel rapporto sull’Attività operativa svolta dalla brigata “L. Bavaresco” vengono descritte due operazioni condotte per sottrarre ai fascisti derrate alimentari da distribuire alla popolazione.

Moretto con 5 uomini - l’otto giugno del 1944 - si portava sulla linea ferroviaria, nei pressi di S.Antonino… spiombava un vagone e ne asportava alcuni sacchi di frumento (20 quintali) che venivano poi distribuiti tra la popolazione del luogo. (AISTRESCO, f.3, b.1, fasc. brigata “L. Bavaresco”).

Il 23 gennaio del 1945, la brigata compie la stessa azione, vengono asportati 14 quintali di frumento:

Il frumento asportato e distribuito ad una trentina di famiglie [...) che maggiormente era stata colpita dai bombardamenti aerei. (Ivi).

Nel Diario storico della “P. Gobbato” si trovano riferimenti anche ad un azione di intervento contro soprusi nei confronti di lavoratori dipendenti:

Gli interventi per l’astensione dal lavoro di fortificazione furono numerosi el molte furono le lettere scritte a filofascisti prepotenti nei riguardi dei loro dipendenti. (AISTRESCO, f.3, b.2, fasc. brigata “P. Gobbato”).

Fascisti e tedeschi obbligavano gli agricoltori a portare una consistente quantità di prodotti all’ammasso, svariate furono le iniziative per impedire l’appropriazione di questi prodotti che venivano utilizzati dall’esercito invasore o inviati in Germania. A Ponzano, per distruggere le carte dell’ammasso, i partigiani attaccarono il Comune. Ferruccio Bianchin ricorda vagamente una azione partigiana: «Ricordo che i partigiani i xe andai a brusar tutti i documenti in Comune, quei dell’ammasso, i gha brusa le carte perché i fascisti obbligava a portar le bestie all’ammasso, ghe toccava a darghe un vedel, una vacca perché i magnasse. Sulle carte ghe jera scritto cosa i gavea da portarghe e i gha brusà le carte, non i savea più niente. Me par che fosse a Ponzan, ma non vorria sbagliarme».

Bruno Biasini, nella testimonianza già citata, esprime un ricordo più preciso dell’assalto del Comune di Ponzano:

Qualche tempo dopo è stata fatta l’azione del municipio. È stato portato via tutto, comprese le macchine da scrivere. I tedeschi sono andati nelle case di notte con le torce. Sono entrati nella casa di Cocchetto, hanno preso il capo famiglia lo hanno picchiato a sangue. Ha preso tante botte che è rimasto sordo.A fine guerra era stato proposto di fargli avere una pensione, ma nessuno si è interessato. (Ives Bizzi, La Resistenza nel trevigiano cit.).

Le azioni di sabotaggio

Bruno Picciol racconta le azioni del gruppo “Giustizia e Libertà”: «Semo andai a far saltar il filo di comunicazione che collegava il Comando tedesco di Treviso alla Germania, gavemo buttà su una corda e se semo piccai, nel frattempo passava una pattuglia. Ghe jera anca Pippo e i passava coi ciari spenti. Xe passà na pattuglia de quattro tedeschi, noi se semo distirà drio il fosso, mi e Piero e Gigetto Rossi. I fratelli Bianchin no ghe jera, i veniva con noialtri quando andavamo per Postioma a sabotar la ferrovia. Non ghemo mai fatto saltar la ferrovia, per non farse sentir, tiravamo via i bulloni, slargavamo i binari, quando aveino gli ordini che arrivava i carri con oro, preziosi, i quadri, i ghe tegneva ai quadri, i portava via tutto. Allora quando ghemo tirà via il filo jera già drio a comunicar, perché gha fatto la scintilla. Quando semo tornai a Ponzan i diceva: i gha staccà il filo, i fascisti i va per tutte le case, non se sa chi sia, ma noialtri saveimo, se era noialtri cinque. Dopo n’altra volta semo andai zo per Lancenigo, perché gaveimo una ricetrasmittente, no noialtri, un professor de scultura: Toni Benetton; se semo conosui e se semo fatti anche da compari. Simon saria me fiosso. Prima non se fidaimo tanto de iu, perché jera fascista, dopo se gha buttà e gha ditto: mi faria parte perché qua, ogni mattina, vengono gli spidfire inglesi. Gli aerei inglesi il mitragliava le macchine, qua a Lancenigo, i buttava una bomba e i soldai, che i portava in Germania, i scappava via tutti. Ne gaveimo tre o quattro qua noi qua della bassa Italia. I tirava la bomba anche sul Piave, gho lavorà anca mil sul Piave per i tedeschi, per forza, per aver il cartellin, se no i fascisti i te coppava. Facevamo sabotaggi anche con questi (mostra un chiodo a quattro punte) ne avevo un sacco, gli atti di sabotaggio li avemo sempre fatti, con Piero, cavi del telefono, carri ferroviari, chiodi a quattro punte, le macchine si fermavano dopo venti metri».

Bruno Biasini, nella testimonianza rilasciata a Ives Bizzi, pubblicata da Giacobino Editore, La Resistenza nel trevigiano. cit., così racconta le azioni della brigata “Gramsci”:

Ci siamo messi subito al lavoro con azioni di disturbo, come quella di gettare chiodi a tre punte sulle strade dove passavano mezzi fascisti e tedeschi.

Piero Stolfo continua il racconto delle sue imprese: «Altra azione è stata dil sabotaggio: tagliare cento metri di cavo elettrico, eravamo ad alcuni giorni dallo sbarco in Normandia (Giugno 1944). L’ho saputo dopo, in quei giorni, Radio Londra sollecitava i partigiani ad intensificare gli atti di sabotaggio. per rompere i collegamenti ai tedeschi. Il cavo collegava la corrente e le comunicazioni dei tedeschi.

Le azioni erano segrete, mi erano comunicate dal comando. Un giorno è arrivato un ragazzo, una staffetta, per comunicarmi l’ordine di requisire una macchina per il comando partigiano di Castelfranco. A Fontane presso un contadino c’era la macchina del Prefetto di Treviso, sono andato a requisirla in nome delle brigate “Garibaldi”. Eravamo nel 1944.

Dopo ho requisito una seconda macchina sempre a Fontane, presso un’offcina, era la macchina di un ufficiale tedesco. Serviva al comando partigiano».

Su “La nuova strada”, settimanale dell’ANPI, nell’articolo già citato sulla morte dei partigiani di Ponzano, così è descritta l’azione partigiana a Ponzano e nei paesi vicini:

Le squadre di Postioma, di Ponzano, di Lovadina, di S. Giuseppe e di Quinto iniziarono ben presto un’attività intensa di sabotaggio, sotto l’impulso dei fratelli Gobbato, instancabili organizzatori. Il nemico venne tempestato da atti coordinati che fra la Dodicesima e la Feltrina, a nord della città, lo innervosirono e lo logorarono.
Piero Gobbato era ovunque ad esortare e, quando occorreva, a deplorare, esigendo la massima disciplina e che, senza ordini, non si uccidesse alcuno se non in combattimento o per legittima difesa.
Le linee ferroviarie Treviso-Montebelluna e Treviso-Spresiano venivano più volte interrotte e i treni fatti deragliare, i cavi telefonici più importanti asportati, le strade cosparse di chiodi a quattro punte, i tedeschi disarmati, gli uffici incendiati, le sparatorie si susseguivano agli assalti e tutto ciò avveniva con ritmo incessante nell’oscurità e nel silenzio pericoloso del coprifuoco.
La gente credeva erroneamente che si trattasse di partigiani discesi dai monti, si entusiasmava palesemente ed andava esaltando quegli eroi allora sconosciuti, che vendicavano i fratelli portati come bestie in Germania e che rivelavano lo spirito mai spento dei padri che combatterono al Piave e sul Montello. (“La nuova strada”, 1947).

Da una relazione, conservata nell’Archivio Gobbato, di Astorre Vecchiati, nome di battaglia Romeo, commissario politico delle brigate “Giustizia e libertà”, emerge una dettagliata annotazione di sabotaggi, che fornisce una precisa informazione sulle azioni di sabotaggio dei partigiani della zona:

Le operazioni effettuate si possono elencare in modo sintetico come segue: 1 giugno 1944. Interruzione della linea telefonica Spresiano-Lovadina;
24 giugno 1944. Interruzione ed asportazione di parte della linea telefonica da Lovadina a Catena:
10 ottobre 1944. Brillamento di una mina sulla linea ferroviaria Treviso-Spresiano all’altezza di Catena;
8 gennaio 1945. Interruzione della linea telefonica Treviso-Spresiano. (AISTRE-SCO, f.3, b.2, fasc. brigata “P. Gobbato”)

I partigiani di Ponzano della brigata “L. Bavaresco”, il 10 giugno 1944, effettuano a Castrette:

(...) Taglio in tre punti del cavo telefonico del comando militare tedesco. All’azione partecipano Biasini, Benetton e tre uomini. (AISTRESCO, f.3, b.1, fasc. brigata “L. Bavaresco”).

Arrigo Precoma ricorda l’assalto alla polveriera di Castagnole, una azione di sabotaggio tipica delle brigate di pianura: «Ricordo [...] l’attentato alla polveriera di Castagnole, l’ex SIMMEL, è stato un assalto delle brigate partigiane, ma è palese che c’era l’accordo con le persone che vivevano intorno al deposito. Infatti è vero che l’esercito era allo sbando, ma ci sarà pur stata una sorveglianza armata [... ] è stato nel ‘44, non ricordo il mese preciso ma la vegetazione era già folta. L’attentato è stato fatto con le micce, i partigiani sono venuti a casa mia e hanno preparato le micce con lo spago sul tavolo della cucina. Tanto che mia mamma, proprio perché c’era tanta ristrettezza, ha chiesto dello spago delle micce per poterlo usare in famiglia».

La brigata partigiana, mettendo a rischio la propria sicurezza, diede delle circostanziate istruzioni alle famiglie che potevano essere investite dall’onda d’urto dell’esplosione: «I partigiani prima di andar via ci hanno informati: succederà qualcosa di preoccupante, lasciate le porte e le finestre aperte, togliete i vetri. Mio padre li ha tolti e li ha portati nell’orto perché non si rompessero. Altro consiglio che ci fu dato: gli animali della stalla non lasciateli alla catena, lasciateli liberi per quanto possibile, in modo che possono muoversi. Quando sentirete qualche movimento, state pronti, scappate fuori dalla casa».

La famiglia Precoma seguì le istruzioni dei partigiani: «Non ci avevano detto cosa succedeva. Quella notte mia mamma e mio fratello hanno dormito nella camera di sopra, erano rimasti un po’ vestiti e mi hanno sistemato su una coperta per farmi dormire. Dopo la mezzanotte si è sentito un grande boato e una luce forte, mio padre gridava: fuori, fuori, con una voce forte e piena di paura, siamo scappati in un fossato per proteggerci. Tutta la gente era fuori ed è passato un partigiano con barba e baffi finti che andava verso Santandrà. Erano d’accordo con la direzione e con gli operai della polveriera.

Dopo la guerra si sono rifatti perché hanno preso i danni di guerra per fare uno stabilimento nuovo. Quella volta non hanno fatto saltare tutto quanto, sono rimaste parecchie bombe e munizioni, se no sarebbe andato per aria tutto e sarebbe successo un gran disastro».

Dal diario delle attività della brigata “L. Bavaresco” risultano diverse azioni di sabotaggio, proprio nel periodo ricordato da Precoma, nei confronti della polveriera e del deposito di munizioni di Castagnole, si segnala in particolare l’attentato del 15 luglio 1944:

Elementi della brigata addetti all’operazione di sabotaggio presso il laboratorio di caricamento proiettili di Castagnole riuscirono, mediante applicazione di un dispositivo incendiario nella massa del tritolo in lavorazione, a distruggere completamente una camera blindata. All’azione partecipano tre partigiani. (Ivi).

Nella stessa relazione è riportata l’azione del 24 aprile 1945:

In cooperazione con una squadra della Bottacin (Sandro ed Orlando), nostri elementi che in precedenza erano venuti in possesso a mezzo del garibaldino Pasquali dei piani del cantiere Marnati & Larizza, provocavano a mezzo di numerose mine l’esplosione e la distruzione di gran parte dei capannoni del cantiere stesso. All’azione partecipavano sei uomini.

Le staffette

Nella lotta partigiana è fondamentale il supporto logistico affidato alle staffette. Il compito di staffetta era affidato a donne o a ragazzi che potevano sfuggire il controllo dei fascisti e dei tedeschi. Era questo un compito non meno pericoloso di quello del partigiano: le staffette, nel caso fossero state catturate,erano passibili di condanna a morte come i partigiani combattenti.

Piero Stolfo, a volte, era costretto ad affidare i propri messaggi alla sorella:

Una volta dovevo portare una lettera al prete di Villorba, perché intervenisse per salvare sette partigiani che volevano fucilare, poi li hanno fucilati.

Non avevo nessuna staffetta, allora ho incaricato mia sorella, dicendole che si trattava di questioni religiose, le ho nascosto al lettera nel manubrio della bicicletta. Lei era contenta così ha iniziato a fare la staffetta. Il prete doveva intervenire per tentare di salvare i partigiani, c’era anche il figlio di Benvenuto».

Ferruccio Bianchin, cugino dei fratelli Bianchin, è la figura tipica del ragazzo staffetta. Teneva il collegamento tra Piero Gobbato e i fratelli Bianchin.

«Mi ghe nettavo i fusii ai me cugini, se gavea un cason fora della casa e andavo ad aiutarli a nettar i fusii, i mitra e dopo gho fatto la staffetta. Son andà a Ponzan, tante de quelle volte, da Piero Gobbato. Ogni volta che andave là, andave una, do volte alla settimana, me diceva: non te si mai stato qua, non te me gha mai visto. Ero un ceo de quattordese anni, partivo tutto contento, in bicicletta, con la sigaretta in bocca. Il partigiano che stava sulla casa qua davanti me dava la bicicletta e mi dava anche un pacchetto di sigarette, le Milite. Avevo quattordici anni, me parea de toccar el cielo. Aveo il cappel de paia, dentro el capel de paia ghe xe la cordea, i me mettea il biglietto con gli ordini dentro là. Ho cominciato a far la staffetta in primavera del ‘44 - continua il suo racconto - facevo il porta ordini.

Bruno, el più veccio, me dava gli ordini, li ciapava da Matteazzi che l’era tenente, qua de Postioma. Bruno me dava questo biglietto, l’altro partigiano era Bigotto, queo che me dava la bicicletta e anca un pacchetto di sigarette, le Milite, una volta ghe jera le Milite. Ciapee la bicicletta e via!».

Arrigo Precoma così ricorda una staffetta partigiana capitata a casa sua:

«Un’altra volta ancora, un vicino ha chiesto a mio padre se poteva dare da mangiare a mezzogiorno ad una persona, a casa loro non avevano niente.

Mia madre gli disse: la pol vegnar. Si presentò una signora ben vestita ed educata, con una borsa, non sapevamo chi era. Qui vale il proverbio: “A chi è affamato ogni cibo è grato”. Questa donna, poveretta, era proprio affamata. Mia mamma, quel giorno, per pasto, aveva cotechino, erbe cotte primaverili, radicchio selvatico condito alla meno peggio, considerando la ristrettezza del sale. Questa donna ha mangiato mezza “caliera” di polenta, con un po’ di musetto, le erbe cotte e una piccola fetta di formaggio. Parlando con questa signora siamo venuti a sapere che era una porta ordini. Mentre la signora era andata a fare i propri bisogni, è scappato un porcellino che è andato a mettere il muso proprio nella borsa della signora che era rimasta in cucina. Il maialino ha sporcato la borsa, allora mia mamma ha chiamato mio fratello per pulirla e metterla in ordine con uno straccio. Dalla borsa è saltato fuori un libretto con numeri e parole in codice, la fotografia di una persona con scritto sotto: “Fucilato il giorno tal dei tali…”

Mia madre le aveva offerto di riposarsi in una stanza, ma lei preferiva stare fuori della casa, era evidente che voleva essere sempre in condizione di scappare. Alla sera, quando ha fatto buio, è venuto un uomo a prenderla. Aveva promesso a mia madre del vestiario, nel ‘44-45, era molto importante, ma non abbiamo mai visto niente. Nessuno è mai tornato, non erano paesani ma parlavano il nostro linguaggio veneto».

Le staffete avevano il compito di tenere i collegamenti tra le varie formazioni e i comandi come racconta nella sua testimonianza, del 1975, Biasini:

I contatti con l’organizzazione del partito e con quella militare della resistenza venivano mantenuti tramite le staffette Bruna Marangon e Bruna Fregonese. (Ives Bizzi, La Resistenza nel trevigiano cit., p. 93).

Le staffette erano utilizzate anche per accompagnare in montagna i giovani che non erano del luogo e soldati stranieri fuggiti dalla prigionia, che intendevano aggregarsi alle brigate partigiane (AISTRESCO, f.3, b.2, fasc. brigata “P.Gobbato”).

La resistenza dei civili

Tra la popolazione civile si moltiplicavano forme di disobbedienza che manifestavano il profondo e diffuso dissenso popolare nei confronti delle Brigate nere e degli occupanti tedeschi. Queste azioni sfociavano spesso in aiuto e sostegno ai partigiani, come emerge dalla testimonianza di Anna Mestriner:

«Ghe jera l’obbligo de portar una, ogni quattro vacche che una persona gavea in stalla, all’ammasso, ai militari, le andava all’esercito tedesco. Per questo una mattina sulla strada ghe ne jera così tante, ma tante, che xe andae avanti do ore a passar davanti casa nostra. Una de ste vacche la xe andata su la nostra vigna, se capisse che le guardie non se gha accorto e me mamma la gha portada a casa. Abitavo nelle casette di Villa Minelli, dove ora ghe xe la direzione de Benetton. Me mamma, la mattina drio, xe ndada in municipio ad avvisar de sta vacca. Però la gha avvisà anca i partigiani che la gavea sta vacca e la gha lassà la porta verta ai partigiani, che xe andai a torsea de notte, per darla a chi gavea bisogno. La mattina drio la xe andata in municipio per dirghe che la vacca no ghe jera più».

Esistevano altre forme elementari di boicottaggio dei fascisti come racconta Pasquale Borsato: «Ho vissuto la Resistenza da bambino e in un qualche modo ne sono stato coinvolto, nel senso che quando le camicie nere della Repubblica di Salò venivano all’osteria di mio zio, l’osteria la “Bacchetta”, alla Baruchella, io ero un bambino ed ero sempre là a giocare, mi chiedevano: hai visto un signore che andava a piedi da qualche parte? Rispondevo: sì, è andato da quella parte, ma gli indicavo la direzione sbagliata».

Il dottor Gastaldo, fulgida figura di Resistenza civile a Ponzano, usava il lasciapassare rilasciato dal Comando tedesco per soccorrere, anche di notte,partigiani feriti o ammalati.

Così Arrigo Precoma ricorda il lavoro clandestino del dottor Gastaldo: «Una notte, un partigiano ha avuto una colica renale, abbiamo mandato a chiamare il dottor Gastaldo che è venuto pianino, pianetto, alla chetichella in bicicletta. A quei tempi, c’era più solidarietà di oggi, la gente si aiutava, vedendo passare il medico in bicicletta, sono venuti a casa nostra per vedere chi era malato ed hanno visto queste persone in casa. Abbiamo dovuto dire che erano parenti che erano venuti a trovarci. I vicini allora ci domandavano se venivano dalla Russia o da quale fronte. Noi dovevamo raccontare bugie su bugie. Tornando al dottor Gastaldo, ha visitato il partigiano e, siccome aveva una colica renale, è andato a comprargli le medicine. Non ha fatto la ricetta per non lasciare documenti scritti. L’ha curato e lo ha rimesso in sesto e quando è stato in grado di camminare ha raggiunto i propri compagni».

Del dottor Gastaldo, Piero Stolfo dice: «Il dottor Gastaldo aiutava tutti, cuciva fascisti e partigiani. Con la differenza, che per l’aiuto ai partigiani, rischiava di essere fucilato o, come minimo, deportato in Germania».

Partigiani stranieri

Alla lotta di Liberazione parteciparono anche militari di altre nazionalità.

Erano, per lo più, prigionieri fuggiti dai campi di concentramento tedeschi che si aggregavano alle brigate che li avevano aiutati a fuggire. Alcuni di questi caddero valorosamente e furono insigniti di onorificenze al valor militare.

Arrigo Precoma si ricorda un militare russo, passato per casa sua: «Un’altra volta è passato di qua, con una squadra partigiana, un cittadino dell’URSS, non so se un russo o ucraino, certo è che era una persona di una certa levatura culturale. Mio papà che era rientrato da tredici anni dall’Australia masticava un po d’inglese, il russo lo parlava correttamente e comprendeva benissimo l’italiano. Hanno parlato quasi per una mezza giornata. Il comandante intendeva passare la notte qui da noi, ma, il russo, aperta una carta, ha detto: è meglio spostarsi, anche di poco, siamo vicini alla città e siamo circondati da quattro strade: Talponera, Feltrina, Postumia, Morganella ed ha aggiunto: se viene un assalto ci andiamo di mezzo noi e anche questo uomo che ha girato il mondo per farsi una famiglia e ci ha ospitati generosamente. Mio padre si ricordava che queste parole le aveva dette in italiano. In seguito, quando questa brigata passò per casa mia, mio padre domandò del russo, le risposte del comandante partigiano furono molto vaghe, ma fece trapelare che era morto in combattimento».

Nel Diario storico militare cit., della brigata “P. Gobbato” si trova un riferimento a contatti con militari stranieri fuggitiva campi di concentramento o aviatori abbattuti:

Non furono molto numerosi, tuttavia alcuni furono sistemati presso famiglie di fiducia ove rimasero lunghi mesi, altri salvatisi da sinistri aerei furono avviati al centro di raccolta montano tramite staffette. (AISTRESCO, f.3, b.2, fasc. brigata “P. Gobbato”).

Mentre nell’Attività operativa svolta della “L. Bavaresco” si trova questo riferimento:

Si è provocata la liberazione di un militare russo (Kaposcenko) disertore del servizio tedesco; dopo essere stato vestito e assistito per alcuni giorni il Kaposcenko è stato indirizzato alle formazioni di montagna. (AISTRESCO, f.3, b.1, fasc. brigata “L. Bavaresco”).

Regole cospirative e tradimenti

La guerra partigiana non ha fronte né divise. Non è facile distinguere nemici ed alleati. Diventa decisivo avere informatori. Subito dopo l’8 settembre inizia il lavoro di infiltrazione tra i fascisti e i tedeschi, come racconta Piero Stolfo: «Una volta ad una delle prime riunioni ho avuto paura, c’era anche Ruggero Benvenuto oltre Biasini, ci siamo incontrati con un capitano fascista e un tenente tedesco che comandavano la repressione partigiana. Ma facevano il doppio gioco, in particolare il capitano era un comunista, in seguito ci avrebbe fornito regolarmente i piani di rastrellamento dei fascisti, nei pressi di Treviso. Ci aiutò a salvarci soprattutto di notte. Questo avvenne subito dopo l’8 settembre».

Le brigate partigiane di pianura osservavano alcune semplici misure di sicurezza. «Un’altra cosa che ricordo - testimonia Arrigo Precoma - è che non avevano nessun piacere che si andasse attorno, una volta sono andato in stalla, mi sembrava che avessero un termometro, allora sono andato là a curiosare, ero un bambino di tre o quattro anni, loro hanno chiamato mia mamma perché mi portasse fuori. Non avevano nessun piacere che li guardassi, anche perché, in seguito, avrei potuto riconoscerli». Queste misure coinvolgevano anche familiari di passaggio: “Una volta è arrivata una mia cugina da Ciano del Montello, aveva 15 o 16 anni - continua Precoma - c’era tanta fame, a quel tempo, ed era di famiglia operaia, veniva a vedere se c’era un po’ di cibo, qualche patata americana, qualche cosa da portarsi a casa. Ma i partigiani, fintanto che erano là, per la loro sicurezza, non potevano lasciarla andare a casa. Allora non c’erano comunicazioni e lei doveva tornare a casa il giorno dopo. Mio padre ha dovuto svegliarla alle 3.30 del mattino e farla andare a casa con il coprifuoco, una ragazzetta di quindici anni. Questa cugina è morta in Francia, fino all’anno scorso si ricordava questo fatto, di essere andata a casa la mattina presto, quasi di notte, con mio padre che diceva: «mi raccomando, tasi, tasi, non sta a dir niente».

Così definisce la situazione Bruno Picciol: «Non se fermaimo mai a parlar di giorno, per non tirar l’attenzione, perché se te eri più di tre persone te eri in sospetto e allora i veniva a trovarte a casa i fascisti, ma non ghe era solo i fascisti, ghe era anche altre spie». Le famiglie si dividono anche al proprio interno tra antifascisti e Brigate nere, in paese era difficile rispettare le regole di cospirazione, si poteva essere traditi anche da un parente. «I fascisti savea tutto dei partigiani - racconta Ruggero Stolfo -. Me cugin stava vicino all’osteria dal Picciol, i lo ciamava Mucca, e lu s’è andà con le S.S., come se ciamava la decima MAS, al Pio X, savea tutto morte e miracoli. Me fradel, visto che l’era in mezzo, volea che ghe procurasse qualche arma, bombe a mano, e le domandava a questo cugino. Allora lu savea che qua ghe jera i partigiani».

Il racconto del fratello, Piero Stolfo, è più preciso: «Sono stato arrestato per la delazione di un mio cugino, fascista, mi sono fidato a chiedergli qualche mitra, lui mi ha denunciato. Sono venuti a prendermi tre delle Brigate nere, mio cugino era fuori, mi hanno portato fino al ponte della Giavera. Prima si sono fermati in una casa di contadini, la casa di Marco Biasetto, dove si sono fatti dare, con la minaccia delle armi, soppresse e salami, poi hanno trovato la grappa e si sono ubriacati. A casa e poi per strada mi avevano riempito di botte, ero già distrutto. Vicino al ponte si sono messi a baruffare per spartirsi i salami. Quello che mi teneva di guardia ha chiesto che cosa doveva fare di me. Gli hanno detto: dagli un colpo. Mi ha dato un gran colpo col calcio del moschetto sulla schiena, sono crollato a terra, ed ha continuato a discutere per la suddivisione della ruberia, forse mi credeva morto. Per fortuna alla squadraccia fascista interessavano più i salami e le soppresse rubate della mia vita. Mi sono ripreso, sono strisciato fino alla scarpata della Giavera e mil sono buttato giù, nell’acqua. Era febbraio, faceva un freddo boia. Quando si sono accorti che ero scappato, hanno cominciato a far questioni tra loro, perché non mi avevano ammazzato ed hanno cominciato a sparare all’impazzata nel buio della campagna. Sono stato un’ora nell’acqua, soltanto la testa fuori. Dopo sono andati via. Sono tornato a casa trascinandomi, mi avevano riempito di botte per la strada prima di colpirmi col moschetto. Sentivo la voce disperata di mia madre che domandava dove mi avevano portato».

Ospitare dei partigiani, in campagna, suscitava la curiosità dei vicini:

«Un’altra volta - ricorda Precoma - i partigiani ci hanno domandato di sentire la radio, noi avevamo la corrente elettrica, ma la radio no. C’era una famiglia, qua a 700 metri, hanno provato a domandare a questa famiglia che era benestante e avevano messo a posto bene la propria casa. Quando se nel sono andati li hanno pedinati fino casa mia, poi, dopo qualche giorno, hanno chiesto a mio padre chi erano. Mio padre ha negato tutto perché aveva paura di scatenare un putiferio. È stata la più grande bugia che mio padre abbia detto, finita la guerra ha però raccontato a questa famiglia chi erano veramente quelle persone, anche perché la voce ormai si era allargata.

Gli hanno detto che avrebbero dormito in pace per due o tre notti, se lo avessero saputo subito, perché per la paura erano stati svegli alcune notti».

Emilio Gallina racconta un episodio di un pestaggio di un partigiano da parte dei fascisti in seguito ad una delazione: «Di Mattiazzi, (Arturo) il capo partigiano che abitava anche lui nel colmello Emilio Gallina era sfollato vicino alla casa dei Fratelli Bianchin, a Postioma. , ricordo il pestaggio subito da parte delle Brigate nere una notte. Certamente qualcuno doveva aver fatto la spia. Nessuno sapeva della sua appartenenza al movimento della Resistenza.

Quella notte egli ritornava a casa ignaro dell’agguato. Riconosciuto venne preso e senza tanti complimenti legato a una colonna del cancello di Ante Paesan, minacciato e picchiato duramente perché ammettesse la sua militanza nel movimento partigiano e rivelasse i nomi dei compagni. Dalla sua bocca oltre a proclamarsi estraneo a qualsiasi vicenda di guerriglia non uscì un lamento. Tornavo casa da me morosa. Mi no’ so gnente, affermava con forza. Ricordo i colpi e le imprecazioni di rabbia delle Brigate nere. Si spiava dalle imposte socchiuse angosciati la scena e si tremava, in particolare i componenti della famiglia dove si era sfollati. Il capofamiglia era in giro per la campagna a macellare bestiame “de sfroso” e fino a quel momento non era rientrato. Accadde quello che essi temevano. Ignaro il povero uomo rientrava in bicicletta con i “ferri del mestiere” in una sporta. Fu la salvezza del Mattiazzi lasciato privo di sensi legato alla colonna ma seri guai per il nuovo arrivato, arrestato e portato a Treviso La macellazione di frodo, oltre ad essere un reato in sé, serviva per alimentare il mercato nero.. Vicenda che fortunatamente fini bene».

Non osservare le regole cospirative era estremamente pericoloso. Soprattutto all’inizio della lotta partigiana furono commessi errori che potevano costare molto cari, come racconta Bruno Picciol: «Poco dopo l’8 settembre, jèra stai qua i partigiani. Na desina i jèra. I se gha presentà qua de sera e i xe restai qua tutta la notte e anca el giorno dopo. I fermava la zente che passava per la strada: vardè che mi doman de matina gho qua i fassisti, ghe gho dito, jèra dopo l’8 setembre e non so da dove i vegnesse. I fermava la zente: da qua no’ se passa. La sera i xe ‘ndai via.

I Pascotto, i idraulici de Treviso, che i jèra qua sfolai, i gha dito: guai se parlè. La sera i partigiani i xe andai via, e la matina gavevo la casa circondada dai fascisti. Pensa se i partigiani i fusse stai ancora qua cosa che saria sucesso. Me mama me dise: Bruno ghe xe i fascisti, fora, i gha circondà la casa. Se vèrse un belcón, i salta dentro. Uno el me mete el mitra sul stómego. Mi jèro in lèto:
ara qua! De matina el dorme e de note el fa el partigian. Mi no’ fasso el partigian, lavoro co’ i tedeschi, mi. N’importa. Ti te va via de note e te fa el partigian. Jèra ‘e çinque dea matina. Pensa ti se no’ i gavea avuo un riferimento da quei che i fermava. I ghe gavarà dito: varda che là ghe xe i partigiani».

Nell’autunno del 1944, fascisti e tedeschi ricorrono per lo spionaggio a partigiani traditori. Per infiltrarsi nel movimento partigiano, utilizzano, in questo periodo, partigiani fatti prigionieri che avevano scelto di tradire in cambio della vita. Le spie tornavano nelle loro brigate e potevano svolgere facilmente la loro opera di delazione come racconta Bruno Biasini:

Intanto, nella nostra zona, che era la terza, i fascisti hanno mandato un partigiano che era passato tra coloro che faceva la spia: era Bedin il quale, a suo tempo, con altri partigiani aveva fatto saltare il comune. (Ives Bizzi, La resistenza nel trevigiano cit., p. 93).

Il pericolo di tradimento e di delazione era sempre presente, anche persone non coinvolte con i fascisti potevano fornire, involontariamente, notizie utili a colpire il movimento partigiano. Per questo, partigiani e staffette dovevano agire con grande prudenza e con il massimo di riservatezza.

Ferruccio Bianchin racconta le istruzioni sulla sicurezza che gli erano state raccomandate dai partigiani per cui svolgeva il compito di staffetta: «Me mamma non savea niente: lazzaroni mandar un tosatel così, disea me mama quando la gha savuo. Partio a mezzodi, col caldo, non dovea saver nessun dove andavo, neanche me mamma. Conosseo i partigiani, ma i me spiegava solo e basta queo che doveo far come staffetta. No gho mai letto i messaggi, i me fava scuola de non toccar e de non parlar con nessuno, non me son mai fidà de vedar cosa jera scritto. Bruno disea: non sta a fidarte e non fermarte a parlar con nessuno. Piero Gobbato me lo ricordo ben, me prendeva il biglietto dal cappel, andava a leggerlo in una stanza in fondo al corridoio, io aspettavo la risposta, me la infilava nel cappel. Qua non te si mai stato e non te me ha mai visto e me disea sempre. Andavo a casa de Gobbato, a Ponzan avanti del crocevia, dove ora ghe s’è le scuole elementari. La prima volta i me gha spiegà de non domandar mai a un uomo, ma se te gha da domandar domanda a una veccetta, neanche a un veccio, a una veccetta, a una femena. Gho domandà a una veccetta».

Anche nei rapporti tra di loro i partigiani erano molto attenti anche nel comunicare orari e luoghi d’incontro, come emerge dal racconto di Giuseppe Uliana, sugli avvenimenti della sera in cui fu ucciso Gigi Rossi e furono catturati Gobbato e i fratelli Bianchin: «Piero el xe ‘ndà a casa de Bruno e el ghe gha dito: Bruno sòita ora e sòito posto, parché i parlava cussi».

Anche sui collegamenti con i livelli superiori del Comando Partigiano esisteva la massima riservatezza. Ricorda Bruno Picciol: «I collegamenti li aveva Piero, noialtri non se saveva, ma se aveva caro di non saver. Perché massa voci non va bene. Piero el voleva dirne, ma mi ghe diseo: xe meio che te sappi ti solo, massa voci non va ben. Poi ghe jera qualcuno, mi no, che beveva qualche ombra in più».

 


Note:

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