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La “Scuola per Tutti” Rivoluzione e Restaurazione
Travagliata e spesso disattesa rimase, sino ad un passato non troppo lontano, l’istruzione del popolo: non tutti potevano infatti accedervi con eguali opportunità e, da fatto d’élite a pubblico servizio, il passo non fu né semplice né breve.
Per tutto il Settecento la scuola di base costituì un privilegio gestito da precettori privati o da corporazioni religiose. Anche nel Veneto il Governo trascurò il problema, né i portati illuministici d’Oltralpe poterono gran che dinanzi all’analfabetismo di massa. Del resto, fra vessazioni fiscali, soppressione dei seminari e rivolgimenti politico-militari, i Francesi avviarono appena le loro riforme. Le scuole imposte nel 1802 da Napoleone ai Comuni furono guardate con diffidenza, anche se i rudimenti del leggere, dello scrivere e del far. di conto erano concepiti per entrambi i sessi (per le fanciulle si univano elementi di cucito e di cucina ). Le necessità dell’economia rurale e familiare, la convinzione di sottrarre braccia al lavoro, l’inadempienza delle amministrazioni impedivano la frequenza generalizzata.
Bisognò attendere l’Austria per avere, all’indomani della Restaurazione, un progetto più organico. Nel 1818 fu varata l’istruzione obbligatoria con due anni di scuola elementare minore e tre-quattro di scuola maggiore. Nei paesi funzionò solo il primo livello, in cui s’impartivano essenzialmente cognizioni pratiche, ma il salto di qualità era ormai avviato con la sua gratuità e obbligatorietà. In mancanza di una classe magistrale ancora da formare (cui si prescriverà di conseguire la “patente” con un corso appena trimestrale, o semestrale per le classi superiori), ci si rivolse al clero che, sostenuto in seminario un corso di metodica, diveniva – tra l’altro senza compenso - direttore della scuola del paese. Onorifico fu pure l’ufficio degli ispettori, tenuto sempre da ecclesiastici ma coordinato da funzionari governativi. Della scuola il sacerdote divenne maestro e garante, concorrendo a legittimarla nella comunità e, quasi per naturale estensione del ministero, prodigandosi ad istruire tanti ragazzi poveri e malnutriti. Neppure le gratifiche degli insegnanti laici furono cospicue, nonostante il pionierismo e la dedizione in classi assai numerose e in ambienti spesso malsani. Mantenendo il sistema col coinvolgimento della Chiesa (i parroci rimasero, fra l’altro, ufficiali di stato civile sino al 1866), la politica asburgica ebbe comunque il merito di aprire nel 1818 l’istruzione pubblica alle fanciulle, favorendo nei loro confronti una diversa coscienza e un graduale processo d’integrazione sociale. Ancora nel 1834-35 v’erano nella regione appena 21 scuole elementari femminili (con 3.948 alunne) a fronte di 1.417 maschili (con 77.874 scolari).
Nella visita pastorale compiuta fra il 1832 e il 1838 nella nostra diocesi, il vescovo Sebastiano Soldati poté constatare in quasi tutti i Comuni l’esistenza della scuola elementare, magari solo maschile, ma poco efficiente, spesso a carico dei sacerdoti che talora si limitavano a insegnare la dottrina cristiana, non essendoci, specie in campagna, che poca o nessuna cultura.
Ritardi e sperequazioni discendevano dalla mentalità del contesto e dai bilanci delle amministrazioni rette dagli estimati, ossia dai possidenti, che consideravano superfluo alfabetizzare i meno abbienti, privi di prerogative elettorali e di peso politico. Il conservatorismo e la rassegnazione di coloro che più avrebbero dovuto trarne beneficio limitavano pertanto l’attuazione della legge.
Attorno agli anni Quaranta si aprirono tuttavia in Veneto e nel Trevigiano i primi Asili per l’infanzia, e l’istruzione elementare contò valenti personalità in Michelangelo e Giovanni Codemo (quest’ultimo fondò il periodico “L’Institutore”, poi divenne ispettore regionale), in Vincenzo Bindoni, apostolo dell’istruzione popolare, o nell’abate Giuseppe Gobbato, chiaro professore ed ispettore distrettuale.
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