Le Rondini di Ponzano Veneto

I migranti si raccontano

Ai questionari hanno risposto persone nate in prevalenza negli anni trenta, esclusi alcuni emigrati bambini al seguito dei genitori o altri più giovani emigrati nella vicina Svizzera negli anni settanta.

L’età media alla data dell’emigrazione oscillava fra i 18 e i 25 anni,  sempre con l’eccezione di bambini o anziani a seguito della famiglia.

Le date di emigrazione vanno dal 1948 al 1959. Pochi sono partiti in date diverse, la maggior parte da soli.
Qualcuno con tutta la famiglia, altri in compagnia di amici o conoscenti.

Quasi tutti gli intervistati sono nati a Ponzano Veneto o vi abitavano al momento della emigrazione.

Dal punto di vista culturale l’unico titolo di studio posseduto era quello della scuola elementare e nessuno ha conseguito all’estero un titolo superiore, ad eccezione di chi, emigrato bambino ha frequentato le scuole superiori all’estero.

Le famiglie di origine dei migranti erano generalmente molto numerose. Comprendevano da un minimo di quattro persone, per arrivare, nella media, a otto o dieci componenti ma c’erano anche famiglie di diciotto persone e una di ventiquattro.

I migranti più anziani esercitavano in prevalenza la professione di contadini o casalinghe. Solo in tempi più recenti ci sono stati dei decoratori edili, stuccatori e sarte, un fornaio e un direttore tecnico calzaturiero.

I motivi che hanno indotto ad emigrare sono stati fra i più disparati.

C’è chi se ne è andato perché spinto dal desiderio di evitare il servizio militare, chi desiderava ricongiungersi per contrarre matrimonio, chi invece è stato attratto dalle bellezze del posto visitato prima per turismo.

Di fondo però a spingere tutti a cercare fortuna all’estero, sono state le precarie condizioni economiche dell’Italia e una diffusa disoccupazione.

L’emigrazione a volte spontanea, a volte indotta dal richiamo di altri parenti o amici già all’estero, altre invece, suggerita dalle organizzazioni sindacali o favorita da particolari leggi dello Stato, offriva l’opportunità di una retribuzione sicura e di migliorare le condizioni economiche proprie e quelle di tutta la famiglia.

Chi partiva già conosceva la meta finale, ma non ha avuto l’immediata opportunità di scegliere né il paese di destinazione né il lavoro.

Il distacco quasi mai è stato indolore.

Trattandosi sempre di giovani, i genitori erano per lo più rattristati per non essere riusciti a offrire ai figli delle alternative, ma data la situazione socio economica, erano rassegnati, anche se quasi sempre contrari alla partenza. Nonostante tutto erano convinti che l’emigrazione fosse l’unica maniera per uscire dalla miseria.

I principali paesi di destinazione furono il Canada, l’Australia, la Svizzera, il Belgio, la Francia e il Centro America. Chi partiva per la Svizzera o l’Australia doveva sottoporsi a visite mediche di controllo.

L’unico documento richiesto era il passaporto che veniva regolarmente controllato alle frontiere o nei porti di arrivo.

In qualche caso era richiesto preventivamente il contratto di lavoro o il certificato penale. Non è mancato chi è partito con una lettera di raccomandazione del proprio parroco.

La preparazione dei documenti non ha creato particolari difficoltà ai partenti che si sono quasi sempre arrangiati da soli. Qualcuno è stato aiutato dai sindacati. Uno solo si è rivolto a una agenzia di viaggi.

I mezzi più usati per il viaggio sono stati due.

Il treno per i movimenti continentali e la nave per le attraversate oceaniche. Solo in un caso più recente è stato usato l’aereo.

La durata del viaggio era di un giorno per la Svizzera e la Francia, due per il Belgio, circa quindici per il Canada e trenta per l’Australia.

Pur con un profondo senso di tristezza per aver lasciato la propria casa e i propri affetti, la giovane età dei migranti e le tante speranze riposte in questa avventura hanno fatto si che il viaggio specialmente in mare, diventasse una buona occasione di divertimento e di socializzazione, nonostante le disavventure e la paura delle burrascose tempeste.

Pochi ricordano quanto hanno speso per i viaggi, ma tutti hanno espresso la sensazione che il costo fosse elevato per i redditi dell’epoca.

Grazie ad accordi internazionali o a disponibilità di ditte bisognose di manodopera, alcuni fortunati emigrati in Australia e in Svizzera, hanno usufruito di viaggio gratuito e di un contributo per la prima sistemazione.

I soldi per il viaggio qualcuno li aveva guadagnati con il proprio lavoro ma buona parte ha dovuto chiederli in prestito a parenti o amici.

Uno, intenzionato a non tornare più, ha venduto quanto possedeva.

L’arrivo in terra straniera, ha lasciato un ricordo di felicità e soddisfazione anche se misto a stordimento e preoccupazione.

La maggioranza è stata accolta da amici, parenti o autorità locali.

Chi non ha avuto la fortuna di essere accolto, si è sistemato provvisoriamente in modesti e vecchi alloggi di fortuna o in baracche di legno, spesso sprovviste di servizi igienici.

Qualcuno è stato costretto alla coabitazione con amici occasionali, in attesa di una sistemazione più dignitosa e soddisfacente. In queste condizioni ognuno si arrangiava per le faccende domestiche.

Dopo pochi giorni tutti hanno cominciato a lavorare alle dipendenze, e la maggioranza ha continuato ad esercitare la stessa professione per tutto il periodo di permanenza all’estero. Solo pochi, spinti dal desiderio di migliori condizioni di vita o di esercitare una attività in proprio o più remunerativa, hanno cambiato lavoro e residenza.

Trattandosi di persone senza particolari qualifiche professionali il lavoro poco qualificato era quasi sempre faticoso e spesso insalubre.

L’impellente bisogno di guadagnare e la voglia di riscatto, hanno fatto accettare qualsiasi lavoro. Pochi fortunati hanno esercitato la professione appresa in Italia e pochi al loro rientro in patria hanno esercitato il mestiere appreso all’estero. Il lavoro non dava troppo spazio al tempo libero, ma qualcuno è riuscito a esercitare una seconda attività in proprio.

Dalla lettera pubblicata nella pagina successiva, si capisce che una della maggiori preoccupazione dei migranti di fine ottocento era la rimessa di denaro ai familiari in patria. Anche in tempi più recenti le diverse condizioni socio economiche dei paesi ospitanti e la regolarità nei pagamenti degli stipendi, facevano si che i compensi percepiti fossero considerati buoni o soddisfacenti. Chi non effettuava periodiche rimesse di denaro, riusciva a risparmiare in vista del rientro.

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  Lettera di un migrante preoccupato della destinazione delle sue rimesse

Salvo qualche caso, il rapporto con i datori di lavoro è stato sempre buono se non ottimo, con la quasi totale assenza di conflitti sindacali.

Dopo le prime difficoltà di sistemazione e salvo qualche caso, l’abitazione a volte messa a disposizione dalle imprese, era vicina al posto di lavoro che veniva raggiunto a piedi, in bicicletta o con mezzi pubblici.

Nei posti di lavoro erano presenti molti connazionali che presto sono diventati gli amici più intimi, ma non mancavano lavoratori di altre nazionalità, accomunati dalle stesse esigenze e con i quali nessuno ha trovato difficoltà a rapportarsi.

Il tempo libero era trascorso fra amici anche in locali pubblici o circoli di italiani, passeggiando, giocando a calcio o studiando. Era preferita la compagnia dei connazionali. Le nuove amicizie fatte all’estero sono tuttora coltivate da molti sia con Italiani che con stranieri.

Diverso invece il rapporto con la popolazione locale.

Sono state espresse opinioni molto contrastanti che vanno dall’essere visti molto bene o molto male, all’essere trattati con diffidenza e tenuti a distanza o considerati dei deportati politici. Qualcuno ha affermato che la considerazione dei locali dipendeva dal comportamento di ognuno.

Sotto l’aspetto sanitario nessuno ha lamentato particolari malattie.

La sanità locale è stata molto apprezzata, anche se in Svizzera bisognava anticipare le spese che venivano poi parzialmente rimborsate.

Entrando nella vita privata, è stato rilevato che alcuni migranti non si sono mai sposati, quattro erano già sposati ma la maggioranza si è sposata durante il periodo di permanenza all’estero. Fra questi ultimi, cinque hanno contratto matrimonio all’estero, altri si sono sposati in Italia organizzando una breve vacanza per la cerimonia. Nessuno ha contratto matrimonio per procura anche se allora questo istituto era molto in voga. Dal matrimonio sono nati figli sia in Italia che all’estero.

Chi ha studiato all’estero ha frequentato le scuole pubbliche locali.

Qualcuno, consigliato dai genitori, ha seguito privatamente dei corsi di italiano per non perdere il legame con la patria.

Forti sono stati per tutti i legami con la famiglia, sia con lettere periodiche che per mezzo di brevi vacanze per chi lavorava in Europa.

La nostalgia di casa portava a festeggiare le tradizionali ricorrenze e   mantenere abitudini culinarie e organizzare feste e sagre paesane.

Due aspetti importanti che hanno interessato la vita dei nostri migranti sono stati la lingua e la cittadinanza.
Dato il livello culturale dei migranti, la maggioranza ha avuto per diverso tempo, molte difficoltà legate alla incapacità di comunicare.

Lavorando con altri italiani già presenti da tempo, molti hanno avuto la fortuna di imparare la lingua straniera un po’ alla volta.

Altri l’hanno appresa frequentando stranieri e locali pubblici e quasi tutti, dopo tanti anni la ricordano ancora e la parlano occasionalmente.

Nonostante le difficoltà di comunicazione, nessuno ha frequentato corsi di alfabetizzazione.
La cittadinanza straniera mai ha creato problemi. Nessuno ha acquistato la cittadinanza del posto anche se ci sarebbero state delle agevolazioni.

I figli nati all’estero in Australia o in Canada hanno avuto per nascita la doppia cittadinanza e la conservano tuttora anche se rimpatriati.

Per molti la migrazione è stata l’occasione di conoscere e apprezzare le bellezze artistiche e naturali di paesi e mondi sconosciuti e di vivere in condizioni climatiche completamente diverse da quelle italiane.

Nonostante questo quasi tutti hanno dichiarato di stare meglio in Italia.

I ricordi che molti portano nel cuore del paese che li ha ospitati, vanno dalla perfezione dei servizi pubblici, al diffuso benessere, all’ordine e alla pulizia nelle strade e nelle piazze, alla maestosità del paesaggio e dei parchi. Alcuni ricordano con piacere gli animali esotici visti in libertà e c’è chi vorrebbe provare ancora il piacere di una serata al “drive-in”.

Delle persone incontrate molti ricordano la gentilezza, la cordialità, la fedeltà alla parola data, l’educazione e la maggiore cultura e istruzione. Qualcuno si è limitato ad un laconico “tutto il mondo è paese”.

L’ultimo tema affrontato è stato quello della pratica religiosa. La scoperta di nuovi credo religiosi, diversi dall’unico praticato nel nostro paese, non ha creato problemi perché ognuno era libero di professare la propria religione. Dove c’era la chiesa chi voleva la frequentava, anche se le preghiere recitate in lingua locale risultavano incomprensibili e qualcuno seguendo le diverse fasi della liturgia le mormorava in latino.

La nostalgia dell’Italia e la lontananza dalla famiglia e dagli amici è stata la malattia che ha colpito tutti i migranti.
Qualcuno ha sentito anche la nostalgia del clima italiano.

Il tempo medio di permanenza all’estero è oscillato dai 4 ai 15 anni.

Il desiderio di dare una istruzione tradizionale ai figli è stato il principale motivo di rimpatrio. Altri sono tornati dopo aver raggiunto una discreta fortuna economica. Qualcuno è rimpatriato per motivi di salute sua o di un familiare, altri per tenere unita la famiglia che per tutti è sempre stata al centro dei pensieri e di ogni decisione.

Se la maggior parte si è dichiarata contenta di tornare in Italia molti hanno manifestato del rammarico per non essere potuti rimane all’estero e dichiarato di essere tornati per necessità.

Alla richiesta di come sono stati accolti al loro rimpatrio da familiari e paesani tutti al contrario di quando sono partiti hanno riferito di essere stai accolti bene, escluso uno che non ha voluto esprimersi.

Nessuno ha avuto difficoltà a reinserirsi in famiglia, nel paese e nel mondo del lavoro.

Tutti hanno delle foto ricordo del periodo trascorso all’estero ma quasi nessuno ha conservato documenti come passaporto o contratti di lavoro.

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