Ponzano Paderno Merlengo - ieri e oggi
I CIBI
Generalmente, fino a non molti decenni or sono, le famiglie contadine ed operaie vivevano poveramente.
La scarsezza dei cibi, nonché l'insufficienza d'acqua potabile, favorivano inoltre l'insorgenza di varie malattie.
I pasti erano costituiti dalla proverbiale polenta, talora mal cotta, minestra con verdura (a Merlengo chiamata boràsca), pasta fatta in casa con il cotechino (muséto), fagioli, fagiolini (tegoìne), patate, punte di luppolo (bruscàndoi), bubbolini (sciopetini o carléti), tutti i tipi di radicchio d'orto e di campo, rùcola mescolata al radicchio od all'insalata, valerianella (gainèe) a foglie piccole, cipolle (ségoe), di curala" qualità scalógna veniva mangiata con la polenta fredda, cavoli, capucci (capussi), verze, ecc.
Il companatico consisteva in uno dei seguenti cibi: una piccola razione di formajèa (casatella), un po' di ricotta, un fico secco, un piccolo pomo detto de stèsa, una pera del córso o di altra qualità, che venivano consumate con la polenta.
Eccezioni venivano fatte per coloro che faticavano sui campi i quali ricevevano mezzo uovo o mezza fetta di salame o di cotechino. Qualche famiglia acquistava il baccalà, le aringhe, e gli scopetóni e possibilmente frutta poco costosa.
La stuzzicante polenta brustolada so 'e bronse veniva mangiata con avidità con la renga (aringa), con il latte, con la «formaggetta» ed altri cibi.
Solo il venerdì s'interrompeva la monotonia dei magri pasti con poche ed umili qualità di pesce (anguèe, marsóni, gambarèi, schie, bis atei, ecc.).
In quei tempi di povertà nemmeno i gatti si salvavano: essi finivano spesso i loro giorni nella teglia di qualche famiglia alle prese con gli stimoli della fame.
Altro espediente per far fronte alla scarsità di nutrimento era quello di incidere un'arteria del collo dei vitelli, provocando la fuoriuscita del sangue, che veniva lessato e poi cucinato con cipolla e lardo.
Per molti il problema di sbarcare il lunario si poneva quasi ogni giorno e costituiva una preoccupazione assillante soprattutto per le donne che dovevano pensare alla non facile soluzione.
Si ricorda in proposito il detto popolare: «vien mesodì e 'I gato baia sul foghèr» (viene mezzodì ed il gatto balla sul focolare) oppure «el gato se ródala so a sénare» (il gatto si rotola sulla cenere), che voleva significare che nella povera famiglia nulla v'era da cucinare e da mangiare.
Ogni famiglia contadina si sentiva tranquilla quando il granaio era sufficientemente fornito.
La carne compariva raramente sulla tavola dei pori cani e ciò avveniva solo in occasione dell'abbattimento di qualche animale della stalla per cause di forza maggiore.
Spesso qualche mamma destinava la propria spettanza dello scarso companatico ai'figli.
Se nelle grandi ricorrenze veniva cotto un pollo, esso doveva bastare per parecchie persone, bisognava companasegàrCompanasegàr: significa fare ristrettissimo uso di companatico. È' un verbo dialettale che non è traducibile in lingua italiana, caduto in disuso dopo l'avvento del benessere economico..
Coloro che maggiormente soffrivano per insufficienza di cibo erano i bambini. Per essi c'era polenta e latte, magari annacquato, tre volte al giorno.
E' da ricordare che le mucche più capaci fornivano normalmente dai sette agli otto litri di latte giornalieri, mentre nei periodi di grande attività campestre il quantitativo risultava notevolmente ridotto.
Oltre al consumo normale della famiglia, il latte serviva per ottenere il burro, la «formaggella» e, quale sottoprodotto, la ricotta (puma). Un'altra parte veniva destinata alla vendita nel vicinato e in Treviso.
Per questo compito, la padrona di casa o altra persona di sua fiducia ogni mattina si recava in città, ove vendeva detto prodotto. Partiva prestissimo, a piedi o con il biròcio tirato dal mussato (asinelio), equipaggiata del bigòl (bicollo)Il bigòl: arco di legno flessibile con i ganci alle due estremità per appendervi le bocàe (vasi solitamente di rame, almeno nel passato, internamente stagnati, usati pel contenimento del latte)..
Nelle case degli agricoltori, d'inverno, ogni tanto si presentava a tavola una variante, la pinsa (pinza). La pasta veniva preparata sulla vanduja (madia) con farina di granoturco, uva passa, semi di finocchio, fichi secchi tritati, latte ed un po' di sale. Per diverse ore si scaldava in precedenza VarialaAriòla: base del focolare.sulla quale si poneva la pinza a cuocere avvolta in foglie di verza e coperta da abbondanti bronse (braci). Al mattino seguente veniva prelevata e divisa tra i componenti della famiglia.
L'allevamento del maiale aveva grande importanza presso tutte le famiglie, le quali ne utilizzavano i prodotti con vera parsimonia.
Nel giorno in cui si macellava il maiale un'atmosfera di allegria si diffondeva su tutti i componenti della famiglia.
L'uccisione veniva di solito affidata ad una persona esperta in tale compito che, coadiuvata da altri, infilava il lungo coltello diritto al cuore della povera bestia collocata sopra un tavolaccio.
I ragazzi del vicinato, nell'udire le urla del maiale ferito a morte, accorrevano per assistere al sanguinoso epilogo. Il sangue che sgorgava dalla ferita veniva raccolto, lessato, tagliato a fette e cotto in padella con strutto o lardo ed abbondante cipolla. C'era anche l'usanza di confezionare con il sangue di maiale un dolce rustico chiamato baldòn o torta, di buon sapore, secondo la seguente ricetta: al sangue ancora liquido raccolto nel pajolo si aggiungeva un adeguato quantitativo di farina di frumento, uva passa, fichi secchi tritati, strutto, zucchero e sale; il tutto veniva rimestato con la rocchetta e poi posto a cuocere a fuoco lento mescolando continuamente per il tempo necessario.
Tutte le parti del maiale venivano utilizzate e, secondo la qualità delle carni, si con fezionavano i salumi (salami, museti o cotechini, ossocòlo, pancetta, sopressa, lenguàl e lugànega o salsicciaEl lenguàl si mangiava il giorno della Sensa (Ascensione)..
E' qui da ricordare l'episodio spassoso che avveniva nell'occasione dell'insaccatura delle carni suine.
I ragazzi, che in quei tempi erano numerosi, amavano assistere alle operazioni pieni di curiosità; nessun particolare sfuggiva al loro sguardo. Ma, quasi sempre, la loro presenza era di ostacolo e di disturbo ai lavoranti.
Appena questi ultimi avevano preparato l'apposito tavolo con il materiale necessario e disposto il lavoro per dare il via alla fase iniziale, el saladèr, battendosi una mano sulla fronte, come se avesse dimenticato una cosa indispensabile, esclamava: «Porca miseria, manca l'atresso pi importante: el stampo dei salàdi! Come femo?». Rivolgendosi di botto ad un ragazzo disponibile diceva: «Ciapa sto saco, va dala fameja de contadini vissina o da qualche altra e dighe de prestarne el stampo dei salàdi e pòrtalo qua suìto».
Il ragazzo partiva, entusiasta di sentirsi utile, magari in compagnia di un altro coetaneo, interpellava più d'una famiglia finché qualcuno si muoveva e, non visto, metteva nel sacco alcuni ciotoli o pietre, lo chiudeva bene con una stròpa o con spago e lo consegnava all'interessato esortandolo vivamente a non deporlo mai a terra durante il tragitto poiché si trattava d'un congegno delicato e fragile. Il ragazzo dava assicurazione e ritornava a casa con il pesante fardello affaticato e sudato. Nel bel mezzo della cucina il sacco veniva aperto e nel vedere le pietre ed i sassi che conteneva tutti scoppiavano in una sonora e allegra risata. Il figliolo rimaneva mortificato, senza parole e presa coscienza d'essere stato burlato giurava in cuor suo di non cadere più in futuro nel medesimo tranello.
Note:
La scarsezza dei cibi, nonché l'insufficienza d'acqua potabile, favorivano inoltre l'insorgenza di varie malattie.
I pasti erano costituiti dalla proverbiale polenta, talora mal cotta, minestra con verdura (a Merlengo chiamata boràsca), pasta fatta in casa con il cotechino (muséto), fagioli, fagiolini (tegoìne), patate, punte di luppolo (bruscàndoi), bubbolini (sciopetini o carléti), tutti i tipi di radicchio d'orto e di campo, rùcola mescolata al radicchio od all'insalata, valerianella (gainèe) a foglie piccole, cipolle (ségoe), di curala" qualità scalógna veniva mangiata con la polenta fredda, cavoli, capucci (capussi), verze, ecc.
Il companatico consisteva in uno dei seguenti cibi: una piccola razione di formajèa (casatella), un po' di ricotta, un fico secco, un piccolo pomo detto de stèsa, una pera del córso o di altra qualità, che venivano consumate con la polenta.
Eccezioni venivano fatte per coloro che faticavano sui campi i quali ricevevano mezzo uovo o mezza fetta di salame o di cotechino. Qualche famiglia acquistava il baccalà, le aringhe, e gli scopetóni e possibilmente frutta poco costosa.
La stuzzicante polenta brustolada so 'e bronse veniva mangiata con avidità con la renga (aringa), con il latte, con la «formaggetta» ed altri cibi.
Solo il venerdì s'interrompeva la monotonia dei magri pasti con poche ed umili qualità di pesce (anguèe, marsóni, gambarèi, schie, bis atei, ecc.).
In quei tempi di povertà nemmeno i gatti si salvavano: essi finivano spesso i loro giorni nella teglia di qualche famiglia alle prese con gli stimoli della fame.
Altro espediente per far fronte alla scarsità di nutrimento era quello di incidere un'arteria del collo dei vitelli, provocando la fuoriuscita del sangue, che veniva lessato e poi cucinato con cipolla e lardo.
Per molti il problema di sbarcare il lunario si poneva quasi ogni giorno e costituiva una preoccupazione assillante soprattutto per le donne che dovevano pensare alla non facile soluzione.
Si ricorda in proposito il detto popolare: «vien mesodì e 'I gato baia sul foghèr» (viene mezzodì ed il gatto balla sul focolare) oppure «el gato se ródala so a sénare» (il gatto si rotola sulla cenere), che voleva significare che nella povera famiglia nulla v'era da cucinare e da mangiare.
Ogni famiglia contadina si sentiva tranquilla quando il granaio era sufficientemente fornito.
La carne compariva raramente sulla tavola dei pori cani e ciò avveniva solo in occasione dell'abbattimento di qualche animale della stalla per cause di forza maggiore.
Spesso qualche mamma destinava la propria spettanza dello scarso companatico ai'figli.
Se nelle grandi ricorrenze veniva cotto un pollo, esso doveva bastare per parecchie persone, bisognava companasegàrCompanasegàr: significa fare ristrettissimo uso di companatico. È' un verbo dialettale che non è traducibile in lingua italiana, caduto in disuso dopo l'avvento del benessere economico..
Coloro che maggiormente soffrivano per insufficienza di cibo erano i bambini. Per essi c'era polenta e latte, magari annacquato, tre volte al giorno.
E' da ricordare che le mucche più capaci fornivano normalmente dai sette agli otto litri di latte giornalieri, mentre nei periodi di grande attività campestre il quantitativo risultava notevolmente ridotto.
Oltre al consumo normale della famiglia, il latte serviva per ottenere il burro, la «formaggella» e, quale sottoprodotto, la ricotta (puma). Un'altra parte veniva destinata alla vendita nel vicinato e in Treviso.
Per questo compito, la padrona di casa o altra persona di sua fiducia ogni mattina si recava in città, ove vendeva detto prodotto. Partiva prestissimo, a piedi o con il biròcio tirato dal mussato (asinelio), equipaggiata del bigòl (bicollo)Il bigòl: arco di legno flessibile con i ganci alle due estremità per appendervi le bocàe (vasi solitamente di rame, almeno nel passato, internamente stagnati, usati pel contenimento del latte)..
Nelle case degli agricoltori, d'inverno, ogni tanto si presentava a tavola una variante, la pinsa (pinza). La pasta veniva preparata sulla vanduja (madia) con farina di granoturco, uva passa, semi di finocchio, fichi secchi tritati, latte ed un po' di sale. Per diverse ore si scaldava in precedenza VarialaAriòla: base del focolare.sulla quale si poneva la pinza a cuocere avvolta in foglie di verza e coperta da abbondanti bronse (braci). Al mattino seguente veniva prelevata e divisa tra i componenti della famiglia.
L'allevamento del maiale aveva grande importanza presso tutte le famiglie, le quali ne utilizzavano i prodotti con vera parsimonia.
Nel giorno in cui si macellava il maiale un'atmosfera di allegria si diffondeva su tutti i componenti della famiglia.
L'uccisione veniva di solito affidata ad una persona esperta in tale compito che, coadiuvata da altri, infilava il lungo coltello diritto al cuore della povera bestia collocata sopra un tavolaccio.
I ragazzi del vicinato, nell'udire le urla del maiale ferito a morte, accorrevano per assistere al sanguinoso epilogo. Il sangue che sgorgava dalla ferita veniva raccolto, lessato, tagliato a fette e cotto in padella con strutto o lardo ed abbondante cipolla. C'era anche l'usanza di confezionare con il sangue di maiale un dolce rustico chiamato baldòn o torta, di buon sapore, secondo la seguente ricetta: al sangue ancora liquido raccolto nel pajolo si aggiungeva un adeguato quantitativo di farina di frumento, uva passa, fichi secchi tritati, strutto, zucchero e sale; il tutto veniva rimestato con la rocchetta e poi posto a cuocere a fuoco lento mescolando continuamente per il tempo necessario.
Tutte le parti del maiale venivano utilizzate e, secondo la qualità delle carni, si con fezionavano i salumi (salami, museti o cotechini, ossocòlo, pancetta, sopressa, lenguàl e lugànega o salsicciaEl lenguàl si mangiava il giorno della Sensa (Ascensione)..
E' qui da ricordare l'episodio spassoso che avveniva nell'occasione dell'insaccatura delle carni suine.
I ragazzi, che in quei tempi erano numerosi, amavano assistere alle operazioni pieni di curiosità; nessun particolare sfuggiva al loro sguardo. Ma, quasi sempre, la loro presenza era di ostacolo e di disturbo ai lavoranti.
Appena questi ultimi avevano preparato l'apposito tavolo con il materiale necessario e disposto il lavoro per dare il via alla fase iniziale, el saladèr, battendosi una mano sulla fronte, come se avesse dimenticato una cosa indispensabile, esclamava: «Porca miseria, manca l'atresso pi importante: el stampo dei salàdi! Come femo?». Rivolgendosi di botto ad un ragazzo disponibile diceva: «Ciapa sto saco, va dala fameja de contadini vissina o da qualche altra e dighe de prestarne el stampo dei salàdi e pòrtalo qua suìto».
Il ragazzo partiva, entusiasta di sentirsi utile, magari in compagnia di un altro coetaneo, interpellava più d'una famiglia finché qualcuno si muoveva e, non visto, metteva nel sacco alcuni ciotoli o pietre, lo chiudeva bene con una stròpa o con spago e lo consegnava all'interessato esortandolo vivamente a non deporlo mai a terra durante il tragitto poiché si trattava d'un congegno delicato e fragile. Il ragazzo dava assicurazione e ritornava a casa con il pesante fardello affaticato e sudato. Nel bel mezzo della cucina il sacco veniva aperto e nel vedere le pietre ed i sassi che conteneva tutti scoppiavano in una sonora e allegra risata. Il figliolo rimaneva mortificato, senza parole e presa coscienza d'essere stato burlato giurava in cuor suo di non cadere più in futuro nel medesimo tranello.
Note:
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