Ponzano Paderno Merlengo - ieri e oggi

LA VITA DELLE NUORE

A matrimonio concluso, nei ceti operaio ed agricolo, gli sposi non si recavano in viaggio di nozze, oggi di gran moda. Anzi dimostravano senza indugio la loro buona volontà impegnandosi nel lavoro. Le nuore dei contadini si rendevano subito disponibili alle fatiche dei campi per cattivarsi la stima e la simpatia della comunità familiare ed allorché pervenivano allo stato di gravidanza lavoravano sino alla imminenza del parto, sotto il sole o sotto le intemperie, nutrite scarsamente, senza preferenze sugli altri. Assistenza e cure mediche per loro non esistevano. Unica speranza era lo spirito di umanità della madòna (suocera). Se tale spirito mancava o difettava, le povere nuore incinte si trovavano a malpartito. Il marito non doveva fiatare.

El missièr (suocero) approvava il comportamento della moglie e raramente la contraddiceva.

In questa situazione la futura mamma, molto spesso, finiva per compromettere la salute propria e quella del nascituro. Non infrequenti erano i casi in cui si ammalava ed il bambino nasceva morto o decedeva poco dopo la nascita. I cimiteri ne erano testimoni e più ancora i registri parrocchiali. Inoltre difettavano le levatrici ufficiali, chiamate mammane. Supplivano a questa mancanza quelle abusive, che trattavano le partorienti in maniera empirica, senza le dovute regole igienicosanitarie. I parti avvenivano in preminenza in stanze fredde, a lume di petrolio e comunemente senza medico. Quest’ultimo interveniva solo nei casi palesemente difficili.

Se il parto riusciva felicemente, la gestante veniva alimentata per alcuni giorni con sópe co l’ojo e con panadèa od altro umile cibo.

Trascorsa la quarantena essa si sottoponeva al rito della benedizione in chiesa, dopo il quale poteva uscire di casa. Le famiglie contadine, nella grande maggioranza, sollecitavano le puerpere a ritornare nei campi pochi giorni dopo il parto senza badare alla quarantena.

Per allattare il piccino con una certa regolarità accadevano brontolamenti, discussioni: non s’intendeva concedere alla donna in questione di abbandonare temporaneamente il lavoro. La poverina veniva a trovarsi in un evidente disagio per governare il piccino.

La medesima, prima di recarsi nei campi, poneva la creatura, ben fasciata, sopra un buio to (cuscino di crusca di grano turco) dentro una cassetta del comò semiaperta, sistema che assicurava l’incolumità del piccino.

E’ da rammentare che in quei tempi non esisteva l’allattamento artificiale e quella madre che non aveva latte, o ne aveva in misura insufficiente o troppo leggero, doveva sopperire con quello di mucca o di altra generosa donna lattante del vicinatoPer quanto riguarda la mancanza o scarsezza di latte delle puerpere, vedasi anche l’argomento «Luoghi sacri cari al popolo» in cui tra l’altro si parla dell’oratorio di S. Elena Imperatrice, della chiesetta di Santa Marna e della vicina fonte det «bus del Buòro»..

Certe giovani madri impegnate nell’attività in campi poco discosti da casa, ad una certa ora ricevevano il piccino, ivi condotto con là carriola, adagiato su un cuscinetto detto piumasso, e lo allattavano all’ombra di una pianta.

Era questo un valido sistema per interrompere il digiuno del fantoìn.

Durante il periodo dello svezzamento, la mamma portava il piccolo nei campi posandolo sul solito piumasso o sul bulòto vicino ad un albero e possibilmente sotto la vigilanza di un adolescente.

Allorché il piccino (el cèo) doveva imparare a reggersi, a fare forza sulle gambette e sulla spina dorsale, veniva collocato in piedi dentro il foro della erìgala dei pitùssi, con la testina e le braccia fuori del cerchio centrale.

Il bambino, con il trascorrere del tempo, cresceva e si irrobustiva, cosicché riusciva a smuovere la erìgala ed a spostarsi. La mamma rimediava anche a questo ponendo una grossa pietra sopra le erìgala, ovvero legando questa a qualche appiglio sicuro.

Durante i periodi cruciali del lavoro agricolo, le donne dovevano sbrigare il bucato, sempre enorme, nelle soste pomeridiane, mentre gli uomini riposavano.

Questa era una realtà comune, normalissima, per le donne contadine dei tempi trascorsi.

Sotto un certo aspetto potevano chiamarsi fortunate quelle figliole che sposavano un operaio. Pur esse, tuttavia, affrontavano grosse difficoltà, oscuri sacrifici, senza nessuno spiraglio di sollievo. Quante volte nel silenzio della loro camera piangevano sconfortate.

Le spose che avevano una forte personalità il più delle volte finivano per reagire causando però dissapori inevitabili e conseguenze spiacevoli.

In un’indagine eseguita tra le donne anziane è stato constatato che nessuna ha rimpianto il suo passato.

Purtroppo la vita per molte di esse non mutò che parecchi anni dopo la seconda guerra mondiale. Tuttora esistono, sperdute nella campagna, famiglie ancorate alla tradizionale mentalità ed ai vecchi mortificanti sistemi, nonostante le migliorate condizioni di vita determinate dall’evoluzione della civiltà e del progresso.


Note:

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