A Spasso per le Antiche Osterie di Ponzano

“Nosse” In Paese

Antonio Biscaro
(vissuto nella casa-osteria “da Biscaro” fino al 30 aprile 1960)

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  Paderno 1955. Matrimonio di Giuseppe Povegliano Campaner e Rita Martini Bunisioea.
Bambini a caccia di confetti.

Il paese è Paderno. Il tempo quello delle mie elementari. Siamo negli anni del dopoguerra tra il 1955 ed il 1960. Strade bianche e polverose. Ogni volta che passava la corriera della Siamic si alzava un polveron. Un po’ meno, ma sempre polvere era, quando passava una di quelle rare automobili (atento che riva ‘na machina!): una topolino, una giardinetta, ma ancora qualche balilla.

Punto di riferimento costante e centrale della vita del paese di allora era l’osteria.

Si affacciava normalmente sulla strada principale. Tra Paderno e Ponzano, lungo la via che porta a Treviso, se ne affacciavano parecchie di osterie: da Bacheta in Baruchella, dal Ceo Tasca a Sant’Antonio, da Biscaro a Paderno; e poi più in giù: alla Pesa da Sbeghen e per finire da Frigo.

Rigorosamente riservata agli uomini, l’osteria era una tappa obbligata sia di giorno che di sera.

Di giorno per rifocillare e dissetare i passanti nelle loro trasferte di lavoro: operai che andavano o tornavano da Treviso in bicicletta (mureri e pitori), venditori ambulanti di frutta e verdura (Nesto da Camalò, Anna e Angelo Cepola) carrettieri del bosco Montello di ritorno dal mercato.

Mercato di Treviso, dentro le mura, del martedì e del sabato: dopo aver venduto il carico di legna da ardere (gasìe) rientravano a Camalò o a Selva col loro carro tirato dall’asino che si fermava da solo, senza bisogno di tirare le redini, davanti alla solita osteria.

Di sera per incontrare gli amici e restare in compagnia, fare quattro chiacchiere, scherzare e bere qualche onbra.

Immagini e ricordi ben chiari nella mia memoria. Io sono nato ed ho vissuto la mia infanzia in osteria e con gli occhi di bambino osservavo interessato e a volte stupito uomini stravaganti, che mi sembravano tutti molto avanti con gli anni e con nomi pittoreschi che ancora ricordo chiaramente: Chechi Rotino, Milio Pacione, Mino Sbeghen, Jio Menegon, Memi Tasca, Chechi Micejin e tanti altri.

Non era facile vedere il confine tra l’osteria ed il resto della casa. La cucina, locale centrale della vita di tutte le famiglie dell’epoca, comunicava direttamente con l’osteria e le due realtà si confondevano: l’avventore che non trovava nessuno dietro il banco entrava direttamente e senza esitazione in cucina e, a volte, si sedeva senza formalità con tutta la famiglia che stava magari pranzando.

Osteria come elemento centrale della vita di paese e che nei miei ricordi associo e collego a varie situazioni: la domenica, il carnevale, la sagra, ecc.

Una di queste è ancora ben impressa nella mia memoria: “viva i sposi”.

Cosa c’entra l’osteria con “viva i sposi”? si chiederà qualche giovane che magari non ha mai visto né una vera osteria (ora i giovani conoscono le caffetterie, i pub, le pasticcerie, le paninoteche, le sale slot) né ha mai sentito un sonoro “viva i sposi”, circondati come siamo un po’ tutti da coppie che si chiamano tra loro “compagno, amico, convivente”.

E no cari miei, un tempo – ma nemmeno tanto remoto – gli sposi esistevano, eccome! E nel giorno della loro grande festa, la prima tappa, ben inteso dopo la chiesa, era l’osteria.

L’osteria del paese di entrambi o almeno di uno dei due sposi.

Era una nuova moda per quel tempo. In precedenza le nozze venivano festeggiate in casa, quasi sempre della sposa. Ma con il miglioramento degli standard di vita del dopoguerra e l’avvio dei primi assaggi e modelli di benessere e consumismo le nozze si festeggiavano fuori casa. E cosa c’era di meglio dell’osteria?

Ricordo il fermento e l’agitazione che si respirava in casa-osteria nella settimana che precedeva le nosse. “Dove fai nosse i sposi?” si sentiva dire. “I va da Biscaro”. Certo, non esistevano molte alternative. Nell’abitato di Paderno o si andava da “Remo dea Melia” o “da Biscaro”. Erano queste le due aziende che si spartivano il mercato locale. Una sorta di duopolio. Se volevi celebrare una festa nuziale con un pranzo (e cena) memorabile, queste erano le due sole opzioni possibili.

Per forza! Le automobili (chiamate “machine-”) erano rare, appannaggio solo di alcuni fortunati borghesi emergenti. Per quasi tutta la gente normale del paese bisognava avere a portata di mano (meglio di piede) sia la chiesa sia l’osteria.

Il protocollo prevedeva il raduno degli invitati alla mattina (rigorosamente di sabato ed in stagione non impegnativa per i lavori dei campi, meglio di tutto settembre) a casa ella sposa dove veniva servito un “leggero” spuntino a base di trippe.

Si formava poi il corteo nuziale con in testa la sposa, in bianco, a braccio del padre — rigorosamente in abito scuro che spesso era il suo originario abito da sposo —  ed a seguire tutti gli invitati. Tra di essi non mancava mai il musicista (sonador) con la fisarmonica a tracolla. Lungo il tragitto verso la chiesa lanciava qualche accordo di “smonica”” per avvertire la comunità del festoso passaggio. Uscivano dalle case tutti: vecchi, donne, giovani, bambini che animavano la via con sonori “viva i sposi”.

Il momento più atteso per noi bambini era però rinviato alla fine della cerimonia quando sposi ed invitati uscivano dalla chiesa. Era allora che avveniva il lancio. In trepida attesa, lo stuolo di ragazzini attendeva che qualche invitato si infilasse le mani in tasca ed estraesse una manciata di confetti. Era allora che bisognava stimare in quale direzione avvenisse il lancio per arrivare per primi ad arraffare il maggior numero di quei dolci e prelibati bocconcini rivestiti di coriaceo zucchero. Il bilancio della competizione era quasi sempre in perdita per noi bambini cacciatori di confetti: anche se il bottino poteva essere tutto sommato buono non altrettanto poteva dirsi per le povere ginocchia che ne uscivano ogni volta sbucciate dalle rovinose cadute sul ghiaino del sagrato.

Dopo gli auguri e felicitazioni ai novelli sposi, i quali dovevano ricordarsi dell’evento contando soprattutto sulla loro memoria mancando all’epoca il fotografo ufficiale, si formava un nuovo corteo in partenza dal piazzale della chiesa, condotto questa volta dagli sposi e diretto verso la meta più attesa della giornata e cioè il “banchetto nuziale”.

Ma l’ora non era ancora giunta. Era solo mezzodì, cioè l’ora normale per il pranzo per la maggioranza della popolazione che era occupata in lavori agricoli. Non si portava a quel tempo l’orologio; non si portava in campagna l’orologio al quarzo o il telefono cellulare per veder l’ora. Erano le campane della chiesa a segnare i momenti clou della giornata. Si aspettava il suono della campana per tornare a casa e pranzare: quando suonavano le campane del mezzodì tutti correvano a casa perché “el disnar el xe in tola”.

Ma oggi era una giornata speciale. Il pranzo era programmato per le 13.00 (un boto). Nell’attesa c’era tempo per una sosta – diciamo per l’aperitivo – nell’altra osteria del paese. Pertanto se il pranzo era previsto da Biscaro, il corteo si dirigeva “da Remo” per un drink (di solito ’na onbra di bianco o un vermoutino per le donne) e per un paio di suonate ed anche un inizio di ballo e tanti “viva i sposi”. Arrivata l’ora del pranzo, il corteo ripartiva per mettere finalmente “i piedi sotto il tavolo”.

Il pranzo di nozze non rispettava le regole dietetiche che noi abbiamo di recente conosciuto. Che bilanciamento tra carboidrati, proteine e vitamine! Che limitazioni per piatti ipercalorici o troppo conditi! Era una nosse! Quindi una ghiotta occasione per rifarsi di povere mense dove si consumava “tanta polenta e poco arrosto”. Si racconta che qualche invitato, per presentarsi leggero alla festa provvedesse il giorno prima a prendere una mezza oncia di olio ricino e poter far così più onore alla tavola.

Sposi ed invitati salivano nella sala da pranzo: uno stanzone al primo piano attrezzato con una lunga tavolata disposta a ferro di cavallo con tovaglie e tovaglioli rigorosamente bianchi di bucato e con mazzetti di rami di alloro appesi alle pareti. Al centro sedevano gli sposi ed al loro fianco i parenti a cominciare da quelli stretti e via via quelli più lontani.

Il menù, concordato in precedenza con i genitori degli sposi, si basava su materia prima in buona parte fornita dalla famiglia dello sposo o della sposa. Era roba veramente a km zero. Qualche giorno prima del fatidico sabato arrivava in osteria il carico delle provviste: una ventina di pollastri/galline, mezzo vitello (rigorosamente morto) una o due damigiane, una di vino bianco e una di nero. Tutta roba di casa! Nella cucina, attrezzata per poco più di una normale famiglia, dove nell’occasione si accalcavano vari addetti e camerieri assoldati per l’occasione spesso improvvisati, la confusione era alta e forte il rischio di andare in tilt dovendo sfornare piatti anche per 80-90 invitati. Pronti coi succulenti piatti; primo: risotto con i fegatini (coe ciche come dicevano); secondo arrosto (pollo o vitello) contorni di stagione.

Finito il pranzo, i tavoli sparivano, accatastati su un lato della sala che si trasformava in balera.

La protagonista era la fisarmonica con i suoi tanghi, walzer e lisci.

A metà pomeriggio inoltrato si sentiva la necessità di un diversivo. Una parte degli invitati s’impegnava in una passeggiata per il paese, ma anche oltre. Ho ricordi che il gruppo di invitati si fosse spinto a piedi dalla nostra osteria fino a Merlengo da Miceon. La trasferta non era in corteo come al mattino ma in gruppetti quasi da libera uscita.

All’imbrunire la compagnia si ricompattava per la cena. E non una cenetta leggera. Una vera cena. Da non perdere: il protocollo prevedeva tortellini in brodo di gallina come primo; secondo bollito con erbe cotte.

Non ricordo come finisse l’intensa giornata. I bambini andavano a letto presto, senza Carosello e si addormentavano sulle note della fisarmonica.

 

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