Abbecedario Ponzanese
LA MAESTRA BICE ... e Maestro TINO
Piero Pizzolon
Due sono stati i miei insegnanti delle scuole elementari, che ho frequentato a Paderno dal 1946 al ‘51. Il triennio con la maestra Bice e il biennio con maestro Costantino Dalla Toffola, detto Tino. Due sono stati gli edifici scolastici che ho conosciuto: per primo le vecchie scuole di Paderno Centro (attualmente Piazza A. Moro, lato nordovest), costruite nel Primo Novecento, in stile umbenino, a un piano rialzato, con scalinate e finestre centinate; in seguito conobbi l’adiacenza occidentale della barchessa di villa Cicogna, attualmente adibita di nuovo ad aule scolastiche.
Erano i tempi difficili e tempestosi del Dopoguerra, in cui faticosamente si andavano ricostruendo le istituzioni civili e il tessuto sociale del nostro Paese, come anche del nostro comune. Gli edifici scolastici avevano resistito alla furia bellica e ai vari usi cui erano stati destinati.
Quando a sei anni iniziai a frequentare la prima elementare non avevo coscienza dello stato di povertà e di degrado in cui ci si trovava, anche perché i miei genitori avevano una macelleria e non mi avevano mai fatto mancare nulla. Mia mamma mi aveva fatto confezionare dalla sarta Coppe un bel grembiulino nero con due tasche davanti e l’abbottonatura dietro, il colletto bianco e mi aveva comprato una cartella (sacheta) di fibra color marrone con tutto l’occorrente per scrivere c colorare. Era un cambiamento radicale rispetto al grembiulino bianco e il cestino dell’Asilo infantile, che avevo frequentato durante la guerra a Merlengo, in villa Gosetti. Ebbi anche un momento di paura e di rifiuto, sentendo dire che la mia maestra era grande e aveva una lunga bacchetta. Ma a casa mi ricordarono che se non fossi andato a scuola sarebbero venuti i carabinieri a prelevarmi.
Maestra Bice
La maestra Bice Caretta era mantovana di Castelbelforte e quando iniziò a farmi scuola era ormai giunta alla fine della carriera. l tre anni che feci con lei furono gli ultimi del suo lungo insegnamento, iniziato a Merlengo all’inizio del secolo e a Paderno nel ‘20. Era una donna molto alta, magra e peuinata con i capelli a scriminatura laterale formante due folte ciocche arrotolate a chignon (cocon) sulla nuca e trattenute con molletre di bachelite e pettini di osso. Vestiva con severe vesti scure che la coprivano fino alle caviglie. Aveva mani affusolate e occhi vispi e scuri, la voce alta e un po’ stridula. Ho bene in mente il suo portamento e come riusciva a tenerci attenti in classe. Io abitavo vicino a casa sua in via Roma. Lei abitava nella villetta vicina alla Casa del Fascio, in un sedime di villa Giacomelli-Sanorello, costruita da Giacinto Moro, agente dei possidenti trevigiani Giacomelli e nonno di suo figlio Marcello (detto Marcellone per la statura imponente, funzionario del Comune e gerarca locale durante il regime del Ventennio).
lo però la temevo ugualmente anche se le due famiglie erano in continuo contatto, ma alla fine del triennio diventai uno scolarello molto bravo e devoto di questa maestra, che a me come a tantissimi bambini del nostro comune aveva donato il sapere iniziale.
Quando si entrava in classe la mattina, dovevamo salutare con voce chiara ‘buongiorno, signora maestra’. I posti sul banco di legno erano fissati all’inizio dell’anno scolastico e di norma restavano fissi per l’intero anno. Non ricordo se ci fosse una bidella, ricordo però un armadio che custodiva delle bottiglie quadrate per l’inchiostro. Credo fosse compito della bidella riempire d’inchiostro i calamai di vetro allogati sul banco dipinto di vernice nera. Nero era il colore dominante, la veste della maestra, i nostri grembiuli, i banchi, lavagna e cancellino, l’inchiostro. Ma i nostri volti erano belli rosei, era la nostra primavera. Non mi sono rimasti molti ricordi di questa stagione della mia vita, però, come accade a tutti penso, il ricordo della prima maestra si aggrappa fortemente nella memoria e si enuclea in alcune immagini così vive e bene stagliate che mantengono una forza evocativa superiore a tante altre che il tempo riesce a obliterare.
Ricordo la maestra Bice quando, nei mesi invernali, incrociando le braccia dietro la schiena si avvicinava alla grande stufa di terracotta a destra della cattedra. La stufa era composta di camere ceramiche per trattenere l’aria calda, a piu piani, fino a tre o quattro a seconda dell’ampiezza dell’aula. Legna non ce n’era molta e bisognava essere molto parsimoniosi, come diceva il primo cittadino Giovanni Mattiazzo, chiamato il ‘sindaco contadino’, abituato a riscaldarsi nella stalla o vicino alla cucina economica. Mentre maestra Bice, sempre con la sua soffice sciarpa al collo, ascoltava le nostre stentate e scandite letture addossata alla tiepida stufa, talvolta d’improvviso correva alla cattedra a impugnare una piccola bacchetta di sanguinella e poi si precipitava dritta verso il malcapitato alunno che si era ingarbugliato nella lertura. Bisognava stendere ambedue le mani sul banco e sopportare qualche leggera bacchettata, in qualche caso, provvidenziale per certe intemperanze. Era una punizione sempre e comunque avvalorata dai genitori, per un segreto patto di intesa educativa fra le due palti responsabili.
Un altro ricordo particolare della maestra Bice riguarda il rito del caffè durante la ricreazione. La signora Bice Caretta come tutte le maestre o i maestri del paese faceva parte di un corpo sociale piccolo ma comparto che, specie nell’Era Fascisra, raggiunse un certo benessere e costituì una piccola borghesia responsabilizzata a far progredire la comunità. Anche la maestra Bice, vivendo con il figlio e la nuora Germana Lise, pure lei valentissima maestra, che in un certo senso ne continuò la missione pedagogica, oltre la bella casa con giardino, orto e brolo e alcuni agi tipici del suo ceto sociale, aveva a suo servizio una domestica buona e servizievole chiamata Bia, dedita con cura a disbrigare tutti gli impegni casalinghi. Indimenticabile la scena. Quando alle dieci e mezzo iniziava la ricreazione vedevo arrivare da via Pioppe la Bia recante in mano un vassoio luccicante con centrino ricamato, una piccola cuccuma di alluminio con presina calzata sul manico, una tazzina di porcellana e zuccheriera. Mentre la ricreazione si avviava ad animarsi con gran vocio e grida quasi si scatenassero gli spiriti infernali, la Bia si faceva spazio per trovare un varco fra gli scolari che sfrecciavano da tutte le direzioni con le batate americane in mano per merendina, salutava con dolce sorriso qualche alunno come me che la riconosceva, fino ad arrivare alla nostra maestra per servirle il caffè caldo. Che fosse caldo è dubbio perché il percorso ella Bia dalla casa alla scuola era di circa quattrocento metri. Ciononostante la maestra Bice con fare signorile prendeva piattino e tazzina colma di caffè versatole dalla Bia e, con gesto inusuale e forse fuori le regole del galateo, versava piu volte, con i’intento di raffrecldarlo, il caffè sul piattino, da cui lo assorbiva a piu riprese con le labbra tremanti. Poi il gesto finale col cucchiaino a raccogliere lo zucchero tutt’intorno al fonclo clelia tazzina. Con la neve la cerimonia avveniva dentro l’aula e così potevamo scrutare meglio tutti i particolari del rito.
Ricordo molto bene il grande pallottoliere con le grosse e leggere sfere di legno colorato che lei faceva scorrere sul filo di ferro con le lunghe mobili mani. Era bella e forte la sua figura, per noi altissima e inavvicinabile, mentre era intenta a insegnarci le somme e le ‘sotre’ su quello strano trespolo, che noi dovevamo seguire contando sulle dita della mano. L’altro strumento era la canna lunga quasi due metri necessaria per indicarci le regioni i fiumi le catene montagnose d’Ttalia sulla grande carta geografica. Quando qualcuno di noi non ricordava dove correva un fiume, maestra Bice ci passava la canna e voleva che indicassimo il percorso di quel fiume. Ma bastava che la maestra volgesse lo sguardo verso le finestre per indurre fulmineamente l’interrogato a rivolgere la canna dalla carta geografica contro il compagno piu catturabile. Visitando recentemente l’Archivio comunale che conserva i registri delle Elementari, ho scoperto la scrittura della maestra Bice: un corsivo fluido e calligrafico con bei grassetti a titolazione. Conservo quasi tutte le pagelle da lei firmate, ma non ho piu i primi quaderni delle aste e delle lettere alfabetiche ripetute centinaia di volte fino alla perfezione grafica. Non era molto paziente ma ci dava fiducia, pur essendo per carattere una donna severa.
Col giugno del ‘49 io fui promosso in quarta e così il mio corso elementare proseguì col giovane maestro Tino, un maestro con i capelli a spazzola che portava allegria, conosceva nuovi sistemi didattici fondati sull’iniziativa percettiva e fantastica dell’alunno; lanciava gomme e cancellini come gli aborigeni il boomerang; ci faceva costruire con assicelle di legno che ci offrivano i marangoni e con le latte dei ‘bussolotti’ stupendi attrezzi agricoli e d’uso domestico in miniatura e funzionanti, poi per premiarci li appendeva alle pareti. Talvolta giocava con noi, ma il suo sguardo, all’occorrenza, diventava temibile. Altrettanto il suo sorriso, incoraggiante e paterno, trasmetteva sicurezza.
Maestra Bice andò in pensione a 68 anni, dopo quasi mezzo secolo di insegnamento. Per i suoi alti meriti di dedizione all’educazione scolastica, alcuni anni dopo il Ministero della Pubblica Istruzione le conferì la Medaglia d’Oro.
L’ultima immagine che conservo di maestra Bice risale al periodo del suo ritiro in pensione. Sedeva in lettura sotto l’ombroso tiglio di casa sua, ora sopravissuto a varie distruzioni urbanistiche, oppure di mattina veniva pettinata dalla feclele Bia sempre all’ombra odorosa di quell’albero.
Bice Caretta è stata una maestra che si è confìgurata in modo esemplare a quel modello di maestra elementare nato negli ultimi decenni dell’Ottocento e che ha trovato pienezza di ruolo e di missione nella prima metà del secolo scorso.
A tutti i Maestri e le Maestre, che in varie epoche, hanno insegnato nelle scuole del Comune di Ponzano Veneto e che qui, non certo per negligenza, ma ahimè per mancanza di tempo e di spazio, non vengono citati, va la riconoscenza e l’affettuoso ricordo degli scolari di allora.
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