Ponzano Paderno Merlengo - ieri e oggi

I VESTITI E LE CALZATURE

Alla nascita il neonato veniva avvolto nei pannolini e da una lunga fascia di cotone così da farlo assomigliare ad una piccola mummia di egiziana memoria.

Trascorsi 10-12 mesi, la fascia veniva sostituita dalla cotoéta (sottanina) per entrambi i sessi. Più tardi, a giudizio della madre, in base al raggiunto spirito di autosufficienza, il maschietto vestiva le braghéte o bragheséte (pantaloncini a mezza gamba), mentre la femminuccia proseguiva con la cotoéta. Il maschietto pertanto apprendeva poco a poco ad imbotonàrse e a desbotonàrse (abbottonarsi ed a sbottonarsi) e ad usare le tiràche (bretelle) di tela.

Raggiunta l’età dei 14-15 anni circa ecco la novità: braghe longhe da orno (pantaloni lunghi da uomo) per i maschi e sottane, convenientemente allungate, per le donne. Era questo un avvenimento di notevole importanza: il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza.

Le condizioni economiche di quei tempi non concedevano nessuna stravaganza, nessun lusso nel vestire. Gli acquisti di stoffa venivano limitati al massimo. Altra seria preoccupazione presentava la confezione dei vestiti, per la quale solo nei casi indispensabili ci si rivolgeva al sarto od alla sarta. Certe sarte, specie in campagna, lavoravano per entrambi i sessi.

Per i bambini ed i ragazzetti ci si arrangiava alla meglio: provvedeva qualche donna ingegnosa, che cercava di imitare la sarta professionista robàndoghe el mestièr (rubandole il mestiere).

Le donne vicinanti si aiutavano a vicenda: per esempio, mentre la donna capace confezionava un pezzo di vestiario per quella meno abile, quest’ultima ricambiava facendole il bucato od altro lavoro casalingo.

I vestiti vecchi venivano senz ‘altro riutilizzati, specie quando la stoffa aveva il do pio drito (doppia faccia). Per quelli sbregài (laceri) si provvedeva con tacòni e mende (toppi e rattoppi o rammendi). I rattoppi facevano bella mostra e la donna che li aveva eseguiti a regola d’arte riceveva l’elogio dalle amiche. L’abbondanza dei tacòni sui zenoci, sui còmii e sul dadrìo (toppe sui ginocchi, sui gomiti e sul sedere), era una cosa normalissima che non scandalizzava nessuno. Venivano criticate, sotto sotto, le donne che, negate a tali riparazioni, combinavano castroni (raffazzoni): per rammendare un buso e damava ontàn e le tirava vissìn e ne risultava un fufignòto (pigliavano lontano e tiravano vicino e ne risultava uno sgorbio).

Per le famiglie misere, numerose, il ricevere in dono o per pochi soldi qualche oggetto di vestiario usato, costituiva f’na gràssia grandaf (una grazia grande).

Gli adulti indossavano fe braghe, a giachéta e el giè (i pantaloni, la giacca ed il gilè). Il gilè era molto in uso in quei tempi e, anche se è stato per un po’ fuori moda, ora pare ritornato in auge.

Il tessuto del vestito era de mèda lana, cioè de lana e bavèa (lana e bavella), aveva durata lunghissima ed era piuttosto pesante e rustico.

L’uomo indossava pure le mutande lunghe, di cotone bianco, con le fettucce da legare al collo del piede. Portava le camicie di canapa, un tessuto rigido, ruvido o, come si diceva, rùspego; le maglie di lana, i calzetti di lana o di cotone, sempre di confezione casalinga, completavano l’abbigliamento dell’uomo.

Certi giovani, anche d’inverno, giravano in spadìna, cioè senza giacca, sfidando il freddo.

Nella stagione rigida, gli uomini, secondo le possibilità economiche, usavano il tabarro, quasi sempre di panno molto consistente e confezionato a ruota intera, talora con il collo di pelo. Tale indumento veniva indossato con palese sussiego allorché si recavano alle funzioni sacre o per indispensabili puntate a Tréviso. Costoso com’era, questo indumento veniva trattato con il massimo rispetto e quindi aveva una durata lunghissima. Analogamente dicesi per il copricapo; durante il lavoro bastava un cappello vecchio, in estate normalmente di paglia. Quello da festa era oggetto di particolare riguardo, neanche a dirlo.

Normalmente gli adulti disponevano d’un vestito festivo detto anche da messa granda o da messa cantàda; vigeva così una netta distinzione dei giorni festivi dai giorni didòpara, cioè feriali.

Le donne adulte indossavano le gonne lunghe e larghe ed el corpéto (blusa di stoffa), talvolta con le maneghe a sbafo (maniche a sboffo) lunghe sino ai polsi. Sotto portavano una camicia de cànevo (di canapa) e la cotolà de soto (sottoveste) di tela ruvida e colorata. Le adulte si coprivano il capo con un grande fazzoletto nero, annodato dietro la nuca. Raramente esibivano il capo scoperto, non essendo ciò un atteggiamento ritenuto serio. Altro indumento era il fassoetòn (scialle grande), di lana pesante in inverno e di cotone nella stagione estiva. In ogni caso aveva le franze (frangie) lunghe e veniva indossato per recarsi in chiesa od a Treviso.

Per casa, d’inverno, per proteggere le spalle, usavano un piccolo scialle di lana confezionato a mano, variamente lavorato, detto tabarin.

Veniamo ora alle calzature.

Ai bambini bastavano le papùsse (pantofole) confezionate con stoffa vecchia, con le tomaie di velluto o di tela ruvida. Per la loro esecuzione si occupavano le nonne con paziente lavoro.

Nella stagione fredda i ragazzi e gli adulti calzavano le galòsse comuni, le galòsse del corno od i sòcoi (zoccoli), tutte calzature di legno con la tomaia di cuoio robusto.

Per aumentare la durata delle medesime vi si applicavano sotto la base di legno delle strisce di cuoio vecchio o dei lamierini bene inchiodati, soprattutto per i figlioli con le gambe mate. Il giorno in cui i ragazzi indossavano le galòsse nuove era palesemente occasione di’ festa.

Normalmente però, nella buona stagione, e perciò, per parecchi mesi, i ragazzi camminavano scalzi tutto il giorno. Anche per recarsi nei campi, a scuola ed in chiesa, per il catechismo o per confessarsi: dai primi di marzo alla fine del mese di settembre i piedi rimanevano nudi. Vi era infatti il detto: De marso ogni mato và descaho (Di marzo ogni matto va scalzo).

D’inverno, le maestre, sensibili al rumore delle galòsse, facevano levare tali calzature agli alunni, che le mettevano di fianco o sotto il banco, per rimanere con le sole calze, cioè de scapineè.

Le scarpe servivano quasi unicamente agli adulti, per partecipare alle funzioni in chiesa o per recarsi a Treviso.

Comunemente le donne usavano le moéteLe moéte, cioè le ciabatte di cuoio., mentre le scarpe per loro giunsero con molto ritardo.

Le moéte venivano portate con parsimonia e tenute con cura. La parola risparmio, o sparagnar, era sempre tenuta presente, in quanto risparmiare nei vestiti e nelle calzature costituiva un fattore importante per l’economia delle povere famiglie.


Note:

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