Ponzano : Note Storiche

PERSONE DA RICORDARE

Premessa

Molte persone, nel passato remoto e recente, hanno benemeritato nella nostra frazione e nel nostro comune. Alcune di esse ormai vivono nella nostra memoria. Nel dover scegliere qualcuna di queste figure si è corso, senza dubbio, il rischio di indulgere ad una preferenza. Il criterio è stato di ricordare un po’ tutte le categorie di persone. Solo per questo motivo i brevi profili che seguono prendono in considerazione cinque nostri concittadini: un medico, un artista, uno studioso, un operaio, una casalinga.

Il dr. Ernesto Castaldo (1897-1969)

image Il dr. Ernesto Gastaldo nella trattoria del sig. Remo Pivato. Si conoscono sul fondo (da sn. a dx.) i sigg. Ettore Pretotto, Luigi Biscaro, dr. Ernesto Gastaldo, Remo Pivato (in piedi), Domenico Tasca, cav. Giacomo Dalla Toffola. Dalla sinistra in primo piano: i sigg. Luigi Pavan, Emilio Dal Col e Francesco Coppe.

La sera del 18 luglio 1969 vedeva stroncata, sull’asfalto, la vita del medico condotto di Ponzano, ormai in pensione, il dottor Ernesto Castaldo, figura nobilissima di uomo e di professionista. Il fatto suscitò un’impressione, la cui eco è rimasta. Con lui si spegneva qualche giorno dopo la moglie, la sig.ra Maria Miatello, che stava nella stessa auto. Rincasavano con i nipotini Chiara e Luca da una serena passeggiata a Tre Porti (Venezia).

Era nato a Selva il 9 gennaio 1897. Aveva studiato presso i Redentoristi e poi aveva proseguito gli studi universitari, interrotti dalla guerra, nella facoltà di medicina. Giovane laureato, solo casualmente non continuò la carriera universitaria, nella quale avrebbe potuto affermarsi brillantemente. Era dotato di intuito ed intelligenza straordinari e di una profonda ricchezza umana. Preferì invece uncampo dilavoro umile e nascosto: lacura dei malati in un paese di campagna. Si pose risolutamente all’opera, d’estate e d’inverno, con il caldo econ il freddo, a piedi o in bicicletta, in motociclo od in una sgangherata automobile (qualche volta si trovò in mezzo ad un campo o nel fossato!). Il suo correre significava servire, elargire doni, talenti ed una parola di coraggio. Nel campo professionale si era andato specializzando nel settore della ortopedia e della ginecologia. Ottenne dei brevetti e restano di lui estratti di pubblicazioni che evidenziano queste sue qualitàPubblicazioni del dr. E. Gastaldo: “Di un nuovo apparecchio per la cura delle lesioni scheletriche degli arti inferiori”. Treviso 1935. “Crollo: considerazioni sull’uso dell’apparecchio meccanico nella cura incruenta della lussazione congenita dell’anca in sostituzione degli apparecchi gessali, del dr. Gastaldo Treviso 1936. “Nuovo metodo e strumento per facilitare il parto (speculum tocacetabolo”. Minerva medica 1951..

Se le sue invenzioni non ebbero quella affermazione che avrebbero meritato dipese anche da mancanza di mezzi, ai quali il nostro dottore mai si sentì legato. Lavorò in collaborazione con quella donna di grandi meriti che fu Caterina Galvan, levatrice comunale, presidente delle ostetriche cattoliche e poi del collegio provinciale delle ostetriche. Il Gastaldo e la Galvan, sul piano professionale, costituirono per lunghi anni un tandem invidiabile. Erano assai rari i bambini che nascevano in ospedale in quei tempi.

Chi può contare i parti difficili cui intervenne il nostro dottore? Aveva episodi ed episodi da raccontare in proposito. Provvide alla nascita, molto ardua, d’un bambino: ebbe come ricompensa una mezza sporta di patate dolci; tale era il suo cuore.

Il dr. Gastaldo non fu mai meschino: sempre eretto nella sua dignità di uomo e di medico con i poveri e con i ricchi; temprato ad una vita dura e disciplinata, non fu certamente servo del vestito, della macchina o di una comodità. Non tutti comprendevano i criteri che guidavano la sua opera professionale. Ad esempio prescriveva poche medicine. I farmacistia volte potevano lamentarsi di questo. Molti ancor oggi sono invita, perchè il loro medico seppe limitare quelle medicine che male usate diventano tossiche e letali. Godeva di notevole stima. I medici cattolici della provincia, compresi diversi primari dell’ospedale di Treviso, per diversi anni lo vollero loro presidente. In tale veste partecipò al congresso di Londra del 1962.

La ricchezza della sua personalità si apriva ad ogni cosa bella e buona, con animo semplice e gioviale: un buon cibo (il pesce per esempio!), una passeggiata serena, un buon libro (vecchio se possibile), il suo caro Montello, un oggetto d’arte, un mobile usato: di tutto prendeva interesse e gusto. Quale la radice di questa ricca umanità? Una fede religiosa molto profonda. Senza essere bigotto era molto fedele alla messa, combattè con altri amici delle battaglie pacifiche per dimostrare che Dio esiste, che la Madonna è la mamma dei cristiani, che la Chiesa è la nostra grande famiglia. Tutti sanno del pellegrinaggio che compì a Lourdes, in bicicletta con la figlia Anna Maria neo-licenziata dal liceo classico, e con gli amici sigg. ZaroEra diventata proverbiale la confessione che il dr. Gastaldo fece a Lourdes, dopo 1800 Km. di bicicletta. Il confessore, al coraggioso pellegrino, diede come penitenza la recita di tre rosari!.

A Lourdes tornò una seconda volta con la moglie nel 1962 e sembra ottenesse una grazia che molto gli stava a cuore. Arguto e pieno di aneddoti vissuti, tante volte, chi scrive, gli ripeteva: “Caro dottore butti giù un libro di ricordi!”. Non penso abbia dato retta a questo suggerimento, ma ora potremmo possedere una miniera di notizie, un vero romanzo d’avventure. Fu imparziale in tempo di guerra e soccorse, a rischio della vita, persone che i “repubblichini” cercavano a morte. Ospitò in casa alcune riunioni del comitato di liberazione nazionale, ancora nella clandestinità, prima che le riunioni avvenissero presso la casa Toffoletto. Un’ultima cosa serve dire: la sua predilezione per il monastero delle Corti. La gente che ci passa accanto, non sa che ci vivono cinquanta claustrali in povertà e preghiera. Ebbene: il dr. Gastaldo con cura quotidiana e amorevole prestò per trent’anni gratuitamente le cure mediche a quelle suore. Esse giustamente, per bocca della loro superiora, potevano dire di non aver perduto un medico capace, ma un amico ed un padre. Lo stesso giudizio è nostro. Il comune di Ponzano ha dedicato una via al suo nome.

Il baritono Piero Biasini (1899-1973)

Piero Biasini proveniva da Venezia; vi era nato il 6 ottobre 1899 da Francesco e Maria Girello. Si trasferì a Ponzano nel 1937, dopo aver acquistato nella quiete della campagna trevigiana una casa ottocentesca ed un podere; viveva una vita ritirata. Era diventato un agente di commercio, dopo aver trascorso una vita da protagonista sulle scene teatrali. Forse è sconosciuto ai più giovani: agli amanti della lirica Piero Biasini, baritono, ricorda memorabili interpretazioni.

Dopo la recita del “Cristoforo Colombo” del Franchetti, lo stesso autore ebbe ad elogiarlo in una lettera che diceva: “Il protagonista ha trovato effetti da me impensati, che mi hanno prodotto una impressione indimenticabile”.

Aveva lasciato l’arte dal 1955, per una lieve imperfezione alla voce. Non si sa quanto gli fosse costata quella rinuncia. Tutte le grandi opere di Verdi, Rossini, Bellini, Donizetti, Gounod, erano state da lui vissute e sofferte nei grandi teatri d’Europa e d’America. Aveva lavorato con Toscanini e Strauss, con Pertile e Gigli. Si era fatto tanti amici. Nel suo animo erano presenti, come sulle pareti della sua casa, le figure di Rigoletto e di Colombo, di Jago e Germont, e di tanti altri personaggi.

In una intervistaArticolo stampato su “La vita del popolo”. 1973., a chi gli chiedeva se conservasse nostalgia per la lirica, potè esclamare: “Ma le pare? Qui è tutto armonia, con il ricordo sempre bello di tutti i compagni artisti, di tutti! dal più celebre a quello che ci toglieva in palcoscenico la polvere; tutti cari compagni, ad ognuno dei quali sarò sempre grato”.

Aveva un parlare calmo. Chi scrive, ricorda una sua descrizione del viaggio di Cristo al Calvario: era una cosa strana, udire da lui, sempre vissuto nel mondo dell’arte, con toni di voce densi di sfumature, una scena che sembrava vivesse nella sua carne, tanto era calda e lirica la descrizione.

Nella citata intervista parlò di Toscanini e della sua grandezza, dei colleghi d’arte, degli scenografi e dei costumisti. Il giornalista commentava: “Anoi profani squadernò un mondo sconosciuto noto solo a chiazze, quelle più vivide. Invece la fatica dell’allestimento di un’opera, le prove, le notti passate a studiare copioni fanno parte di una lirica ignota al grosso pubblico”. Il Biasini confidava: “Mi conforta riandare, uno alla volta, in tutti quei teatri nelle bellissime stagioni d’opera, fra le più importanti del mondo, con complessi artistici d’eccezione; e mi consolo infine pensando che fra tanti bravi, fors’ero bravino anch’io”. Si preparava a casa il costume: collare di pizzo, cascate, cintura nera di cuoio, scarpe di vernice, calze nere, parrucca bianca del’700, spada, ecc. Questo formava il “basso vestiario”, come i lirici in gergo lo chiamano. Piero si dilettava anche di disegnare: un Falstaff come lui lo immaginava, od un Andrea Chénier e così via. Il suo repertorio era vastissimo: 189 opere! Un ricordo conservava sopra tutti: Salisburgo. Teneva più ad essere considerato un interprete che un cantante: una sfumatura che ai profani dice poco. Le parti le affrontava non da dilettante o da romantico, ma le studiava come meritavano; per questo era considerato un artista di cui ci si poteva fidare.

Nei ricordi che riguardano l’inizio della sua carriera si nota una forza d’animo ed un amore che non tutti avrebbero posseduto. “Come ha avuto iniziola sua carriera?”. “È stato un po’ difficile. Ero impiegato in ferrovia, a Venezia. Dovevo lavorare per vivere; ma la mia grande passione era sempre il teatro. Ho avuto la possibilità, alla fine, con l’aiuto di alcune persone, di frequentare, oltre il lavoro, il conservatorio Benedetto Marcello. Studiavo con entusiasmo e freneticamente: sono riuscito così in poco tempo a recuperare gli anni perduti. Dopo un provino con il violinista Remy Principe, fui scritturato per la prima volta per il Politeama di Napoli, nel 1925. Cantai la Bohème di Puccini. Da allora, fino al ‘55, ho cantato sui palcoscenici d’Europa e d’America”.

image Il baritono Piero Biasini accanto ad Arturo Toscanini (che legge il giornale) e il basso Antori (di spalla): 1936.
image Piero Biasini nelle vesti di Jago in “Otello” del Verdi: Teatro della Scala, 1945.

 
Dovette sottostare a quello che chiamava “un gioco disonesto, alla mercè di sfruttatori: il mercato degli ingaggi, le paghe da fame, e una sottomissione (per i principianti) che era l’unica via per arrivare ad avere quanto bastava per vivere”. Questi motivi lo inducevano a non parlare volentieri di quel mondo; gli costava troppi ricordi amari e dolorosi. Diceva “Gli artisti soldi ne fanno pochi, chi ne fa, purtroppo è talvolta rovinato dal vizio del gioco; certi aspetti del teatro sono desolanti”. Il suo amore alla famiglia era grande, talora contraddittorio, come avviene in persone troppo forti e sensibili quali sono gli artisti.

Le sue dichiarazioni sono un monito, anche perchè riportano note di fede cristiana mai spenta nel suo cuore. “Io amo la famiglia e penso con disperazione che oggi manca la famiglia. Per me è la famiglia che ha significato. Nel mondo attuale molte cose cambiano; e sembra che Dio ci abbandoni; invece siamo noi che abbandoniamo Dio; e ci sentiamo a disagio. Anche se non lo ammettiamo; che cos’è tutto questo correre, questa attività frenetica che c’è nella vita attuale se non un tentativo di riempire il vuoto lasciato da un Dio che abbiamo abbandonato?”.

Grande gioia gli aveva procurato l’invito dell’“organizzazione italiana degli artisti lirici” a far parte dell’“album nazionale”. Non fu estraneo forse questo affettuoso ricordo degli amici a deciderlo a legare parte del suo patrimonio alla “Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi”, di Milano. Si spense a Treviso il 3.5.1973. Aveva sposato Lydia Boschler, che conobbe come prima ballerina della Scala. Il suo ricordo è dolce e grato per tanti amici che lo conobbero.

Milo Burlini (1892-1977) studioso

text  MILO BURLINI (n. Padova 24.10.1892 - m. Ponzano 5.6.1977). Giovanissimo si dedica alle arti plastiche, modella diversi busti e un medaglione di Carlo Linneo, che mette sulla facciata interna della casa. La passione per la natura lo rende abilissimo ‘taxiderma’ e prepara, per l’amico Giuseppe Scarpa, le ricche collezioni che oggi si conservano nel Museo del Seminario Vescovile di Treviso. Come entomologo colleziona decine di migliaia di coleotteri, sopratutto criptocefalini (una tribù di crisomelidi), ma anche imenotteri e addirittura isopodi. Ha dato il nome a ca. 20 specie e sottospecie di coleotteri.

Della presenza delle persone ci si accorge, per tragica ironia, quando non sono più. La morte di Milo Burlini ciha messo di fronte alla sua opera di studioso. Era un entomologo, uno studioso di insetti. Aveva una predilezione peri coleotteri, di cui possedeva una raccolta di circa 100 mila unità.

I più giovani hanno il ricordo di quella magra figura caratterizzata da un pizzo brizzolato. Come molti uomini di scienza, era schivo e chiuso nel proprio universo scientifico. Egli ha trascorso la vita a ricercare una conoscenza sempre più approfondita del mondo degli insetti. Per coloro che non conoscevano direttamente il suo operato passava per “l’uomo che imbalsamava qualche animale”. Della scienza del mondo dei coleotteriColeotteri: ordine di insetti ricoperti di una cuticola molto dura con due paia di ali, di cui quelle superiori rigide e quelle inferiori membranose ed atte al volo; volgarmente si chiamano scarpanze, maggiolini, cervi volanti, coccinelle scarabei, ecc. aveva la devozione e l’amore di chi ha speso gli anni nello studio delle meraviglie della natura.

Racconta un giornalistaArticolo non pubblicato. Arch. parr. di Ponzano.: “Ricordo che misi piede soltanto una volta in casa sua; per caso e per necessità. Un mio amico doveva far imbalsamare una civetta; era una civetta giovane, trovata morta. In quella casa, dove tutto aveva il sapore della ricerca e della sobrietà, il vecchio entomologo ci disse, con un lampo che traspariva da dietro gli occhiali, il nome scientifico dell’uccello: Minerva noctua. E poia spiegarci perchè gli studiosi avevano classificato la civetta, calunniatissimo uccello delle tenebre, con il nome di Minerva, di cui era il simbolo sacro”.

Pubblicazioni di Milo Burlini

                       
1 Secondo contributo alla maggiore conoscenza della distribuzione geografica dei coleotteri in Italia - 2.6.42
2 Rettifiche alla nota (come sopra) - 20.10.42
3 Nuove forme di coleotteri italiani - 31.12.46
4 Terzo contributo alla maggiore conoscenza della distribuzione geografica dei co- leotteri in Italia -10.7.47
5 Nuove specie di cryptocephalus italiani (coleoptera chrysomelidae) -15.10.48
6 Infestione di “oxycarenus lavaterae F. su tilia americana L.” (Rhinchota Lygacidae) 12.4.498
7 Una nuova specie di cryptocephalus italiano (Coleoptera: chrysomelidae)-20.9.50
8 Una nuova specie di cryptocephalus italiano: cryptocephalus lostiai - 7.7.51
9 Un nuovo stylosomus asiatico - 20.4.57
10Note su alcuni “pachybrachus” appenninici e descrizione di una nuova razza - 31.12.59
11 Ricerche sui cryptocephalus dell’Africa settentrionale (stampato in spagnolo su “EOS”) - Madrid - 30.6.60
12 Contributo alla conoscenza dei cryptocephalus - 25.6.61
13 Nuove forme di cryptocephalus paleartici appartenenti al Museo Nazionale di Sto- ria Naturale di Budapest - Tomus 54 - 1962
14Due note sui cryptocephalus - Budapest N. 6 - 1963
15 Nota ecologica suH’“otiorrhynchus (dorymerus) burlimi solari” - 21.6.63
16 Contributo alla conoscenza dei crytocephalini paleartici (pachybrachys lindergi N. SR della penisola iberica) - 20.12.63
17 Sulla variabilità morfologica del fallo in cryptocephalus labiatus L. - 20.12.63
18 Nota sul pachybrachys siculus Weise - 31.12.63
19 Nota su cryptocephalus luridicollis suffr.e cryptocephalus cisti pie - 21.2.64
20 Corylus avellana pianta ospite di cryptocephalus parvulus Muli - 22.6.64
21 Il contributo alla conoscenza dei cryptocephalini paleartici Cryptocephalus espandi, N . SR, della penisola iberica 22.2.65
22 Addenda alla revisione dei cryptocephalus - 20.10.67
23 Miscellanea coleotterologica - 20.2.58
24 Aggiunte e correzioni alla “revisione dei cryptocephalus italiani” - 25.10.58
25 Revisione delle specie italiane e della maggior parte delle specie europee del ge- nere “pachybrachis chevr.” - 30.12.68
26 Cryptocephalus fulvus goeze subsp. schatzmayri nova - 20.6.69
27 Cryptocephalus subgen. cryptodontus n. cryptoc. subgen. cerodens n. nov. e Ta- bella dei sottogeneri di cryptocephalus - 30.12.69
28 Una nuova sottospecie nord africana del cryptocephalus pygmaeus F. e note sul cryptocephalus (Cerodens Buri.) Emiliae Buri. -20.2.70 Tutte queste pubblicazioni si trovano in arch. parr. di Ponzano. Altre pubblicazioni, forse 12, non sono state reperitee

Era nato a Padova (S. Giustina) il 24 ottobre 1892. Terminato il liceo classico, forse perchè cagionevole di salute, non proseguì gli studi. Ancora molto giovane si trasferì a Ponzano presso gli zii Maggion, di cui divenne erede. Si dilettava di plasmare con la creta e tra gli altri bassorilievi così ottenuti aveva caro un Linneo posto all’entrata della casa Carlo Linneo (1707-1778), naturalista svedese, che classificò piante e animali, per genere e specie, in latino. . Sposò la sig.ra Carlotta Craller ed ebbe un figlio morto ancora infante. Lavoratore paziente, meticoloso, ordinatissimo, divenne un esperto di fama internazionale per lo studio dei coleotteri dell’emisfero settentrionale: dall’Africa del nord al nord-Europa, dalla Cina all’America.

Come collezionista lavorò per moltissime università: Pechino, Mosca, Varsavia, Budapest, Vienna, Milano, Madrid ecc. I suoi contatti con i più grossi nomi dell’entomologia erano quotidiani. Riceveva intere scatole di coleotteri, li ordinava e li rispediva alle università di provenienza; tratteneva per la sua collezione una parte di questi animaletti, come era nel costume e nella convenzione. In questo studio meticoloso fece le sue scoperte: forse una ventina di nuove specie o sottospecie cui legò il suo nome o il nome di amici, come ad esempio l”‘ottiorinchus burlini”, il “pachibrachus salfii burlini”, il “rufoi burlini”. In morte, avvenuta il 6 giugno 1977, confortato dai carismi della fede, legò la sua ricchissima collezione di coleotteri al Museo di storia naturale di Verona. Amante della natura, ebbe un grande merito: fu modesto.


Torresan Giuseppe (1927-1965) operaio

image Giuseppe Torresan, operaio metalmeccanico, 1°a destra.


Un gesto quasi unico di solidarietà nel lavoro ha lasciato Giuseppe Torresan di anni 38. Era nato a Ponzano in via Chiesa il 15 gennaio 1927 e risiedeva a Merlengo.

Per salvare un compagno investito da una fiammata, riportò ustioni gravissime in tutto il corpo e dopo 55 giorni di dolori indicibili si spense all’ospedale di Treviso il 18 agosto 1965.

Da circa un anno infatti, il Torresan, padre di due bambine rispettivamente di 7 e 3 anni, era stato assunto come carpentiere metallurgico dalla ditta Belelli di Mantova e addetto al montaggio delle caldaie nei cantieri dell’Italsider a Taranto. Per la sua serietà e per l’attaccamento al lavoro era tenuto molto in considerazione dai superiori e dai compagni. La lontananza da casa gli pesava un po’, ma alla fine di giugno avrebbe dovuto tornare in famiglia.

Fu proprio nella settimana precedente il congedo che successe la disgra- zia e precisamente il 24 giugno. Verso le 21,30 di quella sera, Giuseppe Torresan si trovava ancora in cantiere per del lavoro straordinario: poco discosto da lui un suo compagno, il calabrese Leonardo Andastro di 36 anni, padre di 5 figli, munito di una torcia elettrica stava pulendo un forno. Improvvisamente — pare che la torcia caduta di mano all’operaio calabrese abbia provocato una scintilla — i residui di gas rimasti nel forno si incendiarono e la fiammata investì in pieno l’Andastro.

Richiamato dalle grida del compagno, trasformato in una torcia umana, il Torresan non ebbe alcuna esitazione e, gettandosi tra le fiamme riusciva ad estrarre dal rogo l’infortunato. Purtroppo, anch’egli, come il calabrese riportava gravi ustioni in tutto il corpo.

image Giuseppe Torresan (a sinistra).

Del grave infortunio si resero immediatamente conto anche altri operai richiamati dalle grida di soccorso i quali iniziarono subito l’opera di spegnimento con gli estintori e si dedicarono a soccorrere l’Andastro. Soltanto in un secondo tempo i soccorritori si accorsero che le vittime erano due e che il Torresan stava ancora bruciando.

I due infortunati furono immediatamente trasportati all’ospedale civile di Santa Maria Ausiliatrice di Taranto, dove ad entrambi vennero riscontrate ustioni di terzo grado. Per 48 ore il Torresan giacque in gravissimo pericolo di vita, ma poi sembrò migliorare. Dopo 26 giorni di degenza all’ospedale di Taranto, l’eroico operaio veniva trasportato in aereo a Treviso per essere ricoverato al nosocomio cittadino di San Leonardo.

Le sue condizioni andarono aggravandosi. Ebbe una serenità e una fortezza d’animo ammirevoli. Trovò la forza di offrire a Dio i suoi dolori, ricevette quotidianamente l’Eucaristia. Assistito amorevolmente dalla sposa, dai genitori, dai suoi cari e da tanti amici, lasciava un ricordo indicibile per la gratuità e la grandezza del suo gesto.

Era stato proposto per la medaglia d’oro al valore civile “alla memoria” presso la Presidenza della Repubblica”. Senza dubbio è giusto sia ricordato da noi che viviamo tra odii e sopraffazioni. Una strada, un edificio dedicati a Giuseppe Torresan potrebbero ricordare la magnanimità del suo gesto e di quanto amore fu capace questo uomo buono.


Giovanna Rossi (1899-1974) casalinga

imageNea Rossi (ultima a destra) con le sue “fiamme bianche rosse verdi”, cioè i fanciulli di Azione Cattolica, in una gita a Nervesa nel settembre 1938.

 

Il 16 giugno 1974 la nostra comunità piangeva la scomparsa di una persona umile e trasparente: Giovanna Rossi. In questa sorella di fede si è realizzato un grande dono, “l’ispirazione a pensare ed a fare ciò che è giusto”; era lo spirito ciò che in Giovanna contava. Se sembra pericoloso usare espressioni o confronti atti ad esprimere la realtà di una vita tutta consacrata alla gloria di Dio e del prossimo, si può ugualmente affermare che Giovanna nella nostra comunità si è manifestata come un modello per vari aspetti.

È passata in mezzo a noi senza conoscere il male, consacrandosi coscientemente e liberamente a Cristo con tanto maggior merito in quanto seppe vivere nel mondo come in un chiostro, senza goderne la difese. Ebbe una vita offerta al servizio del prossimo, per i gesti continui di dedizione ai vicini ed a quanti ricorrevano alla sua assistenza, per l’apostolato cristiano profuso nella parrocchia, senza clamore, nell’azione cattolica, in mezzo ai fanciulli, “le sue fiamme”, di cui fu delegata, per generazioni intere di ragazzetti ora uomini maturi e padri di famiglia. Era paziente: dalle sue labbra non si poteva capire se soffriva, perchè non voleva essere di peso, non voleva dare preoccupazione agli altri.

Nei sette mesi di durissima malattia non emise un lamento; accolse la sofferenza come un dono di Dio: sua unica brama, quasi impaziente, era l’attesa dell’Eucarestia dalle mani del sacerdote. Visse di pietà, dato che la pietà era la forza interiore di tutto il suo vivere; la sua presenza in chiesa era pia e raccolta, nelle domeniche e nei giorni feriali, nelle grandi occasioni e nelle circostanze più dimesse; era una presenza umile e sincera che diceva a tutti come lei stesse bene con Dio. L’amore alla chiesa si espresse con tanti lavori di ricamo in cui era artista e che restano un ricordo molto caro. Si potrebbe definire la “Nea” (come tutti la chiamavano) un fiore tra i più belli della nostra frazione.

Giovanna è sempre vissuta così in mezzo a noi, come piaceva a Dio. Come l’ago della bussola cerca il polo, così la sua anima cercava sempre il Signore, senza lasciarsi ingannare da cose, strade e luoghi falsi: il suo cammino è stato quello di una figlia di Dio. Il sacerdote che il 2 luglio 1899 poneva la veste candida del Battesimo sulla piccola Giovanna Anna Rossi e pronunciava queste parole: “Ricevi la veste candida e portala immacolata dinnanzi al tribunale di N.S. Gesù Cristo, per avere la vita eterna” diceva parole profetiche. Il vecchio don Piero Agnoletti, ormai al declino del suo ministero sacerdotale a Ponzano, trasmetteva ad una piccola creatura la lampada splendente della fede. Giovanna silenziosamente e poveramente è passata in mezzo a noi con la sua anima vestita di bianco e con la sua lampada splendente di luce. Così amiamo ricordarla: un’autentica testimone del Vangelo.

image Altare del Rosario (Ponzano). L’antica immagine della Madonna del Rosario era adobbata con ricchi vestiti. Nel 1925 i l parroco Sernagiotto acquistò dallo scultore di Ortisei Vincenzo Moroder una bella statua della Madonna. Forse non ha pregi artistici, ma ispira devozione ed è tanto cara ai fedeli, che la onorano particolarmente in maggio, ottobre e nelle feste mariane.
image Altare del Crocifisso (Ponzano). Il crocifisso ligneo del secolo XVII ebbe diverse collocazioni nella parrocchiale: dove ora sta l’organo, più tardi ove ora sta la pala del s. Cuore di Gesù e sull’altare di s. Valentino (come nella foto): recentemente è stato ben collocato sull’arcata della porta laterale di mezzogiorno.

text  Chiesa parrocchiale di Ponzano, dedicata a s. Leonardo monaco e diacono, di Limoges, cui venne aggiunto come contitolare, nel sec. XVI, san Rocco.
I Franchi, al tempo di Carlo Magno, portarono questa devozione nel Trevigiano dove giunsero verso il 774. La chiesetta, forse ospizio, perchè dipendente dal monastero di Lovadina, detto “del Talpon”, doveva servire ai pastori e ai pochi abitanti del luogo, allora quasi disabitato e ricco di boscaglie.
S. Leonardo viene citato dall’Agnoletti nel 992, ma il primo documento risale al 1152. La chiesa venne rifatta nel 1771, dal parroco Simeone Brunetta. Il coro ebbe il pavimento di marmo nel 1800 e sei anni dopo vennero acquistati sei pesanti candelabri d’ottone. La chiesa abbisognò di restauri nel 1839 (presbiterio e affresco dei Santi in coro); nel 1869 si fece il soffitto della navata e la nuova facciata nel 1874. Le due alzate degli altari del Rosario e di s. Valentino sono del 1882. Miglioramenti apportò don Callegarin nell’arredamento e nella decorazione.
II parroco Sernagiotto compì le pseudonavate e fece fare la nuova facciata, con la cantoria e il nuovo organo. Due altari di marmo furono acquistati a Venezia nel 1778, ma poi il maggiore venne sostituito con un altare proveniente dall’oratorio demolito dell’Ispettorato del Montello, in Giavera.
Anche se consacrata dal vescovo Giustiniani il 22 aprile 1779, già nel 1850 si diceva avesse subito tali trasformazioni da considerarla non più consacrata.
Con i recenti abbellimenti si presenta all’interno assai bella, con la preziosità della “pala formosissima” che qualcuno attribuì persino al Giorgione; sembra ormai certo cha sia opera di Domenico Capriolo (✝ 1528).

 


Note: