A Spasso per le Antiche Osterie di Ponzano

Prefazione

Sante Rossetto

imageDa destra Ettore Pretotto e Pietro Michielon con amici commercianti a Recoaro nel 1936.

C’era una volta l’osteria. Luogo di culto laico non sempre circondato da buona fama. E talora anche male in arnese. Il pio frate Tomaso Garzoni, che considerava l’osteria una fucina e un fomite di peccato, liti e malaffare, la rappresentava “tutta sfessa e smantelata, una camera sbuccata, ruinata e sostentata per forza di pontelli, ricetto di topi solamente”. Ma, per non far mancare nulla, si dovevano aggiungere anche pulci e pidocchi. E i frequentatori si presentavano in genere provvisti di coltello alla cintura. Posto da metterci piede il meno possibile.

E, ciò nonostante, l’osteria fu per secoli anche luogo di ritrovo e informazione. Qui arrivavano notizie portate dai forestieri di passaggio; da qui partivano insieme con i clienti nuove curiosità. Durante il governo serenissimo l’osteria era, quasi sempre, di proprietà di qualche nobile che la affittava. E in questi locali si vendeva il vino che il patrizio veneziano o veneto raccoglieva dai suoi possedimenti.

Poi anche per l’osteria, o hostaria oppure ostaria, è venuto il tempo di modernizzarsi. Abbandonato il ruolo di locanda, debellati topi, pulci e abusivi vari, l’osteria ha svolto il ruolo di salotto paesano rigorosamente riservato agli uomini. Ogni paese ne aveva un determinato numero con frequentatori rituali. E se entrava uno sconosciuto subito ci si chiedeva chi fosse e come mai si trovasse da quelle parti.

Prendevano il nome dei loro padroni: da Mioto, da Pisiol, da Frigo, dalla Giacomina, da Biscaro, da Pretoto, da Miceon. Oppure dal luogo: Al Baston, da Loschi, al Morer. E l’elenco offrirebbe toponimi quasi tutti cancellati, ma simbolo di un tempo antico ormai addormentato dentro documenti d’archivio.

Ma prima, qualche secolo avanti, le denominazioni almeno in città erano più fantasiose, oltre che indicative di peculiarità specifiche. Si trovavano quelle “Ai Tre Garofali”, “Alle Quattro Corone”, “All’Impossibile”, “Alla Pontariola”, “Alla Malvasia” dove si poteva gustare quel vino greco riservato a tasche ben fornite.

L’osteria era, anche, il centro morale (sempre in senso strettamente laico) del colmello. E ogni paese era orgoglioso che la propria osteria avesse buona reputazione.

Almeno per la bontà del vino. Perché in osteria il signore assoluto era lui, il liquore di Bacco. Che, qualche volta se non spesso, era migliore di quello che i contadini bevevano nelle proprie case. Perché il bianco con i primi caldi faceva el rabaltòn, diventando un imbevibile liquido color caffelatte. Il vino i contadini non lo “trattavano”, al massimo ci versavano dentro il bisofito che non bastava a conservarlo. Quando bevevano un gotto al banco tutti facevano il confronto con il loro. Se quello dell’osteria era migliore si limitavano ad accennare con un monosillabo che “sì”, si beveva. E malcelavano il dispetto di non saperlo fare anche loro come quello.

Entrando, davanti al cliente si ergeva il bancone di mescita. Arcigno, solido, immobile e muto testimone di ciàcole, qualche litigio, maldicenze, affari. Quotidianamente spruzzato e imbevuto di rotonde chiazze nerastre lasciate dal gotto di robusto vetro resistente a qualsiasi caduta. E, dietro, il padrone affaccendato a travasar bottiglie, resentàr litri e bicèri, con un sorriso sempre pronto per i nuovi clienti cui chiedeva se avevano novità. Che, poi, lui avrebbe prontamente offerto ai conoscenti. Se il padrone era in giro (perché gli affari li conduceva lui e lui solo) il bancone era custodito dalla parona, spesso bella norbia, con la immancabile traversa, le gote rubizze, intenta a spolverare le scansìe, perché – a sentirla – nessuno si preoccupava di farlo e i clienti dopo criticavano e ne andava del buon nome.

Fuori, sopra l’architrave d’ingresso, l’insegna quasi sempre accomodata alla meglio da qualche imbianchino del posto in cambio di un paio di litri di bianco. Il pavimento, non raramente sghembo, era formato da mattoni lucidati e scavati da annose pedate di zoccoli e scarpe rattoppate. Qualche tavolo massiccio, un imprecisato numero di sedie impagliate costituivano l’immancabile arredo dove si accucciavano il sabato sera e la domenica, dal pomeriggio alla mezzanotte, gli uomini in accanite, anche se silenziose, partite a tresette.

Ogni osteria doveva avere, se non voleva essere declassata, la corsia per la borella e quelle per e bàe. La prima era teatro di sfide maschie e furenti tra i ventenni del colmello e del paese. Fragorosi schianti di bàe sui soni (pesanti birilli di circa mezzo metro) o sugli steccati testimoniavano del valore del lancio seguito da speranze, incitamenti e qualche cos’altro. I giovanotti si affrontavano a testa alta, con i capelli al vento, la camicia discinta, il braccio ingrugnato nello sforzo.

Gli uomini sposati, invece, con il cappello calcato, misuravano la loro bravura nella precisione del tiro o nel colpo secco contro la boccia avversaria.

Poi arrivava il tempo di andare a casa a varnàr e vache e le corsie si svuotavano, ma non quella della borella perché i giovanotti la domenica potevano star fuori, sperando magari di trovare morosa.

Il gran giorno dell’osteria era la domenica. Si aprivano presto le porte. Ma era soltanto un obbligo “pubblicitario”, perché la messa prima, che era quella delle donne, non forniva clienti. Alle donne era tacitamente vietato entrare in osteria. Da sole, ma anche in compagnia di qualche amica, era roba da parlarne per settimane e ricordarlo per mesi. I bambini men che meno. L’osteria si affollava dopo la messa dei òmeni, l’ultima. Quasi nessuno rinunciava a quell’appuntamento settimanale con gli amici e i conoscenti per fare il resoconto dei lavori appena finiti, consigliarsi su quelli da svolgere. Si beveva l’aperitivo di bianco, ma qualcuno magari di famiglia più benestante ordinava ‘na ruta o ‘na prugna. Le bottiglie dei liquori troneggiavano, stanche di una lunga permanenza sulle scansìe, aspettando qualche raro cliente che le gustasse.

Al tocco del mezzogiorno la osteria si sci-aredàva con l’usuale arrivederci il pomeriggio. Che era anche il momento che i bambini potevano intrufolarsi in osteria con la scusa di un gelato o di andare a vedere la potenza muscolare dei giocatori di borella e imparare come avrebbero fatto anche loro di là a qualche anno. Ma non sarà così perché quando avevano raggiunto l’età l’osteria aveva concluso il suo ciclo storico e la borella sostituita dal bowling.

L’unico momento concesso alle donne di affacciarsi all’osteria era quello della sagra. Ma solo il pomeriggio, dopo il vespero con la processione, al braccio del loro uomo. Se si era un po’ avanti con la stagione, come accadeva con la festa del Rosario, la famiglia si sedeva al tavolino sotto la pergola e ordinava un cartoccio di castagne arroste con un litro di vin bianco novo. Che era torbido e dolce, ma bisognava berlo con moderazione perché era ancora in fermentazione e el moveva a pansa. Ma era anche un sotterfugio per non berne un gotto intero. Che gli altri avrebbero osservato una donna tracannare un gotto pieno di vin novo. Che non stava bene una donna bere tanto; il marito sì, ma lei no. Così, versando nel bicchiere, quando era arrivato a metà, si affrettava a dire: “Basta, basta, par carità che dopo el me fa mal”. Tutti annuivano, ma sapevano che ne avrebbe bevuto ben volentieri un gotto colmo e che per berne ancora doveva aspettare un altro anno.

C’erano osterie che avevano anche cucina e qualche tardo scapolone ne approfittava per gustare un piatto di trippe co el formajo grana o na feta de museto col cren. Che lui a casa non aveva nessuno che gli procurasse tali leccornie.

L’osteria ha svolto anche un fondamentale ruolo sociale. Fino agli anni sessanta quando a far el rabaltòn fu tutta la società. Il mondo era cambiato. Proprio rovesciato. E con il mondo anche l’osteria. Sono arrivate lambrette e vespe, il carrettino dei gelati artigianali è stato sostituito da quelli confezionati con la cioccolata sopra che faceva impazzire di golosità bambini e ragazzini. Con l’escalation della motorizzazione di massa i giovani hanno scoperto nuove realtà, nuove conoscenze, altri passatempi nelle balère, occupato le poltrone dei cinema cittadini mandando in soffitta le sale parrocchiali dove film con pudibonde scollature erano severamente vietati. In pochissimi anni il vespero domenicale è diventato superfluo e nemmeno i bambini ci andavano più. I venditori ambulanti di dolciumi e granatine sono rimasti disoccupati, la corsia della borella si è svuotata quasi subito e per giocare ae bàe ci si è rifugiati nei bocciodromi. E allora l’osteria a chi serviva più? A fianco sono sorti ritrovi alternativi, i bar con i nuovi prodotti del consumismo, con i giochi di bravura, i juke- box dei cantanti urlatori. In una manciata di tempo l’osteria è entrata nella memoria storica insieme con i suoi non più giovani e ultimi frequentatori. Sulle corsie è cresciuta rabbiosa l’erba, le bocce sono rimaste inattive sommerse dalla polvere, il bancone odoroso di vino è ammuffito di noia e tristezza entrando in qualche negozio di antiquario o, peggio, buttato inutile e ingombrante in un angolo.

Addio secolare osteria, addio vecchie stanze piene di ricordi e di camicie sudaticce, pavimenti consunti di scarpe strusciate, careghe tante volte rivoltate quando il gioco andava male. Là dove è vissuta tanta parte di storia dei nostri paesi. Con un po’ di rimpianto di chi vi ha conosciuto e amato. Una volta c’era l’osteria.

* * *

Questa pubblicazione è un testo di storia annalistica. Cioè di quella storia quotidiana che senza la passione e l’impegno di innamorati del nostro passato andrebbe perduta. In queste pagine fluisce l’anima popolare di pochi decenni fa. Inutile scrivere che dobbiamo conservare le nostre radici. È stato scritto e ripetuto fin troppo ed è quindi superfluo rimarcarlo. Va, però, notato che lavori come questo, come quello sui capitelli e sulla scuola, sono punti preziosi che dovrebbero essere maggiormente valorizzati e conosciuti. Chiamando in causa le istituzioni di varia natura, non sempre molto attente e sensibili a quanto viene proposto.

Questo ulteriore documento di microstoria paesana apre un sipario che era stato chiuso mezzo secolo fa lasciando come documentazione qualche stabile, ormai cadente, che ospitava una osteria. Oggi la società scorre troppo veloce. I decenni svolgono cambiamenti che in altre epoche si snodavano in secoli. Quindi non perdere tracce così importanti è un grande merito delle associazioni che vi si applicano con la passione e l’amore dei neofiti. I loro sforzi, talora non adeguatamente compresi, saranno apprezzati dai posteri. O almeno lasciateci questa speranza.

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