Dal Diario Di Guerra Di Giuseppe Santon

Documentazione

La Strafexpedition

“Strafexpedition”, traduzione in tedesco di “spedizione punitiva”. In tedesco la battaglia è individuata come Frühjahrsoffensive (ossia Offensiva di primavera ) o Südtiroloffensive (all’epoca il Trentino si chiamava Welschsüdtirol ovvero “Tirolo meridionale”).

Durante la battaglia le perdite tra i due eserciti ammontarono a 230.545 uomini.

Già da tempo gli Imperi Centrali propugnavano l’idea di un’offensiva condotta a fondo sul suolo italiano che colpisse letalmente l’ex-alleato, reo di avere tradito la Triplice Alleanza, per questo era stata attentamente esplorata la frontiera con l’Italia per studi, ancora teorici, sulla possibilità di una guerra d’invasione.

Nei mesi precedenti l’offensiva, in Tirolo vengono accumulati mezzi e armamenti, ma non è un’impresa facile: il 15 marzo 1916 una slavina di terra, neve e fango travolge una colonna militare su una delle direttrici più affollate per l’afflusso al fronte, il passo della Fricca (che collega Trento a Folgaria) e gran parte del traffico pesante, già aggravato dalle diverse deviazioni che deve fare per non destare sospetti negli osservatori italiani, deve essere deviato lungo arterie alternative più vicine al fronte e quindi più esposte.

Gran parte dei Cacciatori imperiali (le truppe da montagna dell’Austria-Ungheria, corrispondenti agli Alpini italiani) arriva in Trentino per ultima e gradualmente, mentre il grosso dei materiali è già stato spostato; eppure, soprattutto a causa degli smottamenti e dei problemi logistici, l’offensiva non può avere luogo in aprile come previsto. La data d’inizio viene fissata così al 15 maggio, sperando nel miglioramento meteorologico e in una stabilizzazione del fronte balcanico.

Su un piano strategico, la data del 15 maggio è perfetta, soprattutto perché l’Isonzo vive qualche settimana di relativa calma, con piccole schermaglie.

Il tempo consente di stare relativamente bene anche in alta montagna e la sistemazione delle vie di accesso consente di spostare da altri fronti alcuni pezzi di grosso calibro, di fatto concepiti come cannoni da marina (381 e 420 mm) e capaci di fare danni tremendi sull’obiettivo.

Il generale Guglielmo Pecori Giraldi convinto dell’attacco – ma sottovalutandolo, non credendo che due intere armate austro-ungariche si schierino in Valsugana e in Val Lagarina, né che l’attacco possa avvenire attraverso i massicci montuosi, ordina alla 15ª divisione di farsi avanti tra Borgo Valsugana e Levico, spostando il fronte in una zona pericolosamente esposta e difficilmente difendibile.

Il 15 maggio, le truppe italiane si fanno così trovare in capisaldi troppo avanzati. Nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1916 l’artiglieria austro-ungarica comincia un bombardamento a tappeto (tecnica finora mai utilizzata sul fronte italiano) sulle linee nemiche, che di fatto coglie impreparati molti comandi locali.

L’artiglieria italiana, meno della metà di quella austriaca e relativamente inferiore nella potenza, non reagisce, avendo ricevuto in molte zone l’ordine di non fare nulla, a meno di contrordini diretti, da parte del Comando Supremo. Le fanterie italiane, pressate e di fatto private delle proprie difese dai grossi calibri avversari, non arretrano un po’ per ostinazione e un po’ per mancanza di una diretta coordinazione che renda il ripiegamento organico.

Le prime fasi dell’attacco austro-ungarico, dunque, non possono che essere coronate da successo: l’Undicesima e la Terza Armata austro-ungariche attaccano su un fronte lungo 70 km, concentrando il proprio attacco lungo le grandi valli di sbocco al Veneto.

In Valsugana gli italiani sono respinti dal XVII Corpo d’armata austro-ungarico fino a Ospedaletto, che diventa una città fortificata e dove il fronte si stabilizza dopo diversi giorni.

Dalla Val Lagarina il VIII Corpo d’armata dilaga prendendo le posizioni della Zugna Torta, Pozzacchio e Col Santo, ma la resistenza italiana tiene sul Coni Zugna, sul Pasubio e sul Passo Buole (dai 10 ai 15 km più indietro); quest’ultimo passerà poi alla storia come le Termopili d’Italia.

La XXXV Divisione italiana è una delle più colpite dall’attacco nemico: pur controllando solo 6 km di fronte, si abbatte sui suoi uomini il fuoco di più di 300 pezzi (di cui un’ottantina di medio calibro e una trentina di grosso calibro), seguite dal poderoso attacco del XX Corpo d’armata austro-ungarico dell’arciduca Carlo.

La notizia delle vittorie austro-ungariche semina panico tra gli alti comandi italiani, e Cadorna ordina la mobilitazione delle ultime leve, assieme alla creazione di una 5ª Armata che si dispone tra Vicenza e Treviso al comando del generale Frugoni.


Per prendere parte alla difesa del Paese arrivano uomini da tutta Italia; sono coinvolti anche 120 battaglioni già impegnati sull’intero fronte isontino, spostati con una complessa e magistrale operazione logistica che coinvolge l’intero Veneto settentrionale.

Vengono allestite sette divisioni di riserva, di cui una composta di uomini rimpatriati in tutta fretta dall’Albania e dalla Libia.

L’altopiano di Asiago diventa teatro di combattimenti asperrimi, poiché manca di appoggio sulla destra, vista l’evacuazione verso Ospedaletto.

Su 5 km di fronte aprono il fuoco più di duecento pezzi d’artiglieria, di cui venti di grosso calibro.

Il III Corpo austro-ungarico sorpassa le difese italiane anche grazie al terreno in gran parte nevoso (gli italiani non trovano appigli per muoversi, e restano indietro rispetto agli invasori, finendone prigionieri), e occupa Arsiero, zona più avanzata di conquista, e Asiago tra il 27 e il 28 maggio; la resistenza, ridotta all’orlo meridionale della conca di Asiago, non riesce a impedire la caduta di Gallio, prospettando agli Austro-Ungarici uno sbocco sull’alta pianura vicentina.

Il forte Corbin, pur non essendo operativo (la presenza di cannoni era solo simulata), viene fatto saltare per non lasciare la struttura in mani Austro-Ungariche.

Cadorna a questo punto agisce in modo preciso: prepara un accurato piano di ripiegamento delle unità isolate e sbandate, sostituisce, attraverso continue e puntigliose ispezioni, quei comandanti che manifestano evidenti segni di cedimento o depressione, evita il panico quando gli Austro-Ungarici, premendo in modo tremendo dalla val di Posina all’Altipiano dei Sette Comuni, prendono il Monte Cengio.


Il 2 giugno viene ordinata la controffensiva: la 1ª Armata del generale Pecori Giraldi avanza nell’altopiano d’Asiago, dove le linee di rifornimento austro- ungariche non raggiungono più le prime linee proprio a causa della formidabile avanzata delle due settimane precedenti.

Il disegno di Cadorna è quello di aprire il fronte al centro, sugli altipiani, e aggirare le forti compagini laterali in Valsugana e Val Lagarina. Gli Austro-Ungarici però tengono bene, anche grazie a un fronte d’attacco che si fa sempre più stretto e alla solita, cronica mancanza di artiglierie da parte italiana.

Il 4 giugno dalla Russia parte un’offensiva su larga scala che sovrasta le sguarnite linee austro-ungariche, prive di qualunque rimpiazzo da parte tedesca. Il rapido e precoce ripiegamento delle linee austro-ungariche richiede l’appoggio e l’intervento di rinforzi, che possono confluire solo dal Tirolo.

L’avanzata italiana, costante pur nella sua lentezza, minaccia i capisaldi laterali e, per evitare ulteriori perdite di uomini e mezzi, il 15 giugno il generale Hötzendorf ordina il ripiegamento su basi prestabilite e già pronte.

Approfittando di un rallentamento dell’avanzata italiana, attardata dalla mancata copertura di artiglierie da montagna, il 25 l’arciduca Eugenio, dalla sede di Campo Gallina, ordina la rottura del contatto, attestandosi sulla linea: Zugna, monte Pasubio, monte Majo, val Posina, monte Cimone, val d’Astico, val d’Assa fino a Roana, monte Mosciagh, Monte Zebio, monte Colombara e Ortigara.

Gran parte delle nuove linee – tranne rare eccezioni – sono a una manciata di chilometri davanti a quelle prima della battaglia.

Il 27 il generale Pecori Giraldi interrompe qualunque azione controffensiva, essendo evidente il bisogno di un riordinamento operativo e organizzativo delle linee italiane.

L’alto numero di perdite su entrambi i fronti, 230.545 uomini, nonché il furore di alcuni scontri, determinano l’avvio di una serie di considerazioni tattiche, strategiche e politiche.

Tatticamente, è ormai consolidato l’uso di massicci sbarramenti di artiglieria per colpire le difese e sconquassare le compagini avversarie.

Eppure, queste straordinarie battaglie di materiale stanno dando, come a Verdun, risultati molto scarsi e strategicamente le perdite lasciano il segno.

In Italia, si diffonde la psicosi dell’invasione da parte degli Austro-Ungarici, i quali, come provato da questa battaglia, si sono mostrati capaci di sconvolgere le aspettative dei comandi italiani: se era stato necessario mobilitare uomini da tutto il Paese per fermare l’avanzata nemica, era ovvio che i comandi militari avevano appena concluso un periodo di eccezionali sottovalutazioni di chi stava dall’altra parte del fronte.

Ne sia a riprova la disposizione delle forze italiane lungo la frontiera del Tirolo, sulla quale si collocano 400.000 soldati e lo sforzo per mantenerli che metterà a dura prova le capacità logistiche dello staff generale italiano. Benché il disastro sia stato quasi miracolosamente evitato, la Strafexpedition provoca una grave crisi politica.

A livello popolare, desta grande scalpore la morte o la cattura (e la conseguente esecuzione) di alcuni tra i più illustri e conosciuti personaggi dell’irredentismo italiano, quali Fabio Filzi, Damiano Chiesa, Cesare Battisti, Nazario Sauro, ed anche quella di Enrico Toti.

La vita e la morte di questi personaggi guideranno, in Italia, molte delle campagne d’arruolamento e molta parte della letteratura propagandistica del periodo.