A Spasso per le Antiche Osterie di Ponzano

La Cucina Della Tradizione Veneta

Alessandro Bianchin

La cultura gastronomica veneta inizia a partire dal secolo XIV, quando a Venezia si incontrano tradizioni locali e nuovi sapori, tra cui le spezie che giungono dall’Oriente, principalmente via mare, dopo varie traversie.

Ecco allora sorgere in città, vicino a S. Giacometto, la “Ruga degli spezieri”.

Primo fra tutti è il pepe a conferire carica di novità e verve all’indigeno broetto (zuppa di pesce dei veneziani) e via via il cardamomo, il malabatro, i profumatissimi zenzeri e cannelle di Malabar (penisola indiana), lo zafferano, il coriandolo, il comino (poi cumino), per arrivare allo zucchero che, con la complicità dei veneziani, scalza le antichissime blandizie del miele e, per finire, le broche de garofalo (chiodi di garofano) citati anche da Dante nell’Inferno E Nicolò, che la costuma ricca
Del garofano prima discoperse
Nell’orto, dove tal seme s’appicca
(“Inferno”, Canto XXIX)
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Le spezie, oltre a dare sapori particolari e nascondere odori dovuti a mancanza di metodi di conservazione, venivano assunte come medicine per regolare digestione e umore, anche se il celebre cuoco Bartolomeo Scappi consigliava di non abusarne Bartolomeo Scappi, celebre cuoco principe, denominato il Michelangelo della cucina.
Di origine lombarda, ma trapiantato a Roma, servì ben quattro Papi, tra cui S. Pio V di cui diventò “cuoco segreto”, cioè personale.
Pubblicò a Venezia nel 1570 L’arte del cusinare e, secondo il noto gastronomo Giuseppe Maffioli, l’opera dello Scappi è più vicina alle abitudini gastronomiche venete di quanto non lo sia quella del Messisburgo Libro novo nel qual si insegna a far d’ogni sorte di vivande, pubblicata a Ferrara nel 1549 e a Venezia nel 1552, ritenuta una pietra miliare della storia della gastronomia europea del Rinascimento.
Altra interessante pubblicazione gastronomica, stampata a Treviso nel 1693, citata dal Maffioli nella Cucina Trevigiana del 1983 e segnalata dallo scrittore Sante Rossetto, è EPULARIO.
In essa vengono citate alcune “sofisticazioni” piuttosto curiose tra cui: “per fare del vino bianco dolce” ed altre. Alla fine del volumetto (9 x 14 cm), come un supplemento, vi sono scritti dei consigli “a fare la pasta comune da ogni sorta di una o due sfoglie” e “a fare pasta matta”.
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Sempre dall’Oriente giunge a Venezia il riso che, all’inizio, viene venduto nelle spezierie a prezzo altissimo, poi, coll’avvento delle coltivazioni nell’entroterra veneto, a prezzi più accettabili.

Un certo Pierantonio Michiel, botanofilo del ’500, diceva che, oltre ad essere adoperato “in diversi mangiari et molti modi, rende molta utilità massime al povero per minestra, sparagniando il pane”.

Il piatto per eccellenza dei veneziani era risi e bisi, esso veniva servito il giorno di San Marco alla mensa dogale.

I veri risi e bisi, piatto considerato da sempre una minestra, si facevano con un pestesin di pancetta, cipolla, prezzemolo e brodo di carne, calcolando per persona un mestolo e mezzo di liquido contro una tazzina di riso e aggiungendo a fine cottura una manciata generosa di formaggio, un pizzico di pepe e di finocchio. Ora la versione dei risi e bisi è stata rivisitata omettendo la pancetta e il finocchio.

Tra i vari tipi di risotto che hanno reso famosa la cucina veneta sono da ricordare: il risotto con la lugànega e quello coe sécoe.

Le luganicae tarvisinae fin dai tempi più remoti erano molto considerate, tant’è che nel 1382 un podestà stabilì che dovevano essere sequestrate tutte quelle salsicce che risultassero confezionate, anche solo in parte, con altre carni che non fossero quelle suine. Un tempo, anche non troppo remoto, a Treviso si distingueva tra luganega da rosto o da brodo. Quella per minestra era bianca e per realizzarla si usavano esclusivamente pancette mondate della cotenna, il cui impasto veniva condito con il sale e la famosa “dosa trevisana”, un miscuglio segreto e ben dosato per quantità e qualità di spezie che conferiva sapore e profumo al tutto.

L’ultimo speziere di Treviso che era in possesso di questa esatta dose di spezie fu Ugo Perissinotto della drogheria “ai Soffioni” dietro al Palazzo dei 300, il quale celava il segreto pure al Maffioli che era assai curioso di conoscere la famosa “dosa trevisana”. Altro risotto, purtroppo andato nel dimenticatoio a causa dell’agiatezza e dell’abbondanza dei nostri tempi, ma che merita di essere citato è quello coe sécoe, ovvero con listarelle di carne aderenti alle vertebre dei bovini, che i garzoni dei macellai pazientemente ricavavano quando scarnificavano le ossa.

Comunque il piatto simbolo della cucina povera del Veneto rimane la polenta Dal latino puls-pultis, farinata di farro o miglio - polenta..

A Venezia, prima della scoperta dell’America, esistevano dolci rustici fatti con farina gialla, la polenta era di farina di farro, cereale più grosso e duro del comune frumento Nel De honesta voluptate et valetudine del Platina (Bartolomeo Scappi), alla fine del XIV secolo, troviamo citata la polenta di farro come piatto di comune diffusione. . Inoltre verso la metà del XVI secolo si preparava la polenta con il grano saraceno. Dopo la scoperta del Nuovo Continente, il mais Mahis lo chiama Colombo, imparando il termine dagli indigeni dell’isola di Hispaniola. , diventa quasi subito il sostentamento del popolo e simbolo della cucina rustica.

La polenta di granoturco risolve i molti problemi di alimentazione delle popolazioni povere: la dieta di un adulto consisteva infatti nel mangiare polenta tre volte al La polenta di granoturco risolve i molti problemi di alimentazione delle popolazioni giorno, abbrustolita per marenda, bollente a mezzogiorno e di nuovo abbrustolita a cena. Ci sono voluti decenni prima di capire che la pellagra era conseguenza del continuo consumo di polenta e della relativa mancanza di vitamine!

Nel Polesine e nel padovano si preparavano minestre, fatte sempre con farina di mais, che prendevano il nome di malafanti, oppure ci si arrangiava preparando specie di sope con erbe lesse o radicchi conditi con lardo e aceto. Questa che potremmo definire “cucina della sopravvivenza”, permetteva di barcamenarsi anche nei momenti di maggior difficoltà.

Fino a qualche tempo fa, la polenta era considerata un pasto vero e proprio, come ad esempio i famosi pestarei, nient’altro che polenta morbida e latte freddo con l’aggiunta, per chi poteva, di un cucchiaio di zucchero: un vero e proprio “magnar da re”!!

Arrigo Boito, iscritto all’Ordine dei polentoni, canta i pregi della polenta e ne tesse un elogio dal titolo piuttosto lungo: “La spatola / ossia / l’arte de menar bene la polenta / e de metterghe el tocio / allegoria / de Arlechin Batocio / moreto bergamasco e mezzo mato / el qual la ofre / dedica e presenta / ai omeni politizi de Stato”.


Nel Veneto, da tempo immemorabile, esiste una vera e propria civiltà delle osterie dove gestioni famigliari, spesso da tempo remoto, hanno garantito la trasmissione di ricette che, non solo ci sono giunte immutate, ma hanno creato consuetudini di gusto diffusesi anche nelle cucine di casa.

Nelle osterie troviamo ancora oggi gli immancabili cicheti da degustare al salto: baccalà preparato in vari modi, sardee in saor, folpeti col saeno, bogoeti, tripe e le immancabili uova arricchite con filetti d’acciuga o giardiniera.

Le uova erano presenti anche nelle famiglie più povere e venivano per lo più bollite e accompagnate con radici col pel conditi con il lardo a tocchetti desfrito.

Famose sono anche le fortaje con le erbette di campo e con la cipolla. Tra tutte la più famosa è la fortaja rognosa cucinata con tocchetti di sopresa trevisana e cipolla.

In La cameriera brillante di Carlo Goldoni, Brighella consiglia di andare a mangiare all’osteria e lo sdegnato conte gli dice: “giudichi tu che i miei pari vadano alle osterie?” e Brighella replica: “... alle osterie ghe van i primi signori, i primi cavalieri de rango… anche in campagna, dove i trata ben, con civiltà e con pulissia e se non fanno salse, torte, pasticci (ghe son tanti galantomeni che fan sensa ste cosse) preparano una gustosa cucina ‘alla casalinga’, con menestra de risi o de pasta fina, carne de manzo con un buon capon, un stufadin o quatro polpete, pan padovan, vin vizentin, tripe trevisane, done veneziane Anche Ortensio Landi nel suo Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia del 1553 magnificava l’ottimo pesce, il vino Marzemino, i lucci e le ranocchie di Padova, le trippe e i gamberi del Sile a Treviso. ”.


Per quanto riguarda la carne, le abitudini alimentari sono molto cambiate, infatti il benessere, le mode e un diverso rapporto con gli animali hanno comportato un cambiamento del gusto verso carni più raffinate o addirittura alla totale esclusione dalla tavola di qualsiasi cibo di origine animale.

Naturalmente non la pensavano così i nostri vecchi per i quali la carne costituiva un lusso e perciò veniva consumata in periodi particolari dell’anno e in occasione di ricorrenze importanti. Gli animali da cortile o quelli reperiti e catturati nei campi erano i veri protagonisti di questa preziosa categoria di cibo: anara rosta o coa peverada, oca rosta in forno, conicio e poeastro in tocio, faraona in tecia, piton (pioto o dindia), osei scampai, bogoeti, becanoti, poenta e osei, solo per citarne alcuni…


Molto apprezzate erano poi tutte le frattaglie, cioè le interiora degli animali macellati, bovini, ovini, suini: la coradea per esempio, cioè il cuore, il fegato, la milza e il polmone di agnello o la fongadina, cioè il polmone del vitello, lavato, tagliato, fatto insaporire con un trito di cipolla, pancetta, prezzemolo e rosmarino rosolati prima e poi cotto nel brodo, con concentrato di pomodoro e spezie, per qualche ora a fuoco dolce.

La fongadina veniva data anche per merenda durante il duro lavoro nei campi, specialmente a chi andava “a opera”, a batar formento, cioè a chi prestava aiuto nei momenti di maggior richiesta.

Per capire quanto fossero importanti le frattaglie nella cucina dei tempi andati, dobbiamo ricordare che Il piatto principe dei matrimoni era il risoto coe ciche (fegatini, duroni-durei e cuore principalmente di pollo). Altro piatto dei nostri vecchi era il risotto con le budella di gallina e/o pollo che venivano accuratamente lavate in acqua e aceto e poi cotte assieme ad un trito di cipolla e rosmarino, a questo composto si univa il riso e chi poteva, alla fine, aggiungeva parmigiano e burro.

Nei mesi invernali nelle case dei contadini e anche nelle osterie veniva preparato il brodo, non con le carni nobili prive di nervature come oggi, ma fatto principalmente con ossa e collo di gallina, punta di petto, tetina e spiensa, ovvero con la mammella senza capezzoli della vacca e con la milza. Tutto ciò dava un sapore particolare al brodo e veniva dato alle partorienti, perché ricco di proteine che servivano a far tornar in sì le neo mamme.

Sempre in inverno vi era la consuetudine di preparare la ossada, il piatto dell’amicizia, sinonimo di incontri conviviali con il quale si faceva di necessità virtù, infatti con essa si cucinavano lentamente in abbondante acqua varie parti del maiale: piedi, orecchie, coda, ossi della coppa, cotenne (scorsi), tendini e cartilagini con vari pezzi di costole, testa e colonna vertebrale. Oggi questo piatto rivive più per moda, non certo per non sprecare le parti meno nobili del maiale!


Come testimonia l’affresco presente nella chiesa di S.Giorgio a S. Polo di Piave che rappresenta l’Ultima Cena e la relativa tavola imbandita nella “gioia eucaristica”, un tempo erano molto diffusi i gamberi di fiume che, serviti fritti con fettine di polenta, venivano consumati soprattutto nel periodo quaresimale, assumendo, secondo alcuni studiosi, significati di alto valore simbolico-religioso I gamberi sono ritenuti simboleggiare la Resurrezione di Cristo a causa della mutazione annuale della loro corazza, con chiaro riferimento alla ciclicità del rito della Pasqua.
Inoltre i gamberi, poiché camminano all’indietro, farebbero riferimento al “dissenso teologico circa la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nelle forme del pane e del vino”, una delle forme più diffuse di eresia relative all’Eucarestia (tratto da Fossaluzza G., La Chiesa di San Giorgio in San Polo di Piave e gli affreschi di Giovanni di Francia, Gruppo per San Giorgio, 2010).
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Nell’accezione più comune i gamberi, cibo comune e accessibile a tutti, nella tavola riccamente imbandita di S. Polo, rappresentano la festa eucaristica nel significato di festa condivisa. Ma vediamo come vanno mangiati secondo questo divertente decalogo dettato dalla saggezza popolare:

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I diese comandamenti
ovverossia
La maniera de magnar i gambari de san Polo

1) Métarse el bavariol (grando)
2) Métar da ‘na banda piròn e cortéo (che no i ocore)
3) Ciapàr el gàmbaro intiero, coi dei, e cavarghe le sate par ciuciarle una a la volta. Quele grande,
bisogna strucarle fra i denti par magnarghe la polpa che le ga drento.
4) El gàmbaro – adesso – xe sensa sate. Ocore revoltarghe verso la testa la crosta granda che la ga
su la schena. Par ragiunger ‘sto intento, basta métar un’ongia dove finisse la crosta e scominsia
la coa, e alzar la crosta. Se vedarà el “coral” (bocon d’oro). Se lo assa star.
5) Se schinza la coa fra do déi, scomiziando dal fondo verso la testa.
6) Se se ciùcia i dei.
7) Se rivolta el gàmbaro par curarghe la coa, verzéndoghe le scorze da le do parte, come un scampo
o nà canocia.
8) Se ciucia le scorze (e, da novo, anca i déi).
9) Tegnendo el povaro gambàro – cussì mal ridoto – coi déi de tute le man, se lo rivolta par drito e
se magna el “bocon d’oro” insieme co quel che ghe xe ne la coa.
10) Se tocia la polenta nel toceto e se se torna a lecar i déi.

MORAL:
co no ghe xe pi gàmbari, xe bone anca le sate

(Testo di Giuseppe Schiratti, tratto dall’opuscolo proposto dai proprietari del ristorante Gambrinus di San Polo di Piave in occasione del Festival della cucina di Marca, anno 1964)

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Altro pesce che non manca mai nel Veneto è il baccalà, cioè il merluzzo sotto sale, da non confondere con lo stoccafisso Il termine stoccafisso deriva da Stokkfisk, parola norvegese che sta ad indicare la specie di merluzzo Gadus Morhua che produce uno stoccafisso magro, senza difetti, dalle carni callose e sode che viene lasciato ad essiccare per tre mesi., che è invece merluzzo essiccato.

La qualità migliore è la Ragno e proviene dalle Isole Lofoten (Norvegia).

In Italia dobbiamo la scoperta dello stoccafisso al veneziano Pietro Querini che lo scoprì in seguito ad un naufragio alle isole Lofoten e che nel 1432 lo portò a Venezia facendolo conoscere ai veneziani. La preparazione culinaria dello stoccafisso più nota nel Veneto è “alla vicentina” in tutte le sue varianti: “alla trevigiana”, “alla montelliana”, “alla bellunese”, “alla padovana”.

Sebbene un tempo fosse molto costoso, la gente non rinunciava a mangiarlo nei giorni di vigilia prescritti dalla chiesa, infatti alcune massaie abitanti nel Borgo Ruga a Paderno di Ponzano erano solite, la vigilia di Natale o il Venerdì Santo, andare a battere con il martello il baccalà sugli scalini del settecentesco Oratorio Rubbi, tanto da lesionarli.

Altro pesce, però più povero, diffuso tra i meno fortunati, era la renga (l’aringa) detta anche scopeton. Simbolo del digiuno, l’aringa, salata e affumicata, veniva appesa con uno spago sotto il lume a petrolio, così tutta la famiglia poteva sfiorare con una fetta di polenta abbrustolita questo salatissimo companatico.

Fino a vent’anni fa, dopo il passaggio della processione del Venerdì Santo, nei pressi dea Ruga (Borgo Ruga a Paderno di Ponzano) c’era l’usanza di riproporre l’antico rito dea renga.


Piatti tipici della tradizione veneta sono poi il risotto di bisato L’anguilla, pur essendo femmina, assume in Veneto il nome maschile di bisato, mentre nel Sud Italia di “capitone”.Vivendo nel fango, è opportuno “depurarla” lasciandola per qualche tempo in acqua corrente o addirittura, come consigliava il raffinato Alexandre Dumas, di nutrirla con chicchi d’orzo imbevuti di vino rosso. , specialità delle zone lungo il Sile, il bisato alla griglia e coi amoi. Le migliori anguille, per straordinaria delicatezza, si pescano a Canizzano e a S. Cristina di Quinto, infatti presso il famoso ristorante “da Righetto”, l’anguilla si poteva degustare in tantissime maniere.

Altri “pesciolini”, noti alla cucina veneta, ormai sempre più rari, sono i marsoni, le marcandole, le spinarioe, le masanete e le moeche Masanete: femmine di granchio provviste di guscio, consumate alla fine dell’estate quando sono piene di uova e prendono il nome di masanete col coral. Moeche: granchi verdi in fase di muta, quando cioè, nello spazio di poche ore, 124 125 nei mesi primaverili (aprile e maggio) e autunnali (ottobre e novembre), abbandonano il loro rivestimento (carapace) e si presentano teneri e molli.
LEON IN MOECA, ovvero il Leone di S. Marco rappresentato frontalmente e accovacciato, che assume un aspetto che per la forma delle ali appare simile a quello di un granchio: una forma più utile da utilizzare negli stemmi e nei sigilli, dando una rappresentazione più raccolta.
: specialità tipicamente venete da consumarsi soprattutto fritte o semplicemente condite con aglio, olio, sale, pepe e prezzemolo.


Caratteristiche della cucina casalinga, ben nota alle osterie, sono le lumache preparate con olio, aglio prezzemolo, vino bianco, sale, pepe e servite calde con l’immancabile polenta. In qualche osteria si servivano anche in tocio, ovvero in umido con del pomodoro o con l’accompagnamento di ciodeti.

L’abitudine di cibarsi di questi gasteropodi è antichissima, tanto che i Romani ne andavano ghiotti e si attribuisce a Fulvius Lupinus l’arte di ingrassare le lumache.

Prima di passare alla cottura, per alcuni giorni, bisogna effettuare la cosiddetta PURGA con acqua sale e aceto e diversi risciacqui, questa procedura non è uno sfizio per migliorare il sapore e la consistenza della lumaca, ma una necessaria precauzione. Una volta ripulite di tutte le impurità, le lumache vengono fatte bollire una prima volta per far uscire il mollusco dal guscio, poi si fanno bollire una seconda volta in una specie di “fumetto” con acqua, vino e aromi.

Altri piatti tipici oramai entrati nel dimenticatoio sono il risotto e il guaseto di rane preparati con le coscette spellate ed eviscerate.

I non più giovani ricordano che nel periodo primaverile si scatenavano delle vere e proprie gare di chi ne prendeva di più, infatti, presso le acque sia correnti che stagnanti, “cacciatori notturni” andavano a rane muniti di lampioncino per abbagliarle e schiral (retino circolare) per raccoglierle.


Anche la primavera aveva le sue consolazioni gastronomiche, specialmente nel periodo di Quaresima. Tra bruscandoi (luppolo), s-ciopeti (silene inflata), rosoine (germogli di papavero), rustegot (asparagi selvatici) e altre radicee, c’era da sbizzarrirsi!

Tante le ricette che vedono protagoniste le erbe di campo: la zuppa di ortiche, la fortaja coi bruscandoi, le erbe in tecia come gli amaricanti pissacani (tarassaco) con pezzetti di lardo scaltridi, fino all’originale risotto con “occhietti della Madonna” proposto da Giuseppe Maffioli.


Uno dei piatti più caratteristici della cucina di Marca, considerato importante per la qualità degli ingredienti e per il conseguente valore nutrizionale, è la Sopa Coada“sto strambesso de ciamarla Supa coada el vien proprio par via de la so maniera de essar cota. Defati, se la deve cusinar a pia a pian, proprio a somegiansa de come la galina coa i so vovi par far nassar el pitusso” (da A tola co i nostri veci di Mariù Salvatori de Zuliani, pag. 91.).  pasticcio di piccioni da servire in occasioni solenni.

La ricetta originale, di cui si hanno notizie scritte a partire da fine ’800, prevedeva a persona un piccione novello, un “montasù” fresco e croccante (tipo di pane), due cucchiai di parmigiano grattugiato, una tazza di brodo ristretto, fiocchetti di burro, un pizzico di sale, olio, un cuore di sedano; ne esiste una variante “mottense” con gallina novella o tacchinella al posto del piccione.

Un vero classico della cucina veneta è rappresentato poi da la Pasta e Fasioi, da sempre cibo umile e antichissimo, emblema delle mense agresti, “carburante” delle fatiche del contadino.

Tra i fagioli più noti ricordiamo quelli di Lamon nel bellunese che, fino a qualche decennio fa, venivano insaporiti da orecchia, piedino e codino di maiale.

La versione aggiornata prevede, oltre ai fagioli e alle cipolle, facoltativamente anche del sedano con rosmarino ed aglio. Oltre alle consuete tagliatelle di semola di grano duro, vi si possono mettere anche le tirache (bretelle), tagliatelle non troppo sottili, né larghe, ma di un certo spessore, piuttosto consistente da assomigliare a delle vere e proprie bretelle.

Durante la stagione invernale e primaverile vi si aggiungono il radicchio trevigiano condito con aceto di vino rosso o il radicio verdon da cortel, vera leccornia per gli amanti della tradizione.

Ma leggiamo quest’ode dedicata alla più famosa minestra della cucina veneta:


Pasta e fasioi

O regina de tute le minestre,
che a qualchidun ti pari volgarota,
parchè ti movi un poco le balestre,
lassa che te saludi a la fraiota
e te proclama sensa petulansa
la gran Regina de la nostra pansa!
Fissa, mora, color de ciocolata,
no digo freda, apena tiepideta,
co la so pelesina mantecata
e co la relativa codegheta
la score zò gualiva come l’oio
sensa petegolessi e sensa imboio!

Drento ghe xe la cara lasagneta
O subiotini, o tagliadele more,
co i so mati sporchessi de panseta
che, da la boca, i riva infin al cuore;
e zò ste scuciarade a tuto andare,
che apena te si bon de respirare!
No gh’è ne fiorentini ne romani
che sapia sfasolar in sta maniera,
e gnanca milanesi o maremani!
Solo la zente de la nostra tera
pol vantarse de far e co rason,
el vero “Ciocolato de Lamon”!

(da Onze de sogno ed. Tavernetta, Padova)


Vasto e variegato è il panorama dei dolci della tradizione veneta, per questo ne citeremo soltanto alcuni fra i più noti per poi concentrarci su quel dolce diventato ormai internazionale che è il tiramusù.

Vanno ricordatiBaicoli: specialità del biscottificio veneziano Colussi. Questo biscotto non mancava mai fra le provviste di bordo dei vascelli battenti bandiera S.Marco. Esso aveva ed ha, oltre al pregio della bontà, anche quello della lunga conservazione. Viene fatto con farina di frumento, grassi vegetali, latte, lievito di birra e sale. Il suo nome deriva da un pesciolino lagunare di cui ne ricorda la forma del corpo.
Bussoeai: biscotti veneziani altrettanto famosi quanto i baicoli, hanno la forma di un grosso grissino arrotolato a cerchio. Sono fatti con pasta di pane, farina di frumento, acqua, lievito di birra e sale.
Baldon-Sangueto: dolce della tradizione contadina proposto alla Sagra dei Baldoni a Breda di Piave, preparato con il sangue del maiale.
Pinsa:dolce appartenente alla tradizione veneto- friulana preparato ancora oggi nel periodo invernale durante le feste natalizie fino all’Epifania. La tradizione vuole che venga preparata con farina di mais cotta a mo’ di polenta con aggiunta di uvetta sultanina, pinoli, canditi, semi di finocchio, zucchero, grappa, buccia d’arancia e cotta avvolta nelle foglie di verza cosparse di cenere del larin.
Zonclada: citato dal Marchesan in Treviso medievale, questo dolce veniva donato come ricordo del Comune di Treviso a notabili e ambasciatori provenienti da altre zone d’Italia.
Il nome deriva da “zonchiada”, ovvero giuncata, latte rappreso. Uno statuto trevigiano del 1313 ne dà le linee guida per la produzione: doveva pesare una libbra (300 g circa), essere ben cotta e il latte doveva contenere anche la parte grassa. Attualmente viene preparata con una base di pasta frolla, frutta secca, latte rappreso o ricotta.
  i baicoli, gli ossi de morto o biscoti del Piave, i bussoeai, il baldon-sangueto, la crema frita, i crostoi, le fritoe, la codognada, le offelle, le fugasse, la pinsa, le spumilie, le stracaganase, i zaeti, la zonclada e l’elenco potrebbe continuare…

Per quanto riguarda il Tiramisù, molto è stato detto e tanti ancora oggi ne vantano la primogenitura, una cosa certa è che lo scrittore Giovanni Comisso non sbagliò nel dire che nacque nelle case di tolleranza in “Cae de Oro”, cioè in un quartiere malfamato di Treviso, popolato dalla mala trevigiana rappresentata, tra gli anni ’30 e ’40 del ’900, da ladri di pollame e da prostitute.

Tra i primi a diffondere questo semplice dolce fatto di uova, caffè, zucchero, marsala e biscotti, fu Alfredo Beltrame, il celebre ristoratore, fondatore negli anni ’60 dell’altrettanto celebre catena di ristoranti col marchio “El Toulà”.

Il Tiramisù fu poi perfezionato da Loli Linguanotto e Alba Di Pillo Campeol del ristorante “le Beccherie” di piazzetta Ancilotto a Treviso. Nel 1958 Speranza Bon del ristorante “Al Camin” alle Stiore sempre a Treviso, ideò, in occasione della visita di una principessa greca, un dolce monodose che prese il nome di Coppa Imperiale: esso prevedeva l’uso del Pan di Spagna al posto dei tradizionali biscotti savoiardi.

Ma cibo a parte, ciò che dava fama e prestigio all’osteria era sicuramente il VINO, che doveva provenire da vitigni di tradizione, sicuri e di provata qualità come il Raboso, il Verdiso, il Verduzzo, il Prosecco o il Marzemino. Un antico modo di dire ci fa capire quanto fosse importante questa bevanda da sempre “ispiratrice” di allegria, piacere, sollievo, conforto e consolazione:

A chi no ghe piase el vin Dio ghe toga l’acqua

Sante Rossetto in un articolo dell’agosto del 2016 ricorda che, per tradizione ricevuta dai nonni, il primo di agosto di tanti anni fa, al mattino, appena alzati, a stomaco vuoto, si doveva bere un bicchiere di vino bianco, perché questo avrebbe protetto il bevitore dalle febbri per il resto dell’annoI non più giovani ricordano, molti se non tutti, che per tradizione ricevuta dai loro nonni e più su ancora, si beveva, se non addirittura si dovesse bere, al mattino appena alzati a stomaco vuoto un bicchiere di vino bianco. E giustificavano questa inconsueta, e incomprensibile, bizzarria con la frase, anche questa enigmatica, che quel bicchiere di bianco avrebbe protetto il bevitore dalle febbri per il resto dell’anno. Se qualche bambino, sorpreso da quell’uso, chiedeva da quali febbri ci si dovesse proteggere anziani e meno anziani alzavano perplessi gli occhi: «I ga senpre fato cusì e anca mi foo cusì». E con una scrollata di spalle se ne andavano nei campi quando il sole ormai cominciava a imbrullire prati e saturchi nei campi arsi.
Ma quel bicchiere di bianco un motivo ce l’aveva. Solo che risaliva a oltre una mezza dozzina di secoli prima. La spiegazione dell’inveterata usanza ce l’aveva data proprio il Gazzettino in un articolo di qualche decennio fa. Ed era una storiella simpatica, che, nonostante fosse inverosimile, era riuscita a rassodarsi nella coscienza comune solcando la storia della Marca.
Siamo intorno al XIII secolo. La regina d’Ungheria, in estate, si trova in viaggio nel Veneto di allora che, ricordiamolo, si sta barcamenando tra Comuni e prime Signorie. Da Venezia, che la sovrana non poteva non visitare, si mette in strada per arrivare a Padova. La città di S. Antonio era ai primordi della gloriosa storia universitaria che la renderà un centro culturale europeo. La regina, però, arrivata a Mogliano si sente male ed è colta da un assalto febbrile. La cittadina trevigiana, a quei tempi, era immersa in una costellazione di paludi, acque stagnanti e, quindi, di nuvole di zanzare. Che portavano con sé la malaria con le temibili e spossanti febbri. La regina viene ospitata in un convento di suore. Allora conventi se ne trovavano senza difficoltà e servivano anche come ostelli. Tanto più se l’ospite era di riguardo come in questa occasione. Che quelle della nobildonna ungherese fosse febbri dipendenti da punture di zanzare le buone suore e il seguito della regina probabilmente non lo sapevano. Fatto sta che l’augusta sovrana non accennava a rimettersi. Anzi peggiorava di mattina in mattina.
Siamo alla fine di luglio e nei campi le viti primaticce già biondeggiano di bei grappoli di uva di S. Anna.
I coloni del monastero hanno già pigiato le prime uve e nel tino fermenta il dolce mosto ambrato.
La sera dell’ultimo di luglio la regina è in fin di vita. Le suore sono disperate. Ad un tratto la badessa corre verso il tino ribollente con un secchio. Alle sorelle esterrefatte comanda di riempirlo con il mosto. «Perché mai?» si interrogano con gli occhi. «Fate così e basta» taglia corto la non più giovane madre superiora. E appena vede che il contenuto è sufficiente corre con il secchio nella camera della regina e le fa bere una buona quantità di vino frizzante. Poi aspettano sperando nel miracolo. Che si avvera. Perché il mattino seguente, che è il primo di agosto, la nobildonna si alza dal letto briosa e vivace. Guarita, senza più alcuna accenno di febbre. E può riprendere il cammino per Padova.
Vera o no che sia la storiella, da quel giorno di agosto di sette-otto secoli fa i trevigiani hanno continuato fino ad oggi a gustare un bicchierozzo di bianco il mattino di quel giorno fatidico. Dicendo che grazie a quel rituale le febbri non li avrebbero assaliti. E anche oggi, magari per celia, ci sono di quelli che a questa piacevole tradizione non vogliono rinunciare. Anche se il vino non vanno a raccoglierlo dal tino ammostato ma dalla bottiglia.
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Nelle antiche osterie però venivano serviti vini molto rustici e raramente di pregioA Paderno Lorenzo Serena commerciava in vini e ciò viene confermato anche dalla Guida di Treviso e Provincia. Biennio 1926-1927 dove viene nominato tra i venditori di vini all’ingrosso.
Questo lavoro che doveva trattare, quasi sicuramente, vini provenienti da tutt’Italia doveva essere molto redditizio, specialmente durante la 1a Guerra Mondiale, quando la villa Serena, vicina al fronte, divenne sede di un comando militare e il vino di qualità era molto richiesto.
Infatti Lorenzo Serena, al contrario della sua famiglia che dopo Caporetto fu sfollata a Faenza, rimase a Paderno per occuparsi appunto del commercio di vini.
  e questo perchè già dalla fine del 1800, tra Lombardia e Veneto, vi fu una vera e propria contaminazione causata dalla Peronospera (Peronospora) che colpì in brevissimo tempo i nostri vigneti autoctoni e che imperversò violentemente, tanto da essere obbligati ad innestare le nostre viti su vitigni d’importazione americana, inattaccabili dalla Peronospora e dall’Oidio e che richiedevano pochissima manutenzione, dando un risultato soddisfacente.

Non si trattava di vitis vinifera, ma di incroci dai quali derivarono tra l’altro il vino CLINTON ed il SEIBEL, vino di uva dal piacevole aroma e gusto di fragola. Durante la vendemmia infatti, con il mosto di uva fragola e la farina, si preparava una specie di crema scura dolcificata con lo zucchero che veniva fatta bollire ottenendo i cosiddetti sùgoi.

Nelle zone più colpite dalla Peronospora i contadini ripiegavano anche su un altro tipo di uva di nome BACÒ di origine francese, diffusosi oltre che in provincia di Treviso, anche in quasi tutto il Veneto.


Nelle nostre campagne esistevano due tipi di viti americane dal nome simile: Il Clinton e il Clintòn, la cui differenza stava nella grandezza dei chicchi. Questo vino veniva servito in apposite ciotole (squee) un po’ in tutte le osterie, anche se quella più famosa in assoluto è rimasta la Colonna a Treviso, ormai chiusa da diversi anni.

A volte in certe zone del trevigiano lo stesso Clinton veniva chiamato CRINTO, quasi ad insistere, marcando la R, sulla durezza della bevanda che ne derivava, che si caratterizzava per un rosso scurissimo quasi violaceo, per il profumo acuto e per il sapore quasi piccante, tanto che i nostri vecchi affermavano che bere vin clinton e avere i baffi voleva dire essere veri omeni.

Oggi questi vini, messi al bando dalla legge, sono ancora prodotti a livello famigliare e considerati, con una certa nostalgia, “vini del nonno”.

Naturalmente, quando i benefici effetti degli innesti cominciarono a farsi sentire e furono introdotti prodotti chimici in grado di difendere le viti da quelle malattie di inizio secolo che avevano devastato la nostra produzione vinifera, nelle osterie si iniziarono a servire vini più raffinati quali il Tocai, il Cabernet, il Merlot, il Verduzzo e tanti altri.


Un alcoolico che non mancava mai nelle nostre osterie era la GRAPPA, o meglio la GRASPA, nome che deriva con molta probabilità dal termine graspa con cui è chiamata nel Veneto. Graspa deriva a sua volta da graspo che in Veneto, significa tralcio d’uva Non vi è alcuna relazione con il monte Grappa, e quindi neppure con Bassano del Grappa, dove per primi idearono la distillazione delle vinacce e dove tuttora si trovano alcune delle più celebri distillerie della regione e d’Italia. La grappa è un distillato, esclusivamente italiano, di vinacce fermentate ricavate da uve prodotte e vinificate esclusivamente in Italia e distillata solo sul territorio nazionale. Da non confondere la grappa, che è appunto un distillato di vinacce fermentate, con l’acquavite d’uva, che è un distillato di mosto. Allo stesso modo, la grappa non è un distillato di vino (Brandy se invecchiato in legno e Cognac o Armagnac se francese). Quindi distillato di vinacce, distillato di mosto (d’uva) e distillato di vino sono tre bevande alcoliche diverse. .

Nelle campagne era consueta l’abitudine di recarsi nelle osterie, anche di prima mattina, per bere un biciarin de graspa che dicono avesse pure funzione di disinfettante e di medicinale naturale. Oltre alla grappa “ufficiale”, le osterie tenevano nascosta sotto banco quella “clandestina”, cioè la grappa distillata in casa, meglio conosciuta come steìna che gli osti riservavano per i clienti di riguardo o per le occasioni speciali Priva di gabelle sotto la Serenissima, la distillazione della grappa venne gravata di tasse sotto la dominazione napoleonica e sotto quella austriaca. Il che comportò un’elevata distillazione clandestina e la grappa fu chiamata in vari modi: stellina, saltafossi, furba, perché la si distillava di nascosto, tra i campi, i cespugli, nei sentieri del bosco (graspa da troi) per sfuggire ai controlli. Sulle montagne che confinano con l’Austria la grappa venne chiamata SGNAPA (SCHNAPS acquavite in tedesco) e così la chiamarono i nostri Alpini che durante la Grande Guerra la fecero conoscere ai soldati di tutte le provenienze.).

La grappa ha sempre rappresentato nell’immaginario collettivo il liquore della gente povera, ma forte, attaccata alla terra, compagna nella fatica dell’alpino così come nel duro lavoro del contadino.


Alla fine di questa lunga trattazione che, seppure incompleta, spero abbia reso onore alla vera cucina veneta della tradizione, non posso non ricordare due personaggi che hanno dato lustro più di ogni altro alla cucina trevigiana e veneta: Giuseppe Maffioli Maffioli G., Il ghiottone veneto, Ed. Bramante 1968. Manoscritti di Giuseppe Maffioli, anni ’60 -’70.  e Alfredo Beltrame.

Il primo per la rigorosa ricerca storica che, attraverso la trascrizione di antichi manoscritti di arte culinaria, ha fatto conoscere la cucina di tradizione in tutta la sua veridicità ed originalità.

Il secondo per aver captato l’importanza di diffondere, in Italia e all’Estero, questo immenso patrimonio gastronomico, fondando una catena di ristoranti incentrata principalmente sulla valorizzazione delle materie prime e dei piatti tipici della cucina veneta.

Auspico di cuore che, anche attraverso questa pubblicazione, le nuove “leve” sappiano interpretare e cogliere l’importanza della tradizione, così da trasmettere alle nuove generazioni, ciò che abbiamo ereditato da chi, con sacrificio e costanza, ha mantenuto inalterato il rituale del ristoro e dell’ospitalità finalizzato a far star bene chi ne godeva.


Note: