Ponzano : Note Storiche

I NOSTRI EMIGRATI

Il fenomeno dell’emigrazione

text  Chiesa Ponzano Veneto.

Il fenomeno dell’emigrazione italiana, per il quale, in un secolo, quasi 30 milioni di persone lasciarono la patria per trovare in altri paesi lavoro e condizioni migliori di esistenza, ha colpito anche le nostre province.

L’esodo, iniziato all’incirca nel periodo successivo alla 3a guerra di indipendenza, ebbe al principio un’incidenza modesta; nel decennio 1869/1879 abbiamo ventimila espatrii all’anno, ma erano già duecentomila nel 1888 e raggiungevano il mezzo milione nel 1906.

Il decennio 1905/15 fu quello che maggiormente dissanguò i nostri paesi: il numero di italiani che partivano era in media di settecentomila unità con una punta massima, nel 1913, di 873.000. La tabella che segue riassume con la freddezza delle cifre questo dramma:

                               
ANNO EMIGRANTI
___________________________ ___________________________
1881-1920 16.955.000
1921-1942 3.462.000
1948-1955 4.193.000
1958 255.000
1959 288.000
1960 384.000
1961 387.000
1962366.000
1963 278.000
1964 253.000
1965 283.000
1966296.000
1967 229.000
1968 216.000
________________
TOTALE 27.845.000

Le motivazioni dell’emigrazione, almeno da noi, erano di ordine esclusivamente economico. Le terre erano povere, gli affitti e le servitù insostenibili, i fattori avidi e privi di umanità, l’incremento demografico elevatissimo: tutti elementi che creavano uno stato d’animo prossimo alla disperazione e che spingevano alla fuga.

Il distacco, il bastimento, l’arrivo

Non mancava il miraggio d’un benessere promesso da procacciatori di mano d’opera che passavano dipaese inpaese. Di conseguenza gli emigranti, nell’affrontare il dolore del distacco, erano accomunati dalla speranza di una vita migliore; per quasi tutti “la vita migliore” restò, nei primi decenni, un sogno. Il periodo dal 1862 al 1900 fu il più tragico ed è chiamato della “emigrazione classica”: le mete erano gli Stati Uniti, l’Argentina e il Brasile.

Non sono immaginabili le scene di commozione e di lacrime alla partenza dei migranti. Molti ricordano, nella sera, lungo la scala malamente illuminata dal lume a petrolio, scendere i partenti con le spalle cariche di grandi sacchi, mentre i familiari nella grande cucina affumicata e poi sul cortile e lungo la strada, dove attendeva un carro e un cavallo, continuavano a gridare i loro addii con lacrime sincere e struggenti: piangevano su chi se ne andava in un altro mondo e che forse non avrebbero rivisto mai più, come spessissimo realmente avvenne.

La traversata, nel bastimento, era sempre fortunosa: chi moriva sulla nave veniva posto su una tavola e dopo una preghiera veniva lasciato andare in fondo all’oceano. Di vittime ce n’erano sempre. Non si parli dei cibi, delle condizioni igieniche, della promiscuità. Una volta giunti ai luoghi di raduno questi nostri connazionali, che prima erano stati allettati da contratti di lavoro vantaggiosi, venivano invece a trovarsi in condizioni di vita infami, specialmente se destinati in fattorie agricole.

Era stata da poco abolita la tratta dei negri, ma i nuovi schiavi venivano sbarcati dai bastimenti partiti dai porti europei. Il fatto poi che gli emigranti non erano abituati al clima tropicale, li rendeva fragili di fronte a nuove malattie e parecchi incontrarono la morte. Chi trovava lavoro in città del nord America, veniva chiamato in modo spregiativo gringo (“vattene!”); nel sud America “golondrina” (rondine) cioè “operaio stagionale”; era costretto a lavorare anche 16 ore al giorno nelle fornaci (era il tempo dello sviluppo vertiginoso delle grandi città nord e sudamericane), a dormire in un sottoscala, sopra due assi, ad essere preso a calci. A molti, cui non toccò di fare fortuna (famiglie come i “Materasso” furono mosche bianche), non riuscì mai di scrollarsi di dosso la miseria già patita in Italia.

Altre difficoltà venivano dall’ambiente sociale, soprattutto urbano. Ad esempio nel Sudamerica una carica di risentimenti ostili e profondi si andava accumulando nei bassifondi delle grandi città abitate da creoli, meticci e mulatti, verso i nuovi venuti. Il reciproco rifiuto creava tensioni e divisioni.

image Due donne emigrate all’albergo dei poveri di New York.
image Un emigrato ha dormito in questa cantina perq uattro anni. (AC. CHIARAVALLE. Il territorio della fotografia. Milano. 1979, pag. 20).

 

Nel Nordamerica gli immigrati di più recente provenienza erano soggetti alle angherie di chi li aveva preceduti. E nota l’asprezza con cui gli irlandesi accoglievano gli italiani, come più tardi saranno gli italiani a maltrattare i polacchi. Non è male ricordare quante amarezze sia costato l’inserimento in paesi stranieri di questi nostri connazionali, impreparati culturalmente (i più conoscevano e parlavano solamente il loro dialetto) e professionalmente (quando dicevano di “saper fare di tutto”, spregiativamente il padrone giudicava il povero manovale come “uno che non sapeva far niente”).
Di questo periodo di “emigrazione classica”, pochi rimpatriarono. Alcuni non diedero più notizie di sè; in certi casi abbandonarono alla loro sorte e dimenticarono del tutto genitori, moglie, figlioletti; in altri casi non lasciarono traccia di sè, perchè morti anzitempo nelle piantagioni o nelle miniere.

La storia dei primi emigrati sta veramente tutta qui: una disperata avventura, con lo strazio di chi restava e la vita grama di chi partiva in mano a sfruttatori senza cuore e senza coscienza. Non sempre furono compresi e sostenuti. Non era infrequente, anche da noi, che i familiari si scagliassero con maledizioni contro questi poveri cristi perchè non mandavano soldi. Così, abbandonati a sè stessi, senza che nessuno si occupasse di loro, poco considerati perfino dai Consolati, quasi sempre analfabeti, senza una benché minima preparazione tecnica, l’Italia dovette apparire a questi nostri esuli più matrigna che madre.

I governi del tempo facilitavano questo esodo per diminuire la spinta demografica e per avere valuta pregiata attraverso le cosidette “rimesse” o per importazione diretta al rientro degli emigranti stagionali, ma nulla o quasi fecero per prepararli all’impatto con il paese prescelto nè prima della partenza nè durante il primo periodo di ambientazione.

Eppure essi hanno scritto una pagina della nostra storia recente, tra le più toccanti ed umane. I primi che fecero questa fuga obbligata furono i “cafoni” del sud; a questi si aggiunsero i mezzadri del centro, i contadini tosco-emiliani, friulani, veneti, cadorini e camici. Centinaia di storie, pertanto, anche per i vecchi emigrati trevigiani e ponzanesi: essi rivivono nei ricordi, nei luoghi di lavoro, nelle avventurose peripezie, fra fatiche e stenti inenarrabili.

Fu davvero una epopea, degna dei poemi antichi. E tale dramma accresce il valore del grande sacrificio che milioni di italiani affrontarono in terre straniere ed il coraggio di tanti poveri contadini. Chi oggi arriva a San Paolo del Brasile, destinata a diventare una delle più grandi metropoli del mondo, arriva in una città ricca, una città di italiani e fatta da italiani. La fuga dalle miserie di casa nostra si è rivelata a lungo termine come un arrivo ad opere, a ralizzazioni che fanno loro onore.

Oggi nei vecchi riaffiorano tanti ricordi: di fatiche, di privazioni e di ingiustizie patite. Sanno dirti “I paroni te prometeva sento e i te dava 20,30…”. E poi aggiungono quasi soddisfatti: “Epur tuti quei che gà lavora sul cafe, i ga fato i schei!”.

Francesca Cabrini e i vescovi Bonomelli e Scalabrini

Ci furono alcune persone che presero veramente a cuore la sorte degli italiani all’estero. Un posto di rilievo occupa una maestrina italiana, con un’anima di fuoco e una capacità di lavoro inimmaginabile: s. Francesca Cabrini (1850) di Sant’Angelo Lodigiano. Papa Leone XIII la incoraggiò ad occuparsi degli emigrati italiani negli Stati Uniti, con le suore da lei fondate, le “Missionarie del S. Cuore”. Con incredibile attività, sebbene sempre malaticcia, fece sorgere collegi, scuole, orfanotrofi, ospedali, dispensari, laboratori e case di riposo per vecchi, al fine di strappare dalla miseria e dallo sfruttamento migliaia e migliaia di italiani. Morì a Chicago nel 1917 e fu dichiarata santa nel 1946. Una grande eroina che con il suo amore e le sue iniziative rese meno duro il calvario degli emigrati del Nord America.

Due grandi vescovi, vissuti a cavallo del secolo, ambedue preoccupati per i gravi problemi del mondo del lavoro, promossero iniziative concrete anche a favore degli emigranti. Mons. Geremia Bonomelli, nato a Nigoline (pr. di Brescia) nel 1831, vescovo di Cremona, si occupò delle questioni sociali con spirito moderno, si adoperò per sanare il conflitto tra Stato e Chiesa, ed organizzò l’opera di assistenza agli emigrati. Morì nel 1914. Mons. Giovanni Scalabrini, nato a Fino Mornasco (Como) nel 1839, vescovo di Piacenza e ivi morto nel 1905, studioso di problemi sociali, dimostrò fervida carità nell’assistenza ai colerosi nel 1867 e soccorse gli indigenti durante la crisi economica del 1879. Preoccupato di tanti nostri italiani, costretti ad emigrare, fondò la “Congregazione dei missionari di san Carlo”, che attualmente è diffusa in tutto il mondo occidentale ed opera esclusivamente per gli emigrati.

I primi ponzanesi emigrati in America

Per quanto riguarda la nostra frazione, le mete preferite oltreoceano, in ordine di precedenza, furono il Brasile e l’Argentina.

In Brasile troviamo Felice Zanatta verso il 1887; ha molti figli: Nen (Giacomo), Meno (Domenico), Mano (Romano), Nibale (Annibale), Biasi (Biagio), America (n. a s. Paolo nel 1891), Giuseppina (che sposerà Zamperoni, nonna di Carlo ed Enrico Zanatta). Felice, nel 1893, è già di ritorno e andrà ad abitare nella casa “Uliana”, in via Caotorta. Con più fortuna rientrano, verso il 1902, i De Marchi che riescono ad acquistare una parte della proprietà dei conti Caotorta. Sono i ritorni della “emigrazione classica”; ma è già in partenza una generazione nuova. Ad esempio gli Schenal Bepi, Cesare, Mose (quest’ultimo rimarrà vent’anni in Sud America): lavorano nelle piantagioni di caffè, nel legname, nel giardinaggio (in proprio); li troviamo in Brasile, poi in Argentina, più tardi a Montevideo in Uruguay. Faranno un po’ di fortuna, ma non eviteranno la grande guerra.

In Argentina si recano Maria e Antonio Toffoletto; Angela e Piero Benetton, detto pure “sacco de paja”, (che poi verrà ad abitare in via Volpago, nella vecchia casa di Caterino De Longhi); Emilio Bortoletto; i due Giuriate e Bepi Zanatta, detto Marcolin. I Toffoletto, che vivevano nelle pampas di Santa Fè, raccontavano del loro andare al mercato nella città una o due volte all’anno. Ci impiegavano un mese: 15 giorni per andare e 15 per ritornare; partivano con i carri e i buoi; la notte facevano quadrato. I pericoli maggiori erano le mandrie di asini selvatici: essere caricati da questi animali significava venire ridotti in poltiglia.

I nostri compaesani, in America, conservavano le tradizioni e la cultura veneta: le devozioni, le feste, i canti sacri e paesani, l’amore alla famiglia e ai figli. Ancora oggi la ricchezza di questa cultura è più genuina, a ricercarla, in quei paesi di italiani figli di vecchi emigrati, che nei nostri paesi inquinati dalla civiltà dei consumi. Nel nord America i più si diressero verso il Canada, come l’ex sindaco Giovanni Mattiazzo; Angelo e Cesare Cocchetto; Antonio Piovesan, zio di “Gigio Piton”; Nani Piovesan, parente di Emilio il “negus”, chiamato anche “il missionario”, perchè lo si trovava dappertutto; i Rizzo; i Traian.

Negli Stati Uniti troviamo Francesco Rossetto, Federico Zanatta, Annibale Gagno e Marco Biasetto, che parlava con passione del lavoro svolto per la costruzione della ferrovia dall’Atlantico al Pacifico, e che visse l’epopea dei terreni espropriati e le difficoltà di quel lavoro colossale, ormai passato alla storia, che i films ci hanno reso familiare. Alcuni dagli Stati Uniti passarono nel Canada, come il Rossetto e il Biasetto, che troveremo a Toronto.

In questo periodo l’emigrazione era già meno dura. I nove milioni di connazionali, che varcarono l’oceano dal 1900 al 1914, erano protetti dalle leggi emanate da Giolitti: dovevano essere rispettati i contratti di lavoro, le paghe erano decenti e le condizioni di vita più umane. Il periodo delle angherie e del rifiuto era finito.

image Nonostante gli anni difficili (siamo nel 1950) ragazzi e ragazze vivono con allegria i l loro carnevale

Gli emigrati nel Nord Europa

Densa di ricordi è pure l’emigrazione verso i paesi del Nord Europa. La Germania dell’imperatore Guglielmo accolse nelle sue miniere e nella costruzione dei suoi ponti, ferrovie e palazzi molti italiani, che portavano a casa, con i “marchi”, un pane e una sicurezza per la famiglia. Alcune ragazze ricordano le “corone” dell’impero Austroungarico: venivano richieste come domestiche presso i castelli di famiglie nobili o presso le famiglie borghesi. Per molti anni fu l’esperienza vissuta da Vincenza Lena ved. Zasso. Angela Conte ved. Zanatta ricorda invece il suo esodo dalla famiglia per recarsi in un convitto in Svizzera, ancora tredicenne, nel 1904, dove rimase per nove lunghi anni senza mai rivedere i suoi cari, fino al ritorno in famiglia, avvenuto nel 1913.

Chi accettò di lavorare nei trafori delle Alpi, se non trovò la morte nei crolli, ebbe danno alla salute per pleuriti, tubercolosi, silicosi e restò menomato nel fisico, accorciandosi l’esistenza. Fu un’avventura memorabile quella compiuta da Giovanni Catterin, che a nove anni, partì da casa e in due mesi percorse 600 km. per giungere a Vienna… un vero record di emigrato per età e per “il cavallo” usato! Di quel periodo ci piace ricordare ancora, con Angelo e Umberto Rovere, padre e figlio, anche altri cognomi cari, Stolfo, Zanatta, De Conto, Cocchetto. Alcuni di questi più tardi si trasferiranno in America.

Tra le due grandi guerre

Nel periodo 1920-1940 l’emigrazione conobbe delle interruzioni sia a motivo degli impedimenti posti dalla politica dei paesi anglosassoni, sia per gli ostacoli dell’autarchia voluta dal regime fascista.

In Belgio si reca Valentino Dalla Toffola; in Francia si portano i Girotto con Ireno Marchetto e Vittorio Piovesan. Leone Piovesan emigra in Etiopia; altre famiglie, già nel 1920-21, si dirigono verso il Brasile: i Crespan, i Fontebasso, i Giuriate (uno sarà chiamato Amerigo), Matteo Zanatta. Con il fascismo le restrizioni rimanevano però soffocanti e la povertà era tale che difficilmente si avevano i mezzi per l’espatrio. Nelle campagne correva la voce: “I gà sarà i passi!” Ed era vero.

imageAlcuni di questi ragazzi di Azione Cattolica (14 maggio 1942) ora sono emigrati all’estero: facevano parte della sezione GIAC “S. Leonardo”

Dopo il 1945

Terminata la seconda grande guerra mondiale, dapprima timidamente, più tardi con consistenza numerica sempre più elevata (ben lontana tuttavia dai records degli anni 1900-1914) riprende il flusso emigratorio. Alcuni paesi adottano leggi restrittive. Ricordiamo gruppi di famiglie o persone singole, per quanto la memoria ci aiuta, che per lavoro hanno lasciato l’Italia in questi anni

CANADA
Tra i paesi extra europei il Canada è la meta privilegiata dai Ponzanesi. L’elenco è lungo: Anselmo Rossi con la famiglia; Gino ed Aldo Stefani; Gino, Sergio, Romano e Carlo Gagno; Vittorio, Aldo e Tony Zanatta; Ignazio Torresane il fratello Ferruccio sposato a Paola Faccin; Massimiliano Rotino con Lucina Faccin; Carlo, Bruno, Giuseppe e Germana Benetton; Eliseo Faccin; Lina Liziero; Gino, Olivo, Luigi, Milena, Eleonora, Adriano Piovesan; Ferdinando e Quirino Cocchetto; Antonio Mattiazzo con Agostina De Rossi; Antonio D’Ambrosi con Graziella Mattiazzo; Pietro Pizzolato e la moglie Mirella Bortoletto; Piero e Rino De Marchi; Angelo Bortoletto; Aldo Piovesan con Amalia Benetton.

STATI UNITI
Poche persone invece si trasferirono nei vicini Stati Uniti; tra queste Vittorio Biasetto con moglie e figlie; Teresa Piovesan “la pupa”.

AUSTRALIA
Alcune famiglie optarono per la lontana Australia: Attilio, Mario e Sante Piovesan; il figlio di Sante Nilo con la moglie Angelina; Mario Gallina; Gregorio Faccin; Enzo, Augusto e Silvano Mattiazzo; Alice, Armida e Giulia Biasetto; Luigi Frigo; Carlotta Bortoletto; Giovanni Schiavon; Amelia Gagno.

BRASILE
Il Brasile, una delle nazioni favorite nel periodo dell’emigrazione classica, ha ora un posto di secondo piano. Ricordiamo: Arturo Faccin e la moglie Regina; Federico Rossi; Sergio e Giovanni Mestriner; Enrico Zanatta, che poi rientrerà in Italia.

imageNel sud del Brasile, nello stato di Santa Caterina, l’immigrazione italiana è stata altissima. Una famiglia di italiani di Nova Veneza, presso Criciuma: unita, numerosa, cristiana. (Da A.N. Marques: Imigração Italiana. Criciuma, 1978 pag. 151).

ARGENTINA
Neppure l’Argentina, che pure annovera tra i suoi cittadini molti italiani, è più tra le mete favorite dagli emigranti. Tra questi: Giuseppe Pivato; Giovanni Crema e Stella Privato; Ettore Zanatta, “marcolin”; Rina Gagno; per un certo tempo anche Angelo Benetton.

VENEZUELA
È un nuovo punto d’arrivo per i Ponzanesi che lasciano l’Italia. Vi approdano: Leone Piovesan; Angelo e Mirella Rovere; Luciano e Sandro Girotte con il padre; Mario e Quinta Stolfo con le figlie Dina e Franca; Ettore Piovesan che gestisce uno dei migliori studi fotografici della capitale, Caracas; Gino Benetton.

AFRICA
L’Africa della Libia e dell’Eritrea ha riservato esperienze piuttosto tristi per coloro che vi lavorarono: la prima a causa del rimpatrio forzato della numerosa famiglia di Piero Fontebasso, dovuto alla politica xenofoba di Gheddafi; la seconda a causa della guerra civile che costrinse al ritorno i fratelli Ruffin con la madre Elena. In Kenia si portarono Gaetano Tiveron e la moglie Gemma Piovesan; nello Zambia si trovano tutt’ora Remo Raveane con la moglie Mirella Biasetto.

BELGIO
Il paese europeo che ospita il maggior numero di nostri compaesani è il Belgio. Dopo il Dalla Toffola, troviamo nomi vecchi e nuovi: i fratelli Rino, Pietro e Albina Stolfo; Attilio, Romeo e Lidia Piovesan; Ernesta De Mattia; Albino ed Eliseo Lucchetta; Antonio De Rossi con la moglie Elisabetta; Ernesto Pivato e la famiglia; Sante ed Adriana Liziero e i figli; Annerino Bortoletto; Andrea e Natalina Benetton; Luigi ed Angelina Piovesan ed i fratelli Aldo ed Olivo, che poi si recarono in Canada; Maria Gagno.

SVIZZERA
Alcune ragazze vissero presso i convitti; ricordiamo le sorelle Marta, Chiara e Zita Pastro; Graziella Piccolo; le sorelle Isetta e Giovanna Biasetto e la cugina Candida; Luigina Mattiazzo. Altri vi si recano con la famiglia: Luigi e Natalina Gagno; Romeo Mestriner; Luisa Bortoletto; Flaminio e Dina Cavallaro; Viola Girotto con i figli; le sorelle Francesca ed Enrica Dalla Torre; Angelo Bazzo ed Odilla Mattiazzo; Ernesto Pizzolon; Gino e Salute Eroi; Giordano ed Irma Dalla Longa.

OLANDA
Per un certo tempo Ugo Frigo e Claudio Milan, lavorano in Olanda.

FRANCIA
In questo paese, oltre al Marchetto, si recano per lavoro: Luigi Rovere; Giuseppe Cocchetto; Erminio e Rosetta Bardini.

GERMANIA
I ponzanesi che si trovano in Germania fanno i gelatai: sono le sorelle Bordignon coi mariti; Adriana con Mario Monteleone; Maria Teresa con Eugenio Bonesso; Fiorella con Franco Gori.

INGHILTERRA
Si reca in Gran Bretagna, per breve tempo, Primo Zarabara con la famiglia.

image Alcuni nostri emigrati del periodo 1900-1915. La foto riprende una festa natalizia degli anziani del 1968.Si riconoscono da sn. a dx.,in piedi: Maria Giuriato, Erminia DeMarchi, Annibale Gagno, Sante Girotte, Angela Conte e Luigi Zanatta, Maddalena Gagno, Teresina Rigo (con l’ombrello in maschera), Gildo Rossi, Angelo D’Ambrosi, Sante Giulio Zanatta. Seduti da sinistra: Giuseppina Giuriato, Amelia Santon, Nea Rossi, Luigia Pivato, Maria Pilla, Rosalia Bortoletto, Assunta D’Ambrosi e Caterina Girotte.


Un fanciullo, di nove anni, fa 600 km a piedi, nel 1905.

L’avventura straordinaria, ricordata sopra, vissuta da un nostro paesano Cattarin Giovanni, nato a Lovadina di Spresiano il 6.12.1896 e domiciliato a Ponzano (via Livello) , che adesso ha 85 anni, ci viene narrata da lui stesso in dialetto: “Mi gavea sentio da la me maestra che Viena gera la capitale dell’Impero Austro Ungarico e ne la me testa gera nata l’idea che là se podeva magnar ben. Acasa nostra co’ la poenta vegneva sartada sul tajer, el fumo noi fea tempo a ‘rivar sul sofito. Me mare, poareta, gavea capio el me sogno de scampar da casa, anche parche me pare in osteria el me gavea sciafonà. La storia xe presto dita: me nono da parte de me mare, ‘romai a s. Paolo in Brasil el voleva co’ lu un so nevodeto e mi ciaro e neto gaveo dito “Vao mi co’ me nono!”. “Ti te ‘ndarà co’ to nono, macaco!? ti te sta a casa co’ mi!” e xo na sberla. Ma la gera na sberla che la me stava dentro. Senza dirghe gnente a nissun (ma me mare lo xaveva!), ai primi de aprii del 1905, con un fagoteo e meza pinza, parto: a pie, po’! Co’ gero stufo (intanto la pinza calava!) me visinavo a ‘na casa de contadini, vedevo i pajeri, e ghe domandavo da dormir, in stala, so ‘I fienil; e così so ‘riva a Tarvisio. Me pare, desperà, intanto el gavea denuncia la me scomparsa. E me mare “tasi”. Ndavo su e zò pai binari; un migrante furlan, che gera sul vagon el me domanda “Cossa serchito?” e mi: “Voi rivar a Viena!” e lu me ciapa e me tira su, in vagon. Cossi go passa la frontiera e ad Arnod-Idstein (me ricordo ancora el nome) el me mola zò. E mi pecche! Gero zà in Austria e pian pian, in do mesi, rivo a Viena! Me fermavo so ‘e case dei contadini anche do tre giorni e faxevo mestiereti, tanto da ciaparme na scianta da magnar. A Viena la prima sera e anca la seconda tuto passa lisso; ma i gendarmi me becca al terzo dì, e i me domanda i documenti; mi ghe digo che go perso le carte; i ghe telegrafa a Spresian e el cursor ciapa me pare e ghe dize: “Varda che to fiol el ze a Viena in bone man”. Intanto i me trova da portar aqua ai omeni che lavorava sui aquedoti; al sabo i me dava na corona e mi ‘ndavo al “prater” e me divertivo: ghe gera zento bersalieri che sonava la fanfara, i me dava un goto de bira, tuto paga da “Ceco Bepe”, ma bisognava ‘ver le scarpe lustre! Ogni tanto ndavo a messa; tanto, no’ i gera miga tuti col papa! Cossi go passa sie mesi; de tornar casa non gavea voja e quando i me ga lassa libero (dandome tuti i me schei), mi, ciapa el treno e la me vaiseta (nessun gavea vaize ‘lora!) e son ‘ndà a Coln (Colonia). Là i me spetava: i austriaci gavea vertio i tedeschi che i me trovasse un lavoro su ‘e ferovie.

Un capo un dì me dixe: “Vien lavorar co mi sue miniere verte (a cielo aperto). Ze dure ‘e miniere: gaveva sedese ani e su la Ruhr, so’ riva fin a 900 metri soto tera e ‘na volta se ga ‘lagà tuta la galeria e mi, svelto come un gato, me son butta su par ‘e scae e me son salva. Gò riscià la pee ‘naltra volta: sue ferovie (perchè gera torna là). Fazevimo el ponte sul Reno, sempre a Colonia e lavoravimo in tre “in campana”, se rompe el motor che dava pression, se no scampo fora da quea preson, saria da un toco un pesce nega! Me ga tira su do zovanotti che gera in barca; i stava a divertirse, gera el luni dee feste, drio meodì; noaltri lavoravimo a turni, dì e note, anca pasqua. Tanto savi ben che “con aqua e ciacole no se fà fritole”. Me tocava sempre darghe soto! Ghe gera poco da ridar: la domenega bisognava lavarse i calseti, le braghe e la camisa e gera finio tuto; fursi qualche partia de bae coi amisi (de tute ‘e generazion: polachi, croati, rumeni, serbi, taliani…). Qualcosa me son anca divertio: Un dì partimo in tre (uno co ‘a chitara) e ‘ndemo a Mosca. Passemo per Danzica (che gera tedesca) e Varsavia e coremo fin che porta el treno; ciapemo na slita per rivar al treno dei russi, che gaveva un scartamento difarente dal nostro. Fredo da morir! Insoma, rivai a Mosca, semo stai solo do dì; non se capivimo nè lori nè noaltri! Intanto, uno dei tre, se gera sfantà. Torneino par Bucarest, rivemo a Budapest: me mancava diese fennig par tor el bilieto par Viena. Na sioreta me vede così poareti e dixe “Per i giovanotti ecco i dieci fennig”. Che Dio la gabia in gloria! A Viena gerimo al verde da novo e così ghemo pensa de tornar a casa a pie, fin Trieste; el me amigo sonava ‘a chitara, mi col capeo fasevo un gireto tra i magri clienti.

Da Trieste, in treno rivo a Spresian; vao casa, vedo na scianta me mama e i mii, ma non me fermo! su da novo in Germania. Tuto quel tempo non me gera miga passa dala testa de ‘ndar catar me nono! Gero sta a Parigi e a Brussel; a Dresda e a Lipsia; ad Amsterdam e Aquisgrana e na volta capito ad Amburgo, in macchina (le gera ‘e prime!), col me ingegner. Trovo el capitano de un bastimento a vapor; el me domanda se voi ‘ndar con lù: la nave gera direta in Brasil, dove stava me nono. Mi tol la me vaiza, e parti. Ma a Gibilterra (la nave dovea far scalo) ‘i inglesi ‘i me càta sconto in stiva sul carbon, e i me rimanda indrio! Me gà dispiasso par me nono!
Par magnar, ogni dì de qualcossa me ‘rangiavo; par dormir ‘na vedova, co’ tre fie, me gaveva da ‘na camareta e mi pagavo regolare. Non ste pensar che fusse un sbrega mandati. Mi go sempre porta rispeto e ‘i altri me rispetava mi. Na sera, riva dei parenti de sta vedova e par mi non ghe saria sta posto… Dopo un tocheto me ciama la parona e la me dixe: “Joan, ti te dormi, sta note, su la camera dove ghe xe anca me fia”. Mi rispondo: “Parona, sta roba, mai pi”. E a me replica: “Joan, mi te conosso, ti te si un toso de stima e ti te pol dormir benissimo su quea camera”. Xe sta el più bel elojo de tuta la me vita; vedar in che stima gero tegnuo parfin dai tedeschi.
Dopo xo vegnù a casa, e gò fato la guera, gò ciapà na ferita all’arma bianca, a Gorizia, anca proposto alla medaja d’arzento; go fato la ritirata; i me ga ciapà prijoniero e son scampa…
Finia ‘a guera, del ‘20, torno a Colonia, sol solito paeseto, fora de Essen, e zerco quea bona vedova. El paese gera tuto spianà; disastri de’a guera. Na veceta me ga sigà drio: “Ma ti te si Joan!” e la me fa capir che gera morta dae bombe sia ‘a mama e sia ‘e tose. Così me passa anca ‘a voja de star fora pa ‘I mondo e so torna casa. Me son maridà con la Rita e ‘desso son qua vecio coi me ricordi: tanti e anche bei”.

 


Note: